“Madri e non Madri. Conversando… a partire da altre, a partire da noi”

10330410_770554392976730_4977338037467460240_n

Ero schiava della mia forza, della mia creatrice immaginazione ormai. Il mio potere era questo: far trovare buona la vita, la mia forza era di conservare tale potere. (Sibilla Aleramo, Frammenti di lucida intuizione)

Non riesco a trovare la mia intima libertà, l’obbligo di esistere per me. Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Ecco, l’amore è questo, l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari, l’amore nella donna, almeno, per otto anni ho dato tutto di me a Franco, ho compiuto questo atto sacrilego dal punto di vista della mia individualità. (Ibid.)

Ci sono un’infinità di cose che ignoro. Ma c’è qualcosa che non senza un po’di immodestia presumo di sapere: decidere di mettere al mondo dei figli o decidere, con volontà deliberata di non farlo, sono due mostruosità: di segno diverso ma non contrario. Per questo vacilliamo sospesi fra generosità e avarizia. Per questo i nostri piccini sono i teneri trastulli con cui recitiamo, a turno, le parti di “mamma” e “papà” diventando talvolta noi stessi/e figli/e dei nostri figli/e madri delle nostre madri. (P. Zaretti)

Forza come Schiavitù, Forza come Potere, Sacrilegio, Mostruosità….

Insomma, non c’è che dire… Siamo donne madri e non madri e siamo qui per confrontarci sulle nostre rispettive esperienze a partire da alcuni riferimenti utili a sollecitare e a smuovere – piuttosto che a rimuovere – pensieri e sensazioni sui nostri vissuti. E’ nostra intenzione, conformemente alla linea del blog, fare Tabula rasa, per quanto possibile, di quanto detto, pensato, scritto, elaborato, rielaborato, translaborato e ideologizzato sull’argomento, per partire da noi, dai nostri corpi di donne e dall’esperienza ad essi conformemente – e pur differentemente – legata. Sappiamo bene quanto sia difficile affrontare un tema tanto scabroso senza che ne vada di noi, del nostro più muto e profondo sentire, delle nostre emozioni indicibili e intrasmissibili congelate da un pudore che sempre, sempre, nel parlarne, inibisce e trema. Abbiamo pensato di aprire con un brano di rara bellezza, preceduto da una brevissima introduzione in cui viene descritto lo stupore maschile di fronte alla visione di una nascita. Seguiranno alcune citazioni che faranno da stimolo ai pensieri che ciascuna potrà esprimere in forma di commento, per concludere, infine, con uno spazio dedicato, attraverso la formulazione di alcune domande, alla narrazione e alla testimonianza.

All’invidia per le potenzialità del corpo femminile, presenti nel miti e nella Tragedia antica, filosofi e teologi non si sono sottratti. Lo stupore, che può suscitare nell’uomo la meraviglia della nascita che trasforma un corpo erotico di donna in un corpo di madre, lo troviamo splendidamente descritto da Péju nel dramma di una donna di circa vent’anni che, incinta e vicina al parto, viene arrestata e portata in un campo di internamento francese. La donna, rinchiusa in una stanza e “squassata” per un’ intera notte dalle doglie, si accorge che:

La finestra era completamente ostruita da teste di uomini che ridacchiavano, teste che si urtavano, si sovrapponevano per restare dentro a quel rettangolo e fissare lo sguardo sul suo corpo e sul suo sesso. (9) “Gli uomini urlando tutte le parole volgari che conoscevano, le chiedevano di muoversi, di alzarsi, girarsi e di rigirarsi per loro…Cercò di nascondersi ma alcuni soldati che non sopportavano di perdere lo spettacolo, nello stato di follia in cui li aveva gettati questa visione di donna nuda, erano andati a cercare delle lunghe pertiche di ferro (…) cercando a tastoni la donna (…) per poi sospingerla al centro della cella…Alla fine, rinunciando a fuggire, trovò la forza di alzarsi, di risalire sul tavolo e di far fronte ai suoi torturatori (…) sbeffeggianti, una forza incredibile, salita dal fondo del suo essere, al fondo senza fondo della vita (…). Regalmente, scegliendo di far fronte al loro entusiasmo da caserma, si accinse a partorire, le gambe divaricate, le cosce in alto, la vulva dilatata fin quasi a squarciarsi (…). Allora, con gli occhi chiusi, la testa tesa, il mento affondato nel petto lucido di sudore, i tratti convulsi, le dita avvinghiate al ventre come artigli, gli avambracci che premevano i fianchi come una morsa, spingendo soffiando, spingendo a più non posso, sentì che tutto si apriva, che questa massa dura che le divaricava le ossa, che le squarciava la carne, era la testa del bambino, che quella testa sarebbe passata (…) che doveva forzare ancora, spingere, spingere sempre e infine prendere, con le mani scivolose, il corpo intero che puntava sotto di lei.     

Il bambino era lì.  La stanza era sospesa in un silenzio soprannaturale che avvolgeva le cose e i corpi. Perché i soldati, che non avevano smesso di premere la testa contro le sbarre, tutti quei pezzetti di uomini che ostruivano la finestra, d’un tratto non facevano più alcun rumore. Restavano là muti, affascinati con lo sguardo velato e vuoto incollato al corpo ansimante che si era brutalmente sdoppiato (…). Quanto tempo restarono insieme, la puerpera e tutti quei ragazzi esterrefatti? E’ un istante che si sottrae a ogni logica, che non si può misurare (…). Un branco di soldati tenuto a bada da un neonato di pochi minuti (…).  Il piccolo si mosse di nuovo, ma con più vigore e la donna, in uno slancio di intempestiva generosità, o per il senso del trionfo sulla propria estrema debolezza, ebbe l’impulso di presentarlo ai suoi carnefici pietrificati e, mentre lo girava e lo sollevava a fatica con le braccia, il neonato emise il suo primo grido (…) e allora fra gli uomini ci furono delle risate, risate tranquille, imbarazzate, quasi liete, quasi intenerite, delle risate che avevano il solo scopo di impedire le lacrime.

10275945_10203677827855620_3618403608195877650_nSeguono, come annunciato,  alcune citazioni accompagnate dai nostri commenti.

Iniziamo con un passo tratto da Genesi II.

“La donna dando la vita perde la propria”. (Genesi II)

E’ un’affermazione fortissima. Che dare la vita significhi perdere la propria, è a dir poco inquietante – ma vero. Tutto cambia nella propria vita, quando si dà la vita.”

Il parto ne è l’emblema. Qualunque sia, fa ‘male da morire’: di tempo e di dolore ne basterebbero molto meno per far uscire il corpicino, ma lì devi provare di essere disposta realmente a dare la vita per la tua creatura. Questa è la prima connivenza, sancita da un patto di sangue. (‘Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai’ Genesi III.) Quanto natura e cultura sono corresponsabili di questo trauma originario? Quanto grava l’attribuire il trauma della nascita solo al piccolo-a e non anche alla madre, costringendola a rimuoverlo completamente? Quanto questo incide sull’inclinazione sacrificale così prossima a noi donne?  ‘Un dolore che si dimentica’, ho sentito ripetere da tante madri. Ho pianto il parto solo due mesi dopo, ero sotto la doccia, mi sono rannicchiata e abbracciata le ginocchia, con pena infinita, mescolando acqua e lacrime perché nessuno se ne accorgesse.”

