Da un frammento di Saffo: “Ho una bella figlia, l’amata Cleide che ha l’aspetto simile a fiori d’oro in cambio della quale io né la Lidia intera né l’amena…(incompleto)”
RECIPROCITÀ
Ci sono cataloghi di cataloghi.
Poesie sulle poesie.
Drammi su attori recitati da attori.
Lettere a causa di altre lettere.
Parole per spiegare parole.
Cervelli intenti a studiare il cervello.
Tristezze contagiose come una risata.
Carte che provengono dal macero di carte.
Sguardi veduti.
Casi declinati secondo i casi.
Fiumi grandi con serio contributo dei piccoli.
Boschi ricoperti di bosco fino al ciglio.
Macchine adibite a fabbricare macchine.
Sogni che all’improvviso ci destano dai sogni.
Salute necessaria per tornare in salute.
Tanti scalini a scendere quanti sono a salire.
Occhiali per cercare occhiali.
Respiro che inspira e espira.
E almeno una volta ogni tanto
ci sia l’odio dell’odio.
Perché alla fin fine
c’è l’ignoranza dell’ignoranza
e mani reclutate per lavarsene le mani.
(Wislawa Szymborska)
“Quando lui non mi guarda, cerco la mia immagine sul muro: E vedo solo un chiodo, senza il quadro”. Wislaswa Szymborska
LA GIOIA DI SCRIVERE
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi ad un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
(Wislawa Szymborska)
L’allodola canta per tutto il giorno, e il giorno non è lungo abbastanza.
Matsuo Basho (1644 – 1694)
ACCANTO A UN BICCHIERE DI VINO
Con uno sguardo mi ha resa più bella,
e io questa bellezza l’ho fatta mia.
Felice, ho inghiottito una stella.
Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
nel battito di ali improvvise.
Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
Io invece sono immaginaria,
incredibilmente immaginaria,
immaginaria fino al midollo.
Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d’amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.
Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un’invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell’abbraccio
che mi crea.
Eva dalla costola, Venere dall’onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
(Wislawa Szymborska)
Nulla verrà più Nulla verrà più. Non vi sarà più primavera. Almanacchi millenari lo predicono a tutti. Ma nemmeno estate e altre cose che recano il bell’attributo estivo nulla verrà più. Non devi assolutamente piangere, dice una musica. Nessun altro dice qualcosa. Ingeborg Bachmann
Credo che a volte i feriti parlino così ai feriti e poi continuano a vivere da qualche parte, come anch’io continuo a vivere da qualche parte, coperta da tutte le possibili ferite. Ingeborg Bachmann, Malina
RITRATTO DI DONNA
Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima venuta, l’unica al mondo.
Gli darà quattro figli, nessuno, uno.
Ingenua, ma ottima consigliera.
Debole, ma sosterrà.
Non ha la testa sulle spalle, però l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a che serva questa vite, e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, sempre ancora giovane.
Tiene nelle mani un passero con l’ala spezzata,
soldi suoi per un viaggio lungo e lontano,
una mezzaluna, un impacco e un bicchierino di vodka.
Dove è che corre, non sarà stanca?
Ma no, solo un poco, molto, non importa.
O lo ama o si è intestardita.
Nel bene, nel male, e per l’amor del cielo!
(Wislawa Szymborska)
Il tetto si è bruciato: ora posso vedere la luna. Masahide
LEGNO E SCHEGGE
Dei calabroni non farò parola,
perché è facile riconoscerli.
E anche le rivoluzioni in corso
non sono pericolose.
La morte a seguito del frastuono
è ormai decisa da sempre.
Ma guardati dalle celebrità effimere
e dalle donne, dai cacciatori domenicali,
dai cosmetisti, dagli indecisi, dai bene intenzionati,
che nessun disprezzo riesce a scalfire.
Dai boschi recammo sterpi e tronchi,
e il sole a lungo tardò a sorgere per noi.
Inebriata da sequele cartacee
non riconosco più i rami,
né il muschio, che fermenta in cupi inchiostri,
né la parola, nelle cortecce incisa,
schietta e temeraria.
Logorìo di fogli, nastri registrati,
cartelloni neri… Giorno e notte
freme, dovunque sotto le stelle,
la macchina della fede. Ma nel legno,
fintanto ch’è verde, e con la bile,
fintanto ch’è amara, sono intenzionata
a scrivere quello che fu in principio!
Badate a mantenervi all’erta!
