Una patologica normalità. Il pallore dei padri.

Stupro 2

di Paola Zaretti /Una patologica “normalità”. 

Uccidere le donne è normale? E gli uomini che uccidono le donne possono davvero  essere considerati normali?

Io credo di no. Eppure, così si dice, eppure pare sia questa, proprio questa la tesi dominante accreditata in un certo ambito femminista, una tesi vera e falsa al tempo stesso. Ora, dal fatto che gli uomini che uccidono le donne vengano considerati campioni di “normalità”, al sentirci autorizzate a concludere che uccidere sia “normale”, il passo sarebbe breve. Eppure uccidere non è affatto “normale”. Ma se uccidere “normale” non è, perché tanta insistenza sulla “normalità” degli uomini che uccidono, perché, a che pro rimuovere e archiviare l’ipotesi che questi assassini siano psicologicamente disturbati e che i loro gesti criminosi siano la prevedibile conseguenza di turbative la cui matrice va ricercata all’interno di un ordine simbolico patogeno?

La ragione di questa rimozione è semplice: ammettere che certi comportamenti derivino da una patologia, andrebbe a ridurre sensibilmente, secondo alcune, il carico responsabilità e di colpevolezza degli  esecutori dei crimini perpetrati contro le donne, una responsabilità e una colpevolezza assolute cui nessuno sconto, a attenuante può né deve togliere questo carattere di assolutezza. L’attribuzione di patologie agli uomini che uccidono si rivelerebbe infatti, per alcune, un modo per sminuire e ridimensionare il peso di una loro giusta condanna giuridica, morale, sociale.

Fermo restando che nessuno sconto va fatto a questi assassini considerati “normali”, la faccenda è, come spesso capita, un po’ più complicata.  Capita, in effetti, che  il  comprensibile timore, da parte di alcune, che lo stigma della “patologia” riduca la responsabilità degli autori dei misfatti, sfoci nella tesi, altrettanto discutibile,  della loro normalità, una tesi che sgancia e scinde la violenza maschile dalle sue profondissime radici, da un quadro simbolico patogeno inevitabilmente produttore, a sua volta, di patologie che, solo all’interno di quel quadro – cui risultano essere del tutto congruenti – possono assumere un falso carattere di “normalità”. Come dire, insomma, che quando la patologia e il disordine di un “ordine” simbolico monosessuato e discriminante nei riguardi di un sesso diventa Norma,  uccidere le donne diventa del tutto “normale”.

Non intendiamo qui soffermarci sulla vexata quaestio – la  vecchia opposizione   fra  “normalità” e ”patologia” – su cui si molto s’è detto e scritto, ma sui possibili effetti, nel singolo uomo, di patologie derivanti da un ordine simbolico monosessuato che nell’escludere, cancellare, eliminare, “uccidere”, la soggettività femminile e nel ridurre le donne a soggetti neutro-maschili, ne autorizza e ne fagocita la distruzione. Sarà dunque solo a partire da un’analisi critica di tale sistema e dal riconoscimento della sua patologia – in cui diventa “normale” ciò che normale non è – che l’affermazione secondo cui gli uomini che uccidono sono normali può avere un senso mentre tale affermazione resta, al di fuori di tale contesto, difficilmente sostenibile. Allargando dunque il nostro orizzonte e analizzando il contesto culturale e simbolico in cui la violenza  contro le donne nasce, cresce, si struttura e  viene agita, possiamo affermare che gli uomini che uccidono non sono “normali” ma patologicamente determinati dalla stessa patologia che affligge il sistema di pensiero fallocentrico entro il quale sono nati, cresciuti e formati.