Nei mesi precedenti al primo parto pensavo che nulla sarebbe più stato come prima, che la mia vita fosse finita. E per i primi mesi è stato sicuramente così, mia figlia mi ha assorbito totalmente. Ricordo perfettamente la sensazione che provai la prima volta che sono uscita senza di lei, mi sentivo come un’innamorata che custodisce dentro di se un amore segreto, il mio segreto era mia figlia che mi aspettava a casa. Ma ricordo anche altrettanto bene il non avere a volte nemmeno la possibilità di andare in bagno, e il sentirmi prigioniera di questo stato. E poi l’isolamento nel quale mi sono venuta a trovare, vivevo in campagna e questo non agevolava gli spostamenti. Con il secondo è stato più facile, tra le altre cose, alla sua nascita avevo già deciso di tornare a vivere in città.”

Questa frase mi lascia perplessa perché suppone che una donna possieda una vita propria, ma non è sempre così, soprattutto se ci si riferisce ad un passato che non prevedeva per le donne di avere una vita propria ma solo in funzione di qualcun altro. Dunque la maternità era, in fondo, la possibilità di avere una vita propria attraverso la creatura che veniva messa al mondo, in bilico tra l’acquisizione di un ruolo e la perdita definitiva di una vita mai posseduta pienamente.”

“E danno il sangue, il pane e il lavoro e danno il sonno e il sudore delle notti perché altri riposi, in tutto simili all’anatra norvegiana che sotto un cielo di ghiaccio si strappa dal petto le moltissime piume per farne un nido caldo per i suoi piccini. Così le madri dell’uomo intrecciano spesso coi loro dolori un nido caldo alle loro creature per non vivere che della vita altrui, per non serbare a sé che la gioia degli altri”. (Mantegazza)

La frase “per non vivere che della vita altrui, per non serbare a sé che la gioia degli altri” è tanto vera quanto terribile e si ricollega, confermandola, a quella precedente tratta da Genesi II. Non si può vivere della vita altrui e gioire della sola gioia degli altri senza gravi conseguenze, senza maturare risentimento e odio per chi a questo ci “costringe”. Ma c’è davvero CHI può costringere una donna a questa espropriazione di sé, a questo annichilimento alienante e infernale in funzione dell’altro/a, senza che lei lo voglia, senza che lei stessa si faccia complice di un tale disegno perverso? Io credo di no. Credo che senza una complicità – sia pure indotta dall’interiorizzazione delle regole dettate alla donna da un sistema di pensiero aberrante – ciò non sia possibile.”

Ricordo bene una discussione con delle mie amiche avvenuta qualche anno prima che sia io che loro avessimo dei figli. Mi accalorai moltissimo in questa discussione, sostenevo di non volere figli perché avevo paura di dover soffrire per loro, di fare mia la loro vita e i loro eventuali dolori.”

Esistono bisogni incontrollabili, per molte donne!! tra esse, ci sono anch’io. Il bisogno di darsi totalmente all’oggetto Amato, “racchiudendolo” in una sfera privilegiata in cui, tutto è bello e tutto è buono; probabilmente, questa predisposizione di negazione di sé – presente anche nel mondo animale tra le madri con i propri cuccioli – deriva dal desiderio di compensazione su ciò che si sarebbe voluto dai propri genitori e che invece, non si è riusciti ad ottenere.”

Ed ecco che l’acquisizione del ruolo e la perdita definitiva di sé si incontrano nell’alienazione in funzione dell’altro/a. Bisogna trovare un’alternativa alla ricaduta nel ruolo precostituito che inevitabilmente influenza ciascuna di noi e il nostro desiderio, credo che questa sia la cosa più difficile. Discernere ciò che ci appartiene, in altre parole, ciò che costituisce il nostro reale desiderio, e ciò che, invece, fa parte di una visione delle cose assunta culturalmente. Ma si tratta di un’operazione veramente realizzabile? A parole tutto è semplice, soprattutto per chi, come me, non è ancora madre, trovarsi immerse nell’esperienza della maternità è altra cosa.”

E’ un’esperienza che impone un passaggio contemporaneamente dentro e fuori di sé, un salto nel buio per approdare ad una te stessa che ancora non conosci, terra inesplorata nella quale i punti di riferimento sui cui poggia la tua esistenza non servono più, non funzionano più, e ti senti perduta, cercando a tentoni dove sei finita mentre un’altra vita ti reclama senza sosta. E’ lo sconquasso di una catastrofe e la potenza di una rivelazione. Come sottrarti se non riesci più a sentirti? Solo dopo un po’, in qualche spiraglio di tempo, con uno sforzo improbo sono riuscita a guardarmi da fuori, capire che c’ero ancora ma nascosta dietro il ‘dover esserci per lei’. E ho cominciato pian piano a riprendermi qualche spazio solo mio. E’ difficile dire cosa impedisce di uscire dal ruolo materno: un senso di responsabilità assoluto, di vita o morte incombente, di colpa e di potere, rendono imprescindibile la tua presenza. Quando mi sono accorta che la mia piccola riusciva a stare bene anche senza di me, ho provato assieme al sollievo, una punta di tristezza.”

“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, in me la madre non s’integrava con la donna”. (Aleramo)

Ho parlato di conseguenze…ed eccole qui puntualmente descritte come meglio non si potrebbe: cecità, annichilimento della volontà e della voglia di vivere, stanchezza e depressione derivanti dall’ impossibilità di conciliare la madre e la donna. Questo è, direi, un punto focale, la scissione donna-madre operata dall’esperienza della maternità e la difficoltà a realizzare una felice coesistenza fra queste due diverse dimensioni.”

10152373_770554302976739_6403291840170137052_nUna stanchezza morale e fisica, nei primi mesi, nei quali mia figlia si svegliava spesso di notte e non dormiva per almeno due ore, e il mio unico pensiero era il letto e il dormire, non vedevo l’ora la sera di andare a letto, ben sapendo, però, che a un certo punto mi avrebbe svegliata. In quel periodo c’erano ancora le cassette, ne avevo una di Zucchero, bene, lei si svegliava, l’allattavo, non si addormentava, e me la tenevo in braccio ballando con lei al suono della musica di Zucchero. Sembra un quadro idilliaco, ma vi posso assicurare che dentro mi sentivo come annullata e vittima di un destino ineluttabile. Poi improvvisamente non si sveglio più di notte.”

Ho visto molte donne, me stessa compresa, perdere la propria vita per darla, non solo ai figli ma a tutto ciò che, per estensione forse, tendono a considerare come un figlio. Mi chiedo se l’interiorizzazione di questo “principio” enunciato in Genesi non sia essa stessa responsabile di questa tendenza (a considerare figlio tutto ciò che vive). La cosa non è disprezzabile in sé se corrisponde a quella cura che si ha o si dovrebbe avere per tutto quanto ci circonda ma lo diventa quando escludiamo noi stesse da quella cura. Penso a come Simone Weil considerava l’amore di sé: qualcosa da rivolgersi come si fa verso una persona alla quale si vuole molto bene.”

E’ possibile dunque essere madri senza annullarsi? Oppure la quantità di energie che si prende una creatura va inevitabilmente oltre alla possibilità di soddisfare anche i propri bisogni? Forse solo il primo periodo di vita è da dedicare completamente al bambino o alla bambina per poi riprendersi man mano il proprio spazio? E se il problema fosse invece quello di prenderselo questo spazio, un problema che va oltre la maternità e permea la vita di una donna nella sua quotidianità? In che rapporto stanno donna e madre e, soprattutto, che rapporto esiste tra l’essere una donna con consapevolezza di sé e poi madre piuttosto che essere una donna frustrata e poi madre? Quale ruolo ha la frustrazione personale nella decisione di diventare madre più o meno per caso?”