La traccia delle schegge volate è inseguita
dallo sciame dei calabroni
e intanto alla fontana
si ribella alla seduzione,
che un tempo ci ha fiaccati,
la chioma.
(Ingeborg Bachmann)
24 CAPITOLI COME L’ILIADE E L’ODISSEA
questa è una storia di guerra senza la guerra
perché in fondo quello che vedi non conta
mentre quello che guardi è la Terra che calpesti
il sangue che hai versato goccia per goccia,
parola per parola pronunciata guardandomi
negli occhi, a me che amavi come non si può
amare, di me che volevi come non si può volere
eppure atto fondante certamente del tuo mondo
come del nostro, mio malgrado, mio come tuo.
Mio malgrado, nostra la violenza che ci ha resi
ciò che non siamo, eppure non a schiaffi ma a
carezze ci ha preso le mani gonfiandoci le guance
di sussulti d’odio, eppure non era quello che volevo
dire, di questo ne sono certa, una trappola mortale.
Parlavamo d’amore in uno scenario di guerra,
le nostre parole erano guerra, i nostri scudi
erano bucati, il mio più del tuo, mi piaceva bucarlo
da me, con le mie mani, pensavo che se ti avessi
fatto vincere le mie parole avrebbero avuto una
giusta traduzione. Ma la giusta traduzione non
esiste, non c’è nulla da leggere tra le righe,
quello che è stato è li di fronte a noi, attraverso
di noi, sotto gli occhi di tutti ogni giorno,
eppure troppo sangue copre la sottigliezza
di sguardi già visti, ogni giorno, su visi conosciuti,
sconosciuti o ignorati, ebbene, una guerra senza
la guerra, fatta di schiaffi invisibili che mai ci si accorge
di aver dato o ricevuto, ve la racconto io la guerra
senza la guerra, l’amore perduto, il delirio del mondo.
(Leda Bubola)
Io qui. Tu là. Tu lì. Io qua. Patrizia Cavalli
UOMO DONNA MADRE, E’ INCREDIBILE, FORSE.
L’impotenza dei tuoi occhi
Ghiacciati dalla sofferenza
Madre offuscata dalla tua
Memoria di bambino,
sono io, quel respiro
spezzato a metà.
I tuoi sogni nell’innocenza
Dei miei desideri, li hai
Strappati come fiori
Appena nati, quanto mi
Dicesti di volerli proteggere.
Antico è il mio pianto di
Donna, come se nelle tua
Immagine m’uccidessi
Tagliando ora lo stesso filo
D’amore dal quale mi alimentavi.
Ma ero io, io alimentavo te,
sopravvivesti nell’immagine
riflessa della tua dipendenza,
non si può vedere ciò che è
lontano.
L’importante era essere
Altro da te, per disconoscerti
dello stesso abisso che ti compone,
anima pietrificata da un amore
incapace e troppo.
Lo so, crolleresti, per questo
Senza amore ti ho cullato
Nella sicurezza della mia fedeltà,
feci il voto di sostenere
l’avidità in te.
Ho rinunciato per amor mio
Ma ora quel respiro che mi hai
Spezzato, non mi ritorna più,
quel filo che hai reciso
mi ha divisa.
Ero venuta per unirti
Ma sono tornata spezzata.
(Leda Bubola)
T’ho offerto la mia mano
al confine tra l’essenza e l’esistenza
nell’equilibrio di ghiaccio
sul quale cammino
lentamente
Passo dopo passo
seguono albe e tramonti
nascite e morti
coronate di lacrime
di bellezza
Scintille distribuite
tra le anime disperse
bocciòli di rosa
da coltivare
accuratamente
T’ho offerto la mia mano
perchè te volevo
in quel momento
a guardare con me quella pioggia
di diamanti
….Silenzio.
(Leda Bubola)
SCRIVO NEI TERRITORI DELL’ABBANDONO
Scrivo nei territori
dell’abbandono
in quel confine che mi unisce
al cielo
e pensandoti si allargano
le camere del cuore,
sei presente a oltranza
ma vincolo la tua assenza
in uno spazio, in un tempo
ben preciso
tra il sonno e il cuscino
non ti cerco
per non scoprirmi
unica e sola,
nel sospiro notturno
alla luna
baratto le parole con la musica
e sono nell’abbraccio della vita
che scorre.
(Agata De Nuccio)
RUBRICA EMOZIONALE
Eppure c’è qualcosa che non mi torna
quando consulto la mia rubrica emozionale
se mi chiedo quale è il colore
delle nuvole dentro un bicchiere di latte.
