Autodeterminazione è forse il “sogno vecchio e moderno dell’autonomia del sé?”

Conversando “a partire da altre a partire da noi”

MARIA MICOZZI

Quando ci troviamo davanti a una contraddizione, a un vicolo cieco che è assolutamente impossibile aggirare, se non con una menzogna, allora sappiamo che in realtà è una porta. Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L’umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità(S. Weil, Q, IV)

Eccoci ancora qui, per la terza e ultima Conversazione, prima dell’attesa pausa estiva, a parlare, questa volta, di Autodeterminazione, a bussare alla porta di una parola importante, molto cara al femminismo degli anni ’70 e allora utilizzata in diversi contesti, primo fra tutti quello della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, con cui veniva riconosciuto alla donna il diritto di decidere liberamente se diventare madre o meno. Veniva così sancito per la donna, un diritto esclusivo e al tempo stesso escludente nel senso che l’ascolto del parere dell’uomo non era obbligatorio ma poteva essere concesso, a sua discrezione, dalla donna stessa. Si trattava di una procedura che, nonostante non fosse stata appoggiata da molte donne sostenitrici delle depenalizzazione dell’aborto, trovava piena legittimazione e consenso nella stessa definizione del termine autodeterminazione cui era conforme:

Il diritto allautodeterminazione è il riconoscimento della capacità di scelta autonoma ed indipendente dell’individuo.

E’ possibile che il concetto di Autodeterminazione sia uno di quei concetti che rientra “nel sogno, vecchio e moderno, dell’autonomia del sé”? (Cavarero). E’ possibile che rappresenti e incarni, suo malgrado e forse a insaputa di tante che ne fanno uso, “le patologie egocentriche del soggetto moderno o dell’ontologia individualista che “scambia le relazione per indistinzione e la dipendenza per incorporazione”? (Cavarero)

Sono queste “patologie egocentriche” a preoccupare  Cavarero che così le descrive in un dialogo con Butler di cui si consiglia, per chi non l’avesse fatto, la lettura integrale:

Le patologie egocentriche del soggetto moderno, o se vuoi, dell’ontologia individualista, mi preoccupano molto di più delle sue ansie nei confronti dell’altro in quanto luogo di contaminazione, disfacimento dissoluzione. Perché, dal punto di vista della filosofia occidentale, se ci pensi bene, c’è appunto una certa logica nella follia di questo “soggetto” che, dopo secoli spesi a celebrare la sua autonomia e autopoiesi non appena scopre la dipendenza, viene colto dal timore di sparire nell’altro. (Cavarero, Dal Dialogo con Butler su Condizione umana contro natura).

La categoria della dipendenza è dunque centrale “per un’etica della relazione” e la necessità di procedere alla decelebrazione della nozione di soggetto autonomo e autodeterminato è radicale. Parole come autodeterminazione, indipendenza, autonomia, sovranità di cui il femminismo ha fatto e continua a fare largo uso, hanno dunque una storia piuttosto lunga e complessa dalla quale non si può prescindere: esse sono, precisamente, gli assi su cui da sempre ruota, in ambito filosofico, il soggetto autarchico, egocentrico, autosufficiente e solipsistico riconducibile, per restare al gergo filosofico, a un’ontologia individuale. Sappiamo anche che le parole indicate alludono a un posizionamento soggettivo incompatibile con un’ontologia della relazione per dar conto della quale sono altri i termini cui  dovremmo fare ricorso: vulnerabilità, dipendenza, inclinazione e altri ancora. Ci è noto, inoltre, che il primato di un’ontologia individualista e la “sovranità dell’io” che in tale primato eccelle a scapito della relazione, non è una peculiarità riservata al soggetto moderno ma è un tratto caratteristico della filosofia antica di stampo patriarcale inclusa quella platonica. Va ricordato, da ultimo, che la necessità di contrastare la “sovranità” dell’io, è ben presente e rilevante sia nel pensiero di due grandi donne, di Harendt quando scrive: “Ogni inclinazione ci spinge fuori dall’io”,  e di Virginia Woolf quando ci ricorda che “all’ombra della parola “Io” ogni cosa diventa senza forma, come nebbia…”.