All’inizio un-a figlio-a non ha bisogno solo dei tuoi seni, delle tue mani, di schiena, braccia e gambe forti, del tuo corpo capace di nutrire, sorreggere, portare, proteggere. Ha bisogno di tutti i tuoi pensieri. Abita nella tua mente perché sei il suo mondo. Creatura senza parola, attraverso il suo piccolo corpo fatto linguaggio ti chiede incessantemente comprensione, contenimento, decifrazione di codici di volta in volta spiazzati e rimpiazzati. E mentre rincorri insicura e manchevole ogni nuovo vagito, ti ritrovi con la stessa impotenza dell’infante che, scagliandotela dentro, diventa a sua volta onnipotente e tiranno. Sedotta dai suoi progressi, dai suoi sorrisi, dalla sua gioia che diventa la tua, dall’ardore con cui ti pretende e ti fa capire in tutti i modi che nessuna è più importante di te, che ti deve la vita, ti esplode dentro facendoti sentire potente come l’amore assoluto che ti regala. Potenza e impotenza, amore e odio, dentro lo stesso grembo dove ora si abita in due, la simbiosi è una gestazione che prosegue e porta ‘fuori di sé’.  ‘I due saranno una carne sola’ (Genesi II).”

“Mi sentivo come invasa da un altro essere che senza pietà mi avrebbe svuotata mi avrebbe succhiata tutta per poter vivere lui. Mi sottraeva il nutrimento ovunque potesse trovarlo, mi spogliava il sangue e cresceva cresceva e forse sarebbe diventato così grande da farmi scoppiare. A volte, dopo aver passato il week end a sentire i loro strilli e a mettere in ordine i loro giochi, ho addirittura voglia di ucciderli!”. (Seranis) 

L’ho avvertito a volte questo desiderio più che di morte lo definirei di sparizione, farli sparire per far tornare tutto come prima, quando potevo disporre della mia vita, dei miei pensieri e desideri.”

Ho riconosciuto in queste parole la descrizione di ciò che una donna-madre può provare: svuotamento e sottrazione di sé che producono e alimentano la crescita immaginaria – abnorme, gigantesca, spropositata e minacciosa – di un esserino capace di tanta tirannia…E non sorprende per nulla l’affacciarsi all’orizzonte di un inconfessabile desiderio di morte in difesa della vita – la propria. Non credo esista madre che non sia stata sfiorata da sentimenti la cui indicibilità contribuisce a  rafforzare i sensi di colpa nei riguardi della sua creatura.”

Ho vissuto il mio lavoro come occasione interminabile di questa  invasione. C’era un essere senza pietà a due teste. Una  esigeva per sé “pietà” in quanto avente diritto alla mia prestazione, l’altra mi obbligava con la regola prima dell’obbedienza, sancita per contratto, alla dimenticanza di me che però si protraeva in una compulsione a darmi allo stesso modo oltre l’orario di lavoro.  A volte, dopo aver passato un week end a sentire le loro domande, infinite domande, infiniti discorsi, infinito tutto, mi chiedevo cosa fossi diventata e la risposta era: un’orientatrice. Io volevo fare la fotografa. Ho capito che a farmi obbedire a quell’imperativo interiore così invincibile era una postura simile a quella materna. Ho pensato che dipendesse da me poi ho capito che qualsiasi compito assegnato a una donna, una donna rischia di assumerlo in quel modo perché tutto ti guida implacabilmente a darti dissanguandoti , con il metodo delle sanzioni sociali e  morali se solo osi essere altro. Oso essere altro, peccato esserci arrivata troppo tardi e a carissimo prezzo, ma ci sono arrivata.”

Strano è rendersi conto che, dopo aver sperimentato la simbiosi con mia madre per la maggior parte della mia infanzia, il fatto di vivere in funzione dell’altra, vivere per l’altra/o, mi è sempre sembrata la cosa più naturale del mondo, come non lo è, al contrario, il dare per scontato di avere una vita propria e trovarsi nella situazione di doverla sacrificare.”

Un lavoro incessante di plasticità fisica, mentale ed emotiva affinché la piccola crescesse nel miglior modo, almeno a me, possibile. Dopo mesi il mio sonno non era più capace di funzionare e di andare in profondità, tanto abituato a continui risvegli, oramai inconsciamente in allerta per rispondere a qualunque richiamo. Accanto a sentimenti di gioia profonda, ne subentravano altri di totale sconforto: mi sentivo incapace, priva di speranza e di latte nonostante i miei seni da sempre minuscoli ne produssero di così nutriente che la crescita era ben sopra la media, con gran plauso della pediatra e la gratitudine della famiglia tutta. Certo, un modesto appagamento ai miei occhi, cerchiati di nero. In certi momenti provavo addirittura invidia! Aveva tutto, di me e per me non restava nulla, nemmeno l’oblio del sonno. E di tanto in tanto scoppiavo furiosa, dichiarando che me ne sarei andata. Quella rabbia mi è stata provvidenziale: mi ha permesso di estraniarmi, di prendere le distanze, di dar voce alla donna ingabbiata in un ruolo dove la madre aveva preso il sopravvento.”

untitled 6

“Un bambino può nascere/ solo dopo la nascita/ della maternità di sua madre”. (Marinopoulos)

Forse per diventare madre dovrebbe essere necessario essere nate a nostra volta? Nate nel senso di autonomia personale? In questo senso credo proprio di si. Se si è autonome non ci si aggrappa ai propri figli per avere un ruolo e si possono crescere figli autonomi.”

E’ una frase di difficile interpretazione. Che cos’è “la nascita della maternità di una madre”? E perché la nascita della maternità in una donna dovrebbe precedere e garantire della possibilità di nascita di un bambino? Si intende dire che non è un figlio/una figlia a fare di una donna una madre, che la maternità di una donna non nasce automaticamente  “dopo” la nascita di un figlio/Figlia ma è una condizione che la precede? Ma come e quando può nascere la maternità di una madre senza essere madre? Nel corso della gravidanza?”

Questa è una frase per me molto significativa che interpreto in questo modo: imparare a essere madri prima di avere messo al mondo una creatura significa imparare a prendersi cura di sé senza delegare questa funzione ad una figura materna al di fuori di sé, imparare ad essere madri di sé stesse prima di generare effettivamente un figlio o una figlia è indispensabile per non commettere l’errore di generare per colmare una propria mancanza, di senso, di espressione, d’amore.. credo che per poter essere madri si debba non solo aver risolto il proprio rapporto con la figura materna ma anche aver trovato una collocazione del proprio desiderio di madre, se questo esiste.”