Diverse sfumature di linguaggio
trovano accordi di note
appese nella stanza del cuore.
L’intonaco è sbucciato
come la corteccia di un albero
guarirà il mio piccolo grande soldato
sentirà un lieve tepore
dopo aver tagliato il cielo
con una punta di dolore.
(Agata De Nuccio)
NONOSTANTE L’UOMO
Nonostante l’uomo
il fiume
attraversa le foreste
e varca la porta del mare,
nonostante il petrolio
e la miseria dell’animo
il richiamo della terra
echeggia profondo e sonoro
la gola si allarga
diventa voragine
i fianchi del mondo si abbassano,
senza alberi
lasceremo deserti e fame.
Nonostante l’uomo
il poeta
affonda la penna
verso il basso
a cercare il profondo bisogno
di sostenere la terra.
(Agata De Nuccio)
Essere paziente essere respiro
Sognare la notte Guardare.
Camminare come una danza parlare come un canto
Danzare un visione una stella
– bagliore senza punta Sale senza lacrima un prato,
una notte caldissima E poi i sogni,
dalla finestra e ora finalmente Parole.
(Marina Da Canal)
Non scordare: noi camminiamo sopra l’inferno, guardando i fiori. Issa (1763-1828)
“Fenice” faccio le cose due volte prima senza accorgermene e poi con lo sforzo dell’intenzione. Sono una donna così. Cerco sempre qualcosa che dovrà arrivare sono vorace, vivo anche in clausura contratta come un uccellino, mi posso perdere, sono una donna così.
(Nicoletta Nuzzo, da Grembo)
…. a proposito di Tabulae Rasae e Scriptae… “Ecco i versi del primo poeta della storia umana, della cui esistenza storica siamo scientificamente certi; una persona che visse, scrisse e insegnò 2.000 anni prima di Aristotele. I 153 versi originari furono vergati in caratteri cuneiformi su tavolette di creta e potevano essere letti sia dall’alto in basso che trasversalmente….”(Maria Di Rienzo)
Sapiente, Saggia, Signora di tutte le terre, che fai moltiplicare ogni creatura vivente e le genti, io ho reso nota la tua canzone sacra. Dea che dà la vita, appropriata per me, di cui si acclama. Compassionevole, donna che dà la vita, cuore raggiante, io ho detto questo in tua presenza, in accordo con i divini poteri. Di fronte a te sono entrata nel luogo sacro del tempio. Io, l’Alta Sacerdotessa, Enheduanna, reggendo il cesto delle offerte, ho liberato la mia voce in un canto gioioso. (…) Mia signora, io proclamerò la tua grandezza in ogni paese. Il tuo sentiero e le tue azioni loderò per sempre. Io sono tua! E lo sarò per sempre. Io, Enheduanna, l’Alta Sacerdotessa della Luna.
L’alfabeto cuneiforme sumero fu creato attorno al 3200 a.C., specificatamente per ragioni contabili (quante pecore, quanti vasi, e via così). Le prime tavolette che contengono liste di nomi datano a circa cento anni dopo. Quando Enheduanna compone le sue poesie (che venivano cantate) la scrittura nel suo paese, l’odierno sud dell’Iraq, ha circa 350 anni e gli ideogrammi sono una novantina. Le precedenti tavolette che abbiamo sono del tutto anonime: Enheduanna è la prima a identificare se stessa nello scritto, ed è la prima a scrivere poesia (…). La prima poetessa della storia umana è una donna. (Maria Di Rienzo)
ENHEDUANNA, di Amal al-Jubur
A coloro che sono più crudeli
dei tiranni e del loro esercito
è giunta l’ora, torri,
di abbandonare il corpo annerito
di questa terra di sospiri.
Avete riesumato sufficienti morti
mentre scavate nelle vostre cospirazioni
in questi giorni di decadenza.
E’ giunta l’ora
che il vuoto colmi le mie vene
restringendo con dolore tutto
quel che è defluito nel mio cuore affranto
dimenticato nel tempio dei Bavari
come una luna oscurata da nebbie passeggere.
Torri, nulla ci lega ora
solo il silenzio
del vostro arido deserto.
Andatevene oppure fate qual che vi pare,
mettetemi nell’occhio del ciclone
per disperdere la mia gioia
nelle chiacchiere delle nubi.
Dite quel che volete:
lei è passata di qui,
ha riposato lì.
Nella sua coscienza
le urla dei nostri spettri
che le inumidiscono le labbra, ecco
i confini di Uruk,
il segreto di Akkad,
nel suo corpo vivono giardini pensili
appesi a questa colona di rovine.