Ecco, pensiamo che tener conto di questa minima “cornice” di riferimento che ci viene dalla lettura dei testi di Cavarero – e dal debito da lei dichiarato nei confronti di Arendt  -,  dalla lettura di Butler  – e dal debito a sua volta dichiarato nei riguardi di Cavarero in merito ai temi della vulnerabilità e della dipendenza e “alle implicazioni etiche” che essi comportano – sia preliminare all’avvio di qualsiasi Conversazione che abbia per oggetto il tema dell’autodeterminazione in cui una serie di interrogativi sul rapporto fra autodeterminazione e relazione e sulla loro compatibilità sono li ad attenderci sulla porta. A sollecitare un confronto, all’interno del femminismo, su questo tema – di cui ci siamo già peraltro occupate criticamente in alcuni saggi pubblicati tempo addietro nel blog Tabula rasa – è un articolo di Ida Dominijanni  Il corpo è mio e non è mio, riguardante la diatriba femminil-femminista recentemente scatenatasi dopo la diffusione, in fase elettorale, della foto “scostumata” di Paola Bacchiddu in costume (Lista Tsipras). Si tratta di un articolo in cui il tema dell’autodeterminazione viene riproposto con forza e  criticamente ripensato in rapporto alla prostituzione ed è prendendo spunto da questo articolo – e dalla definizione del termine autodeterminazione precedentemente indicata – che cercheremo di considerare distintamente  ma congiuntamente invece che separatamente, il ruolo che l’autodeterminazione può svolgere in due differenti ambiti:

a) all’interno del dibattito femminista in materia d’aborto;

b) all’interno del dibattito femminista sulla prostituzione.

Si tratterà di capire, in altra parole, se la critica rivolta al concetto di autodeterminazione e la sua messa in questione, possa valere essere sostenuta solo riguardo alla  prostituzione o se essa riguardi anche l’aborto. La necessità di circoscrive re il nostro campo di ricerca ad alcuni aspetti, ci ha dissuaso dall’approfondire, in questo contesto, il confronto su un aspetto – che pure riteniamo importante – relativo alla prostituzione, al suo essere o non essere una delle tante istituzioni del colonialismo nonostante non si nutrano dubbi sul fatto che lo sia.

cortigiane

Entriamo subito in medias res, attraverso il recente dibattito sulla prostituzione  apertosi all’interno del femminismo, chiedendoci, in primo luogo, se il diritto all’autodeterminazione – inteso come “riconoscimento della capacità di scelta “autonoma e indipendente” –  includa, in nome della difesa del principio di libertà, il diritto di una donna a prostituirsi. Va da sé che in caso di risposta affermativa, avrebbe ragione la filosofa e femminista Badinter nel rigettare le obiezioni delle femministe contrarie a una “rivoluzione sessuale” fondata sulla libertà di prostituirsi. Ciò che risulta dal dibattito, è che, come stiamo sostenendo da tempo, la parola autodeterminazione – rispondente e conforme al paradigma maschile di una sovranità individuale assoluta – è un termine che all’interno del femminismo fa problema. Ne abbiamo conferma scorrendo alcuni passaggi dell’articolo di Dominijanni  sopra citato che pone la questione rifacendosi, non casualmente, a Vite precarie di Butler:

In ”Vite precarie”, un libro di ormai dieci anni fa, Judith Butler infranse il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”, perché se è vero che ognuna ne è titolare e può deciderne, è altrettanto vero che ogni corpo è inserito in una rete di relazioni e di significati dai quali nessuna, nel deciderne, può prescindere. Affermazione tanto più rilevante in una pensatrice in cui, a torto o a ragione, si è voluto vedere il vessillo della possibilità individuale di scegliere liberamente perfino l’appartenenza a un sesso o a un altro. Ma si sa che a Butler è toccato lo strano destino di essere sbandierata finché sembrava una paladina dell’onnipotenza individuale e di esserlo molto meno da quando si è capito che non lo è affatto: cose che capitano ai pensieri complessi in tempi di alternative semplici semplici. Tipo quella fra ”femminismo moralista” e ”femminismo libertario” in cui la semplicità dilagante, la chiamo così per essere gentile, ha deciso di gettarci.