Credo che in ogni donna, anche in quella che non vuole figli, sia balenata almeno una volta l’idea di sé come madre, fosse solo per rigettarla. E’ un potenziale esistente: desiderato, aborrito, temuto o negato, produce una rappresentazione di sé che riguarda il registro dell’ideale, di come si vorrebbe o non si vorrebbe essere. Sia nella donna che vuole diventare madre, sia in quella che non lo vuole, in ogni caso, si tratta di una esperienza che prima di averla vissuta non si può conoscere, ma solo immaginare. E solo su questa base si può prendere una decisione: quando si decide di mettere al mondo un figlio non si sa a cosa si va incontro. Durante i 9 mesi di gravidanza ho capito che servivano davvero tutti per consentirmi di sapere di avere dentro di me un altro essere umano: a mano a mano che il mio fisico si trasformava, che la pancia si gonfiava, l’idea prendeva corpo e la rappresentazione che avevo di me e della mia collocazione nel mondo, lasciava il posto ad un sentire che non aveva nulla dell’ideale. Sempre più in contatto con la mia carne, ho attraversato una combinazione di sentimenti spesso indicibili che rimarranno per sempre incisi nel mio inconscio. Corpo e psiche non sono più scisse, si cavalcano a vicenda abbattendo le difese più ragionevoli: sei tu, da sola, con questo corpo che contiene un corpo altrui in divenire. Doppia e una al tempo stesso, ondeggiavo tra una lucidità cristallina nelle percezioni e nei sentimenti, un bisogno inalienabile di giustizia e verità, una spregiudicatezza e una forza tali da contrastare la delicatezza e la fragilità dello stato in cui ero. Eccitazione e terrore erano agli estremi.”

“Le madri non cercano il paradiso, il paradiso io l’ho conosciuto il giorno che ti ho concepito. Perché vuoi morire? Non ti ricordi la tua tenera infanzia quando hai giocato con me? Perché vuoi inebriarti della tua anima? Tu stai uccidendo tua madre eppure non riesco a dimenticare i gemiti del parto. Anch’io quel giorno sono morta quando ti ho dato alla luce, tu sei peggio di qualsiasi amante figlio mio tu mi abbandoni”. (Merini)

Quello stretto legame che c’è tra madre e figli l’ho avvertito molto forte, ma più per mia figlia, per i primi due anni. Quando è nato mio figlio ho come istintivamente fatto in modo che il legame tra di loro diventasse più stretto rispetto a quello con me, e ho iniziato dopo poco a ricominciare a vivere, ritagliarmi i miei spazi con forza e determinazione.”

Ecco ritornare il nesso morte/nascita – “anch’io quel giorno sono morta quando ti ho dato alla luce”. Che cosa muore nella donna nel dare la vita? E’ forse la donna a morire? In un certo senso sì, lo abbiamo visto nella difficile conciliazione donna-madre.”

La separazione di una figlia è come un lutto, parole di mia madre.”

Fare più figli. La nostra società è affetta da schizofrenia ma non lo sa. Cultura e società che esaltano il Materno hanno fondato se stesse su un matricidio originario: l’assassinio di Clitennestra per mano del figlio Oreste di cui la Tragedia di Eschilo ci narra. Mettiamo a nudo la menzogna sulla difesa della vita ascoltando le parole di due madri lavoratrici.

 X Dopo otto mesi dalla nascita della bambina sono tornata. Mi sono seduta alla scrivania, il mio dirigente mi chiama, mi dice: “No, signora, quello non è il suo posto, il suo posto è di là.

La maternità come punizione e colpa da espiare in una società che inneggia falsamente al materno è qualcosa che ha a che fare con la sconcezza morale.”

La “menzogna sulla difesa della vita” oggi si chiama pro-life. Il pro-life mi disgusta se non altro perché spesso è difeso da chi della maternità e dell’essere donna non sa un bel nulla.”

Sono rientrata al lavoro e ho deciso di farlo gradualmente in modo tale da consentire a mia figlia e a me di imparare a separarci senza strappi. Ho difeso questa mia scelta con una forza ferina che ha messo davanti la maternità e i miei diritti alle pressioni professionali, ai ricatti e alla disapprovazione, soprattutto da parte delle donne. Ne sto ancora pagando il prezzo.”

“Penso che non si debbano fare troppi figli soprattutto ora che siamo nel paradosso del sovraffollamento mondiale e della denatalità al contempo.”

1798680_10203677815655315_8300925314653711995_nSono in cura da uno psichiatra, sono quattro mesi che sono a casa e ho raddoppiato gli antidepressivi.

La depressione post- partum viene liquidata come processo fisiologico ovvio e “naturale” senza alcuna attenzione allo psichico, agli effetti psichici di una perdita, da separazione da un corpo incorporato nel proprio che si distacca e ne va…”

Molte donne nel periodo del post-partum vengono lasciate sole, con le loro paure e le loro ansie, sottovalutando la fragilità della condizione di non essere più se stessa.”

“Quando sono uscita dall’ospedale con la carrozzina mi è crollato il mondo addosso, non ero più libera.” Queste sono le parole di un’amica che ha vissuto la gravidanza “come se fosse la cosa più naturale del mondo”.”

“Ho vissuto una forte depressione post-parto di un’amica che per diverso tempo, dopo il parto, non ha voluto saper nulla del figlio. Da questa esperienza mi sono nate diverse domande sulle modalità con cui la donna viene trattata dai propri cari e talvolta anche dai medici. Nessun ascolto, nessun sostegno, nessuna volontà di incontrare i sentimenti ambivalenti che nascono in un periodo cosi delicato come la gravidanza… E dopo… tutte le attenzioni sono concentrate sul neonato, la donna se la deve sbrigare perché “da che mondo è mondo si fanno figli”… per quanto una donna si possa sforzare di concentrarsi anche su di sé e di recuperare forze, c’è sempre uno stuolo di persone intorno che le ricordano che farlo è peccato.

Sono convinta la depressione post-partum abbia a che fare con la mancata elaborazione di un lutto, e forse più d’uno. Ma chi, che cosa ci è ‘morto’, è andato perduto? Se, come dice Freud, ‘l’ombra dell’oggetto è caduta sull’Io’, quale è l’oggetto di cui non riusciamo ad accettare la perdita perché trattenuto dentro e destinatario non solo d’amore ma anche di un risentimento che scagliamo contro noi stesse? Possibile sia la creatura stessa che, lasciando il nostro ventre generoso, ci abbandona per sempre, svuotando il nostro corpo per riempire tutto il mondo esterno con le sue necessità fisiche ed emotive, imprigionandoci in una simbiosi nella quale il susseguirsi di istanti di incessante attenzione a questo esserino, tanto splendido da metterci in ombra, altera la percezione del tempo facendolo sembrare infinito, come la morte? Possibile invece che con il parto si nasca con chi mettiamo al mondo, e che per far ciò ci costringiamo ad ‘uccidere’ quelle che prima eravamo, in nome della nuova vita?  Infine, potrebbe essere anche l’ideale materno, quello che immaginavamo saremmo state una volta madri, a crollarci addosso sotto i colpi della fatica reale che l’accudimento comporta?  Chissà, forse i sentimenti di annullamento, di perdita di sé, di rabbia e di colpa che ci assalgono dicono che tutte queste perdite sono troppe da elaborare. “

Io non ho mai avvertito un istinto materno. Molte mie amiche davanti a un bambino piccolo lo prendono subito in braccio. Posso dire con certezza di non aver mai preso in braccio un bambino che non fosse stato mio figlio, tranne il mio primo nipote. Ora, in molte, mi dicono che ho un atteggiamento materno.”

“C’è la minacciosa madre onnipotente che insidia l’indipendenza filiale, soprattutto, ci sono le madri intrusive, le madri protettive e soffocanti e poi le madri esigenti, ma ci sono anche le madri assassine dei figli, e poi quelle inette e impotenti, quelle ammalate e depresse, quelle che amano troppo e quelle che non amano abbastanza, quelle irresponsabili che non sanno essere solo madri e magari vogliono essere anche donne, quelle che vogliono essere madri a tutti i costi, quelle che persino vogliono far i figli da sole, quelle che non lasciano crescere i figli e anche le figlie, quelle che non si fanno da parte, e poi ancora la madre fusionale e la madre perfetta, quella custode della pienezza del bene, e la madre sacrificale, quella della cura e della comprensione totale, la madre dell’amore e della protezione, quella della pace e quella dell’armonia naturale e così via nella lunga teoria delle varie sembianze della “madre spettrale”, dove si confondono le vecchie paure e le nuove, le tradizionali matrifobie e idealizzazioni materne”. (Sartori)

Non so come si faccia la madre, me lo sta insegnando mia figlia.”