Lei era il gioiello di Sargon,
ora è la sacerdotessa della frammentazione.
Urlate e non dimenticate,
monumenti maledetti,
che il cuore di Enheduanna
era più grande della
Scrittura di questi tiranni.
ENHEDUANNA E GOETHE
Siamo diversi:
tu hai pensato e poi scritto i tuoi versi,
io ho dato vita alle mie poesie,
poi ho espresso il mio pensiero.
Perché mi biasimi quando chiamo a raccolta
le schiere di amanti ed esiliati
nel cimitero dei giorni?
Hai risvegliato donne che ho rinchiuso nelle prigioni dell’inferno.
Occidente, sono perniciosa…
Nessuna pietà nel mio cuore.
Ma sono la sacerdotessa dell’immenso dolore,
trascino via la tua terra dalle reti delle parole
mentre tu mi trascini al tuo Divano occidentale-orientale.
Siamo entrambi equilibristi sulla stessa corda
anche se destinati a due abissi diversi.
Spalanco le finestre delle tue parole,
trovo la mia bara nelle tue elegie,
esiliata, abbandonata da un Oriente distante.
I miei anni sono destrieri feriti dalle tue lance…
Non smettono di nitrire.
Straniera in casa tua
ma a casa mia
sovrana del lamento.
Oriente, che cosa mi hai fatto?
Ti ho amato, ma mi hai portato solo vergogna.
Mi hai sfigurata come un esercito di cieche Shahrazad,
hai superato ogni limite danzando sul mio corpo,
mi hai nutrita del desiderio delle stelle
nei rapidi istanti del fulmine…
ma tutto ciò da dietro un velo.
Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
E’ cosi che stanno le cose,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
E’ troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L’inventario è preciso
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso di aprirmi
quel conto.
Chiamiamo anima
la protesta contro di esso.
E questa è l’unica cosa
che non c’è nell’inventario.
Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.
La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.
Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l’amore non può darlo,
ne’ riesce a toglierlo.
Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come un orologio solare,
capisco
ciò che l’amore non capisce,
perdono
ciò che l’amore non perdonerebbe mai.
Da un incontro a una lettera
passa non un’eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.
I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.
E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che si trovano in ogni atlante.
E’ merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.
Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.
“Non devo loro nulla” –
direbbe l’amore
su questa questione aperta.
~ da Vista con granello di sabbia ~
(Wislawa Szymborska)
Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.
– Sale grandi e vuote – dice la pietra
ma in esse non c’è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.
Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.
– Non entrerai – dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all’onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.
– Se non mi credi – dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d’una immensa risata
che non so far scoppiare.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
– Non ho porta – dice la pietra.
(Wislawa Szymborska)
NULLA DUE VOLTE
Nulla due volte accade
Né accadrà. Per tal ragione
Nasciamo senza esperienza,
moriamo senza assuefazione.
Anche agli alunni più ottusi
Della scuola del pianeta
Di ripeter non è dato
Le stagioni del passato.
Non c’è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali.
Ieri, quando il tuo nome
Qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa
sbocciasse sul selciato.
Oggi che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove.
Una rosa? Ma cos’è?
Forse pietra, o forse fiore?
Perché tu, ora malvagia,
dài paura e incertezza?
Ci sei – perciò devi passare.
Passerai – e in ciò sta la bellezza.
Cercheremo un’armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d’acqua.
(Wislawa Szymborska)
LA BREVE VITA DEI NOSTRI ANTENATI
Non arrivavano in molti fino a trent’anni.
La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre.
L’infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo.
Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere
prima che tramontasse il sole,
prima che cadesse la neve.
Le genitrici tredicenni,
i cercatori quattrenni di nidi tra i giunchi,
i capicaccia ventenni –
un attimo prima non c’erano, già non ci sono più.
I capi dell’infinito si univano in fretta.
Le fattucchiere biascicavano esorcismi
con ancora tutti i denti della giovinezza.
Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre.
Il nipote nasceva sotto l’occhiata del nonno.
E del resto essi non contavano gli anni.
Contavano reti, pentole, capanni, asce.
Il tempo, così prodigo con una qualunque stella del cielo,
tendeva loro una mano quasi vuota
e la ritraeva in fretta, come pentito.
ancora un passo, ancora due
lungo il fiume scintillante
che dall’oscurità nasce e nell’oscurità scompare.