Se noi o alcune di noi saremo/saranno gettate, dopo questa Conversazione, nel mucchio delle “moraliste” o delle “libertarie”, non è rilevante. Ci sembra più importante, invece, evitare quella “semplicità dilagante” alla quale Dominijanni giustamente non indulge, per contribuire, per quanto possibile, all’approfondimento del nesso che emerge in questo brano fra i due posizionamenti soggettivi  indicati – che fanno rispettivamente capo a un modello autarchico e individualista (ontologia individuale) e a un modello relazionale (ontologia relazionale) – e all’importanza di tale nesso in rapporto al concetto di autodeterminazione.  E poiché ad essere chiamata in causa a sostegno del modello relazionale, è Butler, vale la pena aggiungere quanto da lei stessa precisato in proposito:

Non si tratta semplicemente di proporre una visione relazionale al posto di una visione autonoma del sé, cercando di riscrivere l’autonomia in termini di relazionalità (J. Butler, Vite precarie)

Non si tratta, dunque – aggiunge Cavarero – commentando Butler – di un “innesto” ovvero:

…di correggere l’ontologia individualista innestandovi la categoria di relazione. Si tratta invece di pensare la relazione stessa come originaria e costitutiva ovvero come una dimensione essenziale dell’umano che, lungi dal mettere semplicemente in rapporto individui liberi e autonomi l’un con l’altro (…) chiama in causa il nostro essere creature vulnerabili (…). (Cavarero,  Inclinazioni. Critica della rettitudine)

L’irriducibilità della categoria della dipendenza legata a una vulnerabilità che non opera solo nell’infanzia “ma sempre e ogni volta di nuovo” viene qui riaffermata con forza. Sempre in merito al ruolo dell’autodeterminazione nella prostituzione e al rischio segnalato da Dominijanni che ne deriverebbe, – la “completa sussunzione della libertà femminile nella libertà di mercato” –  leggiamo un altro passaggio in cui, proprio a questo proposito, l’autrice si domanda:

E’ questo che vogliamo? E se sì, è lecito usare a questo fine l’antica bandiera femminista dell’autodeterminazione? ”Il corpo è mio e lo gestisco io”, slogan inventato quarant’anni fa per esprimere la volontà di riappropriarsi del corpo femminile sequestrato dal patriarcato, può servire oggi a legittimarne spensieratamente la prostituzione nel post-patriarcato? L’idea della sovranità assoluta sul nostro corpo, tipica della baldanza del primo femminismo, non dovrebbe cedere il passo a una concezione più matura del soggetto non-sovrano, come ci invita a fare Butler?

994891_649579145052530_237626810_n

Che cosa possiamo ricavare di utile da questo passaggio, per la nostra Conversazione? C’è da dire, innanzi tutto, che a compensare parzialmente un certo orgoglio “rivendicazionista”, che pure si avverte, comprensibilmente, per l’antica bandiera femminista dell’autodeterminazione – nata in origine,  come si sa e si dice, non già allo scopo di “legittimare spensieratamente la prostituzione nel post-patriarcato” ma per “esprimere la volontà di riappropriarsi del corpo femminile sequestrato dal patriarcato” – c’è una certa indignazione per l’utilizzo improprio, fatto da alcune donne, del vecchio slogan Il corpo è mio e lo gestisco io, che approda, infine, a una revisione decisamente critica rivolta alla “baldanza del primo femminismo”, una baldanza che dovrebbe oggi far posto a una “concezione più matura del soggetto”, all’idea di un soggetto non sovrano. Insomma, l’antica bandiera dell’autodeterminazione, issata e parzialmente rivendicata, è al tempo stesso una bandiera ingiallita che dissuade, dal trasformare lo slogan femminista  “il corpo è mio e lo gestisco io”,  in una licenza alle donne a prostituirsi. Ma se la bandiera dell’autodeterminazione non può essere issata per la prostituzione può essere sbandierata per l’aborto? Ecco, al di là degli schieramenti, il nodo  su cui ci sentiamo sollecitate a far chiarezza, sui moti e sulle oscillazioni di questa bandiera ine due diverse esperienze del corpo. Ci interessa verificare, insomma, se la messa in discussione del diritto di autodeterminazione valga, oltre che per la prostituzione, anche per l’aborto (l’utero è mio e lo gestisco io)  se – per dirla con Dominijanni – “l’idea  della sovranità assoluta sul nostro corpo, tipica della baldanza del primo femminismo” non debba “cedere il passo”, anche nel caso dell’aborto, “a una concezione più matura del soggetto non-sovrano…” o se invece, in questo caso, debba continuare a regnare il principio della sovranità assoluta della donna e, da ultimo ma non per importanza, come  possa una tale sovranità ab-soluta  (sciolta) accordarsi con la trama delle relazioni su cui insiste Butler dal momento che un corpo gravido è inserito, come e forse più di ogni altro corpo – dentro questa trama.

La divisione fra “femminismo moralista” e “femminismo libertario” vi convince?

Emanuela: “femminismo moralista” e “femminismo libertario”: non mi convince questa divisione che determinerebbe forme di opposizione prima ancora che un’ obiettiva comprensione dei significati che queste differenti vedute rappresenterebbero. Ne perderebbero di valore il pensiero e il ragionamento annessi alla questione di cui si dovrebbe poter discutere anche all’infinito – se necessario. Magari differenziando un pensiero da un altro evitando frammentazioni  su una questione dai mille risvolti dispersivi. Mi domando se sia necessario e per chi o per cosa prendere una posizione decisa su questo argomento. Cominciare a porci domande prima che darci risposte, questo aiuterebbe a partire prima di considerare l’arrivo.

Paola: No, non convince, siamo di fronte a una delle solite opposizioni riduttive ma ho notato – e la cosa mi è sembrata apprezzabile – che la stessa Dominijanni pare  in qualche modo propensa a credere che, insomma… da qualche parte… forse… un po’ di moralismo ci sia quando dice: “Qui mi dispiace, ma il moralismo non c’entra proprio niente, o se c’entra c’entra in posizione marginale e residuale”. E poi aggiunge: “C’entra invece l’adesione piena, non so quanto inconsapevole e quanto opportunista, all’etica neoliberale del mercato e della competizione”. Sono convinta che non si tratti di moralismo propriamente inteso, ma di qualcosa d’altro che richiede, per essere definito, un altro nome, qualcosa che ha a che fare con la “postura” di chi, ritenendo di  trovarsi di fronte a un’ “impostura”, re-agisce con una postura opposta. E qui l’accenno di Dominijanni al registro della ’”inconsapevolezza” è un’occasione utile per arricchire la nostra Conversazione su aborto e prostituzione spostandola su un terreno capace di tenere nel giusto conto una dimensione – quella dell’inconscio – cui l’attuale dibattito non pare per nulla interessato e di cui non s’è vista la minima traccia . Ci pare che questo disinteresse dovrebbe interrogarci. Non si vede, infatti, in che modo due  temi importanti per il femminismo –  aborto e  prostituzione – possano essere affrontati, dal versante dell’autodeterminazione, prescindendo da qualsiasi riferimento all’apporto necessario di quella dimensione autocoscienziale che è il “partire da sé”. Credo anch’io, con Emanuela, che prima di prendere posizione su questo argomento sia necessario sviscerarlo ed è ciò che stiamo cercando, non senza difficoltà, di fare.

Rossana: Mi sembra che questa partizione all’interno del femminismo possa rappresentare le due facce di una stessa medaglia, coniata per dar valore o meno ai comportamenti delle donne, utilizzando come unità di misura il rapporto che esse istituiscono con il proprio corpo e con il mondo, in particolare quello maschile e con le esigenze del patriarcato. La tentazione di leggere questa dicotomia come una spaccatura, rischia però di buttarci nuovamente sotto le grinfie di un Super-Io che, con voce femminile, da un lato censura, dall’altro permette, ma che in ogni caso lavora usando come materia prima il senso di colpa, promuovendolo o al contrario sedandolo, per l’alto tradimento contro la sacralità del principio di autodeterminazione. Credo, invece, che entrambe le posizioni portino istanze per certi versi sovrapponibili, purchè se ne vada a fondo: si auspica che la donna possa disporre di sé liberamente, come ‘le libertarie’ sostengono, ma lo possa fare solo se è consapevole di ciò che fa. In questo senso, la ‘baldanza’ di cui si discute forse richiama alla s-pensieratezza dell’in-coscienza, ossia al non-pensato ma agìto inconsciamente, che, al di là di ogni connotazione clinica, sintetizza in sé il problema e la sua soluzione legandoli indissolubilmente – perciò senza ri-solvere alcunchè -, dando l’illusione di essere libere mentre si è vincolate profondamente da meccanismi antichi che funzionano nel buio delle nostre pulsioni, prodotto della cultura nella quale siamo ancora immerse: mi pare sia questa la trappola temuta da coloro che di moralismo si accusa.

Leda: Che cos’è l’autodeterminazione? Cosa significa per una donna non rinunciare ad “avere l’ultima parola” come ci suggerisce Elettra Deiana? E che tipo di posizione soggettiva implica questa scelta in relazione all’aborto e alla prostituzione? Dove ci poniamo, tra le libertine o tra le moraliste? Forse è meglio riderci su che cercare