Credo di aver visto, come in un caleidoscopio, tutti questi modi di essere nella mia di madre, e non solo nella mia. Liberarmi di ciascuno di essi è stato  un lavoro, non una risultante spontanea.”

Oggi penso di essere stata una buona madre per il passato. Per il futuro non so. Ho quasi 59 anni, i miei figli hanno: lei 27 e lui 24. Non vivono nella mia città. Penso che siano individui autonomi e responsabili. Non ho mai fatto ingerenze nella loro vita affettiva e sociale, non li ho mai giudicati per le loro scelte che ho sempre rispettato anche se a volte non condivise, tra noi c’è un clima di affetto, di amore e di stima. Penso sempre che ci sono cose che i figli non devono sapere dei loro genitori, e cose che i genitori non devono sapere dei propri figli. E poi c’è una frase letta tanto tempo fa quando i miei erano ancora cuccioli e a questa mi sono sempre attenuta: “I figli crescono e bisogna lasciarli andare, sperando di averli ben equipaggiati se cade la neve, sperando che se cadono possano rialzarsi. “ Ho pianto a lungo quando l’ho letta la prima volta…”

Matrifobie e idealizzazioni materne son bene illustrate e fanno a gara in questo brano. E’ possibile  uscire dalla costruzione immaginaria di queste visioni opposte per pensare al materno in modo meno denigratorio e meno esaltante, in un modo più umano, o è proprio da un eccesso di complessità insita in un “umano troppo umano” che discendono e dipendono queste opposizioni?”

Mia madre non mi ha mai difesa! Ricordo che da bambina mia sorella Irene, più grande di me di 16 anni, prese le mie difese contro la madre di una mia amichetta che mi rimproverava sempre quando litigavo con sua figlia. Una volta questa mi riprese stando lei in finestra che mi stava facendo venire il torcicollo e umiliandomi diceva: – che hai fatto a Fiorellina? Èh? – Mia sorella uscì dal negozio e come una jena le fece: – a Lina!… E piantala e stattene dentro casa…-. Ero in un brodo di giuggiole…Un altro episodio inquietante che ho scoperto dopo molti anni a cui mia madre aveva assistito dalla finestra e in cui il vecchio vicino di pianerottolo (che con mio padre era in lite da una vita), per farmi spostare al suo passaggio per entrare nel portone, mi dette un colpo con la sua pancia (o il suo pene)…. Raccontai questo episodio e mia madre disse che non dovevamo dire niente perché sennò mio padre lo scannava… E lei non voleva problemi… Lei non voleva mai problemi. Poi quando ha confessato di aver addirittura visto la scena dalla finestra l’ho scannata io… tanto mio padre ormai era morto da un pezzo e pure quel pezzo di cacca del vicino di casa.”

Mi chiedo cosa ne sia di tutti questi modi di essere madre in relazione al processo di liberazione dal dover essere di una donna indicato da Lonzi con il celebre passo “Liberata dall’avere un potere da salvare, liberata dall’idea di dover portare la mia barca in un porto…”, la maternità è in fondo anche un potere. Credo che tutti questi modi di essere donna abbiano il loro rovescio speculare nelle immagini materne proposte da Sartori. E dunque, qual è la via che porta all’espressione di sé nella propria autenticità?”

Mia madre aveva 20 anni meno di mio padre e con le due mie sorelle da parte di padre, erano quasi coetanee. Mio padre era trattato come un duce da temere e riverire in ogni caso. Io, ultima nata dopo il tanto sperato maschio, ero una selvaggia, una che si sceglieva la madre che voleva: prima mia sorella Irene che si è fidanzata quando sono nata io e poi una signora di nome Derna, che non aveva avuto figli e che abitava sopra casa mia. Derna mi adorava, e spendeva tutto il suo tempo appresso a me…”

“Di fronte a certe questioni, e soprattutto di fronte a mio padre (e al patriarcato…), anche mia madre ha scelto di “nascondere le debolezze” spesso fonte di violenza (psicologica) da parte di mio padre nei suoi e nei miei confronti, e di accettare la propria invisibilità in certe circostanze, e anche la mia invisibilità tradotta nel non considerare importante ciò che per me lo era solo perché non lo era per lui, difeso da lei. Ma l’ho sempre sentita divisa in questo, divisa tra il suo amore per me e l’impossibilità di mettere in discussione l’ordine su cui si fondava il loro rapporto, certo non poteva perdere l’amore di mio padre, e nemmeno poteva non accorgersi del mio bisogno d’amore. Per questo il rancore, per molti anni, proprio perché nella sua scelta di accondiscendere alle incapacità di mio padre e alla sua modalità di rapportarsi a noi femmine aveva tirato dentro anche me e non solo aveva reso invisibile se stessa ma anche me letteralmente rendendomi invisibile ai miei stessi occhi. Con il tempo e un duro lavoro su di me ho capito che se questa è la sua posizione, la sua scelta, non dev’essere però la mia, e che, comunque, come ho detto, lei ha fatto ciò che ha potuto fare (voluto? qui c’è l’eterno dilemma tra il voler fare e il poter fare che è di difficile risoluzione, come si fa infatti a determinare se un’altra persona, nel nostro caso, una madre, sarebbe stata capace di fare altrimenti?), mi piace pensarla così perché in fondo non potrei mai non volerle bene, per quante cose mi abbia fatto mancare.”

10302023_10203677822775493_5980147589931260661_nNarrazioni e testimonianze:

Intervistatrice:

Hai avuto figli?

Sì, avevo 25 anni…”

No, fino ai 40 anni. Poi una figlia.”

Erano figli desiderati?

Sì, direi che il desiderio di maternità si è manifestato in me fortissimamente e per ragioni tuttora ignote che non posso imputare a costruzioni sociali, quand’ ero molto piccola e immaginavo di mettermi alla ricerca di qualche bimbo abbandonato in qualche fosso nella speranza di trovarne uno…o quando, immobile e rapita davanti a una carrozzina in uno stato di incantamento, stavo ad osservare, per ore, quella piccola cosa misteriosa…”

Sì, sebbene sia sempre stata ambivalente sull’avere figli, perché mi piaceva la vita libera e ‘piena’ che avevo e sapevo quanto un figlio mi avrebbe vincolata. Ho sempre pensato che avrei voluto essere una donna soddisfatta e ‘realizzata’ prima di avere dei figli, al tempo stesso non avrei fatto nulla per riuscire a rimanere incinta se ciò non fosse accaduto naturalmente. Non credo di essere stata soddisfatta ma, forse proprio perché non lo ero, l’ho fatto accadere.”

Sapresti individuare l’elemento decisivo, determinante, nella tua scelta per il sì o per il no?

Lo chiamerei  stato di Necessità, Bisogno – prima ancora che desiderio. Naturalmente un simile bisogno non poteva non avere a che fare con me infante, con quell’infante che ero stata – o non ero stata o non ero stata abbastanza – per i miei genitori. Era qualcosa cui mai avrei potuto rinunciare senza sofferenza, senza sentirmi defraudata della possibilità di un’esperienza.”

Ricordo che prima del mio 40mo compleanno ha avuto un inspiegabile episodio di pianto. Cosa piangevo? La mia ultima ovulazione prima dello scoccare del ritocco biologico? Stavo da un po’ con un uomo con il quale avevo sperimentato la capacità di prenderci cura reciprocamente: senza dircelo ci stavamo preparando a prenderci cura di qualcun altro insieme. Sono andata incontro alla possibilità di dar vita ad una nuova vita ad occhi chiusi, smettendo semplicemente di evitarla come avevo fatto sino a quel momento. Un atto di Incoscienza.”

Mettere al mondo un figlio/figlia può essere allora qualcosa dell’ordine di un Bisogno di una Necessità? Qualcosa che ha a che fare, per la donna, con l’idea immaginaria di una sua supposta mancanza da colmare? Un figlio/a come riscatto, insomma? Il bambino-fallo di Freud?

Non lo escludo affatto. Naturalmente bisognerebbe distinguere: avere un figlio o una figlia non è esattamente, per una donna, la stessa cosa. In un simbolico fallocentrico è evidente che la donna, pur non mancando di nulla, viene pensata e si pensa come “mancante” e, in questo senso, una figlia femmina rappresenta, specularmente per la propria madre il raddoppio di una propria supposta mancanza.  Per me si trattava anche di altro: era anche voler smettere di essere figlia per dar vita a un’”opera” che fosse mia e solo mia. Un figlio, una figlia non sono, in fondo, delle opere? Naturalmente ci sono tanti altri modi per dar vita a un’opera, a una creazione. L’importante è che questo figlio-figlia “opera” non ne precluda altre, altrettanto significative.”

L’unico ‘movente’ che riesco a formulare è il desiderio di fare quell’esperienza, di ‘scoprirmi’, di sperimentare una me stessa sconosciuta sino a quel momento, alle prese con un compito tanto eccezionale quanto normale come quello di dare alla luce un figlio. Una sorta di bisogno di onnipotenza, direi.”

10174785_10203677830175678_7528478369082769101_nChe cosa è stata per te l’esperienza della gravidanza e del parto? Che cosa è significato diventare  madre? Quali perdite, quali acquisizioni?

La perdita, per alcuni anni, della libertà, una perdita dolorosa e difficile da sopportare e da gestire vissuta come lacerazione coatta e permanente solo parzialmente compensata da una gioia altrimenti sconosciuta e inattingibile.”

La gravidanza, il parto e la maternità sono tre epoche nettamente distinte in me, tutte di una intensità non replicabile e segnate da differenti esperienze di ‘tempo’. Durante la gravidanza il tempo quello dell’attesa, del lasciare-si andare per far spazio, del processo che prescinde da te, della fragilità e della pienezza. Il tempo del parto è quello del trauma, della violenza della natura, e del riscatto. Dopo è subentrato il tempo della madre, tempo ‘rubato’, ma anche arricchito. Quello che ho guadagnato è senz’altro un apprendimento. E poi una certa sensibilità e a tempo stesso una ‘forza-durezza’ più raffinate, inoltre, un senso di ‘femminilità’ più intimo, che sgorga dall’interno e non ha più a che fare con l’esterno. Ho perso certamente la libertà del mio tempo, fisico e mentale. E tantissimo sonno.”

Dare la vita a qualcuno/a significa collocarlo nell’orizzonte della mortalità. Ci hai mai pensato?

A 25 anni non ci si pensa affatto.  La vita che si dà, pensata come eternità, cancella l’orizzonte della mortalità su cui prevale.  Del resto, se davvero si pensasse ciò che significa dare la vita a chi non te l’ha chiesta, se davvero si pensasse a questo atto di Hybris di mettere al mondo qualcuno/a come a un atto violento, non si farebbero più figli e non è detto che sarebbe un male. Ora ci penso, invece, e il pensiero mi atterrisce, vivo il mio atto come qualcosa di cui ho da rispondere  ma probabilmente, se mi fosse dato di tornare indietro e se fossi la stessa che ero, rifarei tutto ciò che ho fatto senza nulla rinnegare.”

Già quand’era nella pancia proteggevo mia figlia proteggendo me stessa come mai avevo fatto prima d’ora. E ho cominciato a pensare alla morte come reale. Questa  consapevolezza dà la misura della responsabilità che mi sono assunta e che rimuovo spesso per  non vacillare.”

Si può essere madri in altri modi?

Credo di sì e mi pare di averlo detto.”

Madri no, materne credo di sì. Tuttavia, mettere al mondo un figlio o non farlo non è la stessa cosa: l’ho saputo solo dopo averlo fatto.”

Tu credi nella madre tutto amore e solo amore?

Assolutamente sì e assolutamente no.”

Se sa ammettere anche l’avversione, sì.”

La nascita di un figlio/a modifica spesso in positivo la tormentata relazione di una donna con la propria madre. Perché, secondo te, questo avviene?

Durante l’infanzia ho ‘adorato’ mia madre, anche se già a pochi mesi avevo capito che non dovevo esserle di intralcio. Crescendo non sono riuscita ad identificarmi a quella perfetta donna di casa e madre che, non fosse per la rabbia cieca che la rapiva ciclicamente e che scagliava in famiglia a causa del suo scontento – colpendomi spesso al cuore, non appena mi azzardavo a non rispondere alle sue aspettative – e per gli attacchi di panico mai riconosciuti, con il Tavor da sempre in cucina, riusciva a suscitare allo sguardo esterno non poca invidia. ‘Mai come lei’ mi sono ripetuta per anni, mantenendo un rapporto faticoso, a ‘debita vicinanza’, e sempre sull’orlo del conflitto. Con la nascita di mia figlia si è creato un terreno comune dove ritrovarsi e per mia madre forse sentirsi più a proprio agio con me, così diversa da lei. Dopo che ho partorito, mi ha abbracciata piangendo e partecipando al travaglio che avevo subìto: per la prima volta da adulta l’ho sentita protettiva davvero. Essere madre a mia volta mi ha fatto ripercorrere il passato e mi ha consentito di guardarla da un altro punto di vista, comprendendo che molte delle sue frustrazioni, fatiche, rancori non erano di mia madre, ma della donna che lei pure era.”

Mi riconosco donna ma non ho voluto vivere il “dentro” come mia madre. Alla nascita del mio primo nipote – un’ emozione stupenda, indescrivibile, io avevo 18 anni –  ha avuto un seguito tragico: il fascino del potere di creare 1a vita e l’ angoscia di questo potere. Non potevo prolungare la mia vita in un’altra, non potevo obbedire all’istinto biologico della procreazione, non potevo obbedire all’ideale di mia madre “non può dirsi donna chi non diventa madre”, non potevo legare a me 1’uomo che amavo o legarmi a lui con un figlio, potevo assumermi la responsabilità di mettere al mondo una nuova creatura?, potevo correre il rischio di non sentirla crescere dentro di me, di non poterla cullare nutrire accompagnare…? Sarei stata capace di darle le ali perché potesse diventare come il suo desiderio e lasciarla andare lontano nel suo mare aperto, libera di cercarsi/farsi il suo nido? Una sorella ha fatto un figlio, è stata la copia esatta di mia madre, l’altra ha fatto una figlia per dimostrare a mia madre di essere stata brava come lei ed essere da lei riconosciuta come donna-figlia-madre, così, come mia madre voleva che fosse. Intorno a me, manco una ragazza che condividesse almeno i miei punti di domanda. Decisi di vivere con la mia angoscia quotidiana e più in là nel tempo, con una nuova consapevolezza di far crescere dentro e fuori di me tutto quello che desideravo e potevo essere per comunicarlo, condividerlo. A 15 anni ho interrotto il legame con mia madre e ho scelto un’altra donna come mio punto di riferimento, a 30 l’ho sciolto o così credevo; quando è rimasta sola è tornata da me… Ho fatto da madre a mia madre, a mia sorella all’amica e all’amica dell’amica, poi ho smesso, ma non ho mai smesso di prendermi cura e degli alunni e di chiunque si trovi in difficoltà/dis-abilità, del malato grave o di chi sta per morire. Da poco, ho imparato a prenderMI in cura, anche se spesso confondo i due aspetti: penso di aver cura di me prendendomi cura degli altri. Da quando avevo 6 anni le prime parole che mi rivolgeva mia madre quando la cercavo: “dov’è tua sorella (2 anni meno di me) devi aiutarla…oppure: “Vai a consolare la nostra vicina, gioca con sua figlia down”. Questo è il materno che io ho interiorizzato…”

downloadLa relazione con mia madre non è mai stata tormentata, mi sono sempre sentita rispettata e libera nelle mie scelte forse perché lei non lo era…e dunque non ho mai avuto l’opportunità di verificare dei mutamenti di comportamento nei miei riguardi dopo la nascita di un figlio/a. Penso, tuttavia, che nei casi in cui questo accade, le ragioni possano essere molte e diverse: la possibilità per una madre di superare, attraverso la nascita di un/una nipote – figlio/a di una figlia  – quella barriera, quel tabù che le aveva impedito di esprimere al meglio i propri sentimenti nei riguardi della propria figlia, una sorta di riscatto amoroso, di riconoscimento e di restituzione d’amore possibile SOLO attraverso la nascita di un’altro/a…”

Quello che posso dire, è che, se tutto va bene, la conflittualità madre-figlia evolve verso una accettazione delle rispettive differenze e la rottura della simbiosi, che fino a che persiste, non fa che aumentare l’aggressività. Quando diventa madre, sempre che sia assicurato un sostegno reale, sociale e non solo “parentale”, una figlia che ha già individuato la sua femminilità, sarà portata a cercare il suo modo di essere madre. Ne esistono a migliaia. Non credo nemmeno che esista al 100 % il famoso “istinto materno”. Cercando la sua modalità, inevitabilmente guarderà alla madre, soprattutto se le sta vicino comunicandole affetto e non “prescrizioni e certezze” di chi ci è già passato. Si apre quindi un nuovo periodo di “crisi” e cambiamento, all’interno della coppia madre- figlia. Se tutto va bene, ci sarà una nonna discreta e affettuosa e una nuova madre che inizierà, a volte con tentativi ed errori, a volte attingendo al suo bagaglio culturale e alla sua affettività, il suo percorso, nel mondo, con un figlio o figlia…”

A me non l’ha cambiata….nel senso che mia madre si è un po’ adoperata per aiutarmi, compatibilmente con i suoi impegni mondani, ma nulla è cambiato nel giudizio negativo che sempre ha nutrito nei miei confronti, avvalorato poi dalle mie scelte affettive (marito secondo lei non adeguato a me) e lavorative. Mentre scrivo sto pensando che, dal momento che mia madre non è più in sé da quasi 15 anni, e avendo mia figlia ora 27 anni, non ha potuto avere su di lei nessuna influenza…Mi sto rendendo conto anche di essere dura, e asettica in queste poche righe…  E questo per mia figlia è stata una fortuna perché sono certa che mia madre si sarebbe comportata con lei con lo stesso modo giudicante che ha avuto con me. A conti fatti lei non si amava, nonostante tutto non amava la sua vita e sentiva di dover espiare la “colpa” di aver “fatto nascere” una figlia down, la prima figlia, e io forse dovevo espiare quella di essere una madre felice.”

Forse quando si sperimenta l’esperienza della maternità si é più propense a perdonare alcuni errori dovuti all’inevitabile contraddittorietà di tale esperienza ma lo posso solo pensare in astratto poiché non sono madre. So che ho vissuto sulla mia pelle di figlia le conseguenze del rapporto non risolto di mia madre con la sua, so che non voglio essere madre incarnando i modelli che mi hanno circondato nella mia vita, tutti modelli negativi purtroppo.”

“A vederla ora in quel letto, in quello stato, per me è uno strazio, e forse mi sto difendendo da questo dolore)… il mio rapporto con mia figlia è stato, è, del tutto diverso rispetto a quello che ho avuto con mia madre…è un rapporto affettuoso, corporale, ma allo stesso tempo rispettoso e lontano da qualsiasi giudizio.”

Mi fa piacere, non è detto che dev’essere sempre così ma solo che questa é stata la mia esperienza..”

“Si, certo, la tua esperienza di figlia di tua madre….volevo solo dirti che quella di madre di una tua eventuale figlia potrebbe essere diversa…”

“… la consapevolezza riesce a far spezzare la catena…”

“Mi sembra di aver precisato il “limite” del mio punto di vista di figlia. La catena con mia madre l’ho spezzata io, lei non me l’avrebbe mai permesso, l’ho fatto prima di diventare madre per fortuna, ora ho solo tutto da scoprire di me e del mio rapporto con la maternità e grazie a te e al gruppo ho modo di rifletterci.”

“Il mio diventare madre non ha trasformato la relazione che avevo con mia madre: conflittuale era prima e conflittuale, è stato dopo la nascita dei miei due figli. Il peso di un’educazione rigida, non si neutralizza con un “lieto evento”… Su due corpi – vissuti come estranei – è difficile re-imbastire un rapporto confidenziale e di empatia, purtroppo!!! solo dopo la sua morte il mio sguardo ed il mio giudizio su di Lei sono cambiati: ho messo insieme i suoi ed i miei e da questa somma, ho tratto il meglio……”

Ho un ricordo molto bello di una madre e una figlia gravate da un disagio        sociale inenarrabile che aveva, se possibile, inasprito ancor più la loro relazione. La nascita dei gemelli avvenne in prigione per Luisa perché era tossicodipendente. Angela accolse nella sua casa la figlia, semi-ripudiata, e uno dei gemelli, l’altro era stato dato subito in affido. Luisa ripeteva così la storia di sua madre, a sua volta privata non si sa di quanti figli e figlie. Era una grande pittrice, poetessa, scrittrice che prima di morire, praticamente suicida come il padre – ufficialmente un infarto sulla spiaggia di notte e dopo decine di tentativi non riusciti in gioventù – era riuscita, in virtù della forza che le aveva restituito sua madre e di quella che traeva dal bambino, a riscattarsi socialmente. Ricordo che poi sua madre ne parlava con un orgoglio del quale avremmo detto essere incapace. E ricordo che la nascita dei gemelli fece nascere in Luisa il desiderio irrefrenabile di conoscere una sorella. Angela dolcemente attendeva questo incontro. Il giorno dell’appuntamento Luisa uscì al mattino per comprare dei vestitini al bambino, l’incontro con Renata era fissato nel pomeriggio. Tornò ad ora di pranzo con una luce negli occhi molto più bella e forte di quella, dolcissima, che le era calata addosso con la maternità e che nessuno di noi le aveva mai visto, mascherata con tanto rossetto e trucco, avvolta nell’impermeabile bianco. L’hai vista! disse Angela. Casualmente erano entrate nello stesso negozio. Luisa era certa che quella fosse sua sorella e la chiamò per nome. Si rividero nel pomeriggio all’ora fissata. Hanno trascorso tutte e tre degli anni felici. Angela viveva come se non fosse più la “donnaccia” che aveva dovuto cedere molta parte della prole. Perfettamente inserita nel quartiere, oramai passava ore a raccontare le prodezze di Luisa che era diventata insegnante dei bambini ospiti nella comunità terapeutica. Diego si faceva grande e usciva senza vergognarsi con la nonna. Un giorno lo schianto. Poco tempo dopo se ne andò anche Angela. Diego è il custode delle opere di Luisa. Il mio ricordo, dolce, è anche molto triste perché c’è dell’altro nella sua storia che non voglio raccontare. Ma ho un bozzetto, un acquerello di Luisa, e delle foto con didascalia: perché non sono nata a Los Angeles?”

“La mia prima gravidanza ha generato una serie di cambiamenti: la perdita  di lavoro, il mio trasferimento da Roma a Milano e la separazione da mia madre. Ho vissuto quella mia prima esperienza lontana da tutto quello che aveva fatto parte della mia vita fino all’età di trent’anni. Anche se mia madre non prese bene quella mia partenza e considerato il rapporto di scontro che avevamo ogni volta che la sentivo dubitare delle mie scelte, cosa che accadeva con una certa frequenza, quella separazione non si rappresentò come un momento di rottura, ma di una sofferenza che non avevo mai sperimentato prima: la consapevolezza di aver fatto una scelta senza rabbia e che comportava di dovermene assumere la piena responsabilità, forse anche quella di un rischio che era solo mio. Mia madre, all’epoca vedova da più di dieci anni, iniziò una nuova vita romana decidendo di convivere con l’uomo con cui stava, proprio mentre io iniziavo una nuova vita milanese andando a convivere con il padre della bambina che aspettavo. Anche nel conflitto e nelle molte divergenze, credo di aver sempre capito mia madre, persona molto vitale, ancora oggi, che ha 86 anni, va a ballare al centro anziani e guai a perdersi un’occasione per uscire e stare in compagnia delle sue tante amicizie, molte più delle mie….

Credo di capire mia madre più come donna che come madre… Anche quando ho vissuto quei momenti difficili e dolorosi della diagnosi di autismo della mia prima figlia, mia madre non è stata in grado di accettare quello che stava capitando. Una volta arrivò persino a dirmi che se mia figlia fosse morta alla nascita forse sarebbe stato un bene per lei… Ebbene, io la capivo anche in quei momenti… Sentivo che lei non poteva agire diversamente, non poteva capire quello che provavo io, o forse lo capiva benissimo… Lei o drammatizzava oppure toccava solo la superficie della mia realtà, andando a ruota libera sempre, su tutti i fronti, perché lei è fatta così: un animale da fiuto, così la chiamavo quand’ero ragazza e vivevo con lei, rimasta vedova a quarant’anni con me, allora, diciassettenne irrequieta.”

madre_figlia-460x320Quando una donna/figlia decide – com’ è avvenuto per alcune di noi – di non avere figli, di interrompere la catena genealogica, qual è stato l’atteggiamento di vostra madre nei riguardi di questa scelta?

Da parte mia posso dire di non aver ancora deciso se avere figli oppure no, ma devo dire che l’eventualità che io possa decidere di non averne non è minimamente contemplata da chi mi circonda, soprattutto da parte di mio padre. Mia madre se ne resta in disparte, certo sento il suo desiderio ma osservo che non si tramuta in una richiesta esplicita, quasi per una sorta di rispetto. Ma c’é di più.. “Sembra che io debba proprio fare un figlio!” Così ho esordito ad un pranzo di famiglia quando mi sono sentita dire la stessa cosa, ovvero “è tempo per un figlio” sia da parte dei miei genitori, soprattutto di mio padre, che da parte di parenti – soprattutto donne – del mio ragazzo. La cosa che mi stupisce di più è come quest’imperativo non sia minimamente smorzato da alcun tentativo di coinvolgermi nella questione della maternità, insomma, la questione non è se io desideri o meno un figlio o una figlia ma che io ne faccia uno/una. In verità mia madre, sollecitata da una mia affermazione rivolta a mio padre che intendeva cercare di fargli capire che fare un figlio può implicare cambiamenti nella vita di una donna – tentativo inutile visto che mio padre generalmente non si interessa della mia vita, forse perché non la vede proprio, insomma… ha anche tentato di comprarmi dicendomi “se fai un figlio ti do tutto quello che vuoi”!!!!! – si è schierata inaspettatamente a mio favore portando la sua testimonianza di madre e ha cominciato ad accusare suo marito con una serie di affermazioni che vertevano attorno al completo assorbimento di una tale esperienza e al sentimento di solitudine comunicatogli dall’estraneità del marito, io ho sorriso e provato molto affettò per mia madre in quel momento.”

“Non dimenticherò mai che fu lei a fermare la giostrina che dei ragazzini turbolenti avevano preso d’assalto divertendosi a farmi vorticare…ero reduce da un’anoressia grave, avevo più o meno tre anni e mi portava lì perché per arrivarci mi mangiavo un panino per strada. Si era distratta  per parlare con delle signore ma ancora ricordo l’urlo con il quale li fermò. Anche se dopo di allora avevo le vertigini tutte le domeniche. Insomma è raro che una madre difenda una figlia. O forse no.”

“Non credo che sia raro, mia madre mi ha sempre difesa, a modo suo, facendomi anche del male, ma so che mi ha dato tutto quello che è stata in grado di darmi, non provo più rancore per lei – anche se l’ho provato per molto tempo e in questo tempo c’é stato un periodo in cui ho anche pensato di diventare madre, ma una madre diversa da lei, lo sarei poi veramente stata? – , ora provo solo una profonda tenerezza.”

Non ho mai avvertito il desiderio di mia madre incombere sulle mie scelte per condizionarle, neppure in questo caso. Ho sempre sentito in lei un atteggiamento ambivalente dettato dalla paura legata per un verso al suo ricordo dell’esperienza del dolore del parto e, per l’altro, al dolore per la perdita del suo primo figlio. Era terrorizzata all’idea che questo potesse ripetersi per sua figlia ma il suo terrore non ha impedito che ciò che era accaduto a lei non si ripetesse..”

“Anche nel mio caso si tratta di una non-maternità non accettata e soprattutto continuamente sollecitata. In culture di paese, come il piccolo paesino da cui provengo, non sono contemplati percorsi differenti a quelli “comandati” per una donna. Diverse volte mia madre e altre donne della mia famiglia e della famiglia del mio ragazzo hanno inveito contro di me dicendo che “non sono una donna” se non faccio un figlio. Cosi come non è contemplato che una donna investa cosi tanto nello studio e nel lavoro, faccia stirare e cucinare il compagno e cerchi vie alternative di realizzazione. Quello che di più strano c’è in tutta questa faccenda è che ho respirato fin da piccola, da tutte queste donne, insoddisfazione, frustrazione, dolore; si sentivano imprigionate in un ruolo che forse non volevano o che le ha costrette a lasciare per strada una parte di sé per vivere la vita che altri volevano per loro. Perché, allora, non assumere un atteggiamento diverso nei confronti di chi vedi realizzata? Invidia? Paura del giudizio della gente? Che altro?”

Le donne di Tabula Rasa e altre amiche..