Non c’era un attimo da perdere,
domande da rinviare e illuminazioni tardive,
se non le si erano avute per tempo.
La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi.
Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro,
e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male –
ne sapevano poco, ma tutto:
quando il male trionfa, il bene si cela;
quando il bene si mostra, il male si acquatta.
Nessuno dei due si lascia vincere
o allontanare a una distanza definitiva.
Ecco il perché di una gioia sempre tinta dal terrore,
d’una disperazione mai disgiunta dalla speranza.
La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve.
Troppo breve per aggiungere qualcosa.
(Wislawa Szymborska)
C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.
È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.
Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.
Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.
A volte un po’ lo invidio
– per fortuna mi passa.
(Wislawa Szymborska)
AL MIO CUORE, DI DOMENICA
Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.
Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.
Ti ringrazio, cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto,
separata anche nel sonno.
Badi che sognando non trapassi in quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.
Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo.
Tratta dalla raccolta “Uno spasso”.
(Wisława Szymborska)
Sogno sogno sogno sogno sogno sogno sogno sto morendo di sogno… Frida Kahlo
sulla sponda d’un fiume
in un mattino assolato.
E’ un evento futile
e non passerà alla storia.
Non si tratta di battaglie e patti
di cui si studiano le cause,
né di tirannicidi pieni di memoria.Tuttavia siedo su questa sponda, è un fatto.
E se sono qui,
da una qualche parte devo pur essere venuta,
e in precedenza
devo essere stata in molti altri posti,
proprio come i conquistatori di terre lontane
prima di salire a bordo.Anche l’attimo fuggente ha un ricco passato,
il suo venerdì prima di sabato,
il suo maggio prima di giugno.
Ha i suoi orizzonti non meno reali
di quelli nel cannocchiale dei capitani.Quest’albero è un pioppo radicato da anni.
Il fiume è la Raba, che scorre non da ieri.
Il sentiero è tracciato fra i cespugli
non dall’altro ieri.Il vento per soffiare via le nuvole
ha dovuto prima spingerle qui.E anche se nulla di rilevante accade intorno,
non per questo il mondo è più povero di particolari,
peggio fondato meno definito
di quando lo invadevano i popoli migranti.Il silenzio non accompagna solo i complotti,
né il corteo delle cause solo le incoronazioni.
Possono essere tondi gli anniversari delle insurrezioni,
ma anche i sassolini in parata sulla sponda.Intricato e fitto è il ricamo delle circostanze.
Il punto della formica nell’erba.
L’erba cucita alla terra.
Il disegno dell’onda in cui s’infila un fuscello.Si dà il caso che io sia qui e guardi.
Sopra di me una farfalla bianca sbatte nell’aria
ali che sono soltanto sue
e sulle mani mi vola un’ombra,
non un‘altra, non d’un altro, ma solo sua.A tale vista mi abbandona sempre la certezza
che ciò che è importante
sia più importante di ciò che non lo è.
(Wislawa Szymborska)
L’anima la si ha ogni tanto.
Nessuno la ha di continuo
e per sempre.Giorno dopo giorno,
anno dopo anno
possono passare senza di lei.A volte
nidifica un po’ più a lungo
sole in estasi e paure dell’infanzia.
A volte solo nello stupore
dell’essere vecchi.Di rado ci da una mano
in occupazioni faticose,
come spostare mobili,
portare valige
o percorrere le strade con scarpe strette.Quando si compilano moduli
e si trita la carne
di regola ha il suo giorno libero.Su mille nostre conversazioni
partecipa a una,
e anche questo non necessariamente,
poiché preferisce il silenzio.Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci,
smonta di turno alla chetichella.È schifiltosa:
non le piace vederci nella folla,
il nostro lottare per un vantaggio qualunque
e lo strepito degli affari la disgustano.Gioia e tristezza
non sono per lei due sentimenti diversi.
E’ presente accanto a noi
solo quando essi sono uniti.Possiamo contare su di lei
quando non siamo sicuri di niente
e curiosi di tutto.
Tra gli oggetti materiali
le piacciono gli orologi a pendolo
e gli specchi, che lavorano con zelo
anche quando nessuno guarda.
Non dice da dove viene
e quando sparirà di nuovo,
ma aspetta chiaramente simili domande.
Si direbbe che
così come lei a noi,
anche noi
siamo necessari a lei per qualcosa.
(Wislawa Szymborska)
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.
Come vivere? – mi ha scritto qualcuno,
a cui io intendevo fare
la stessa domanda.
Da capo e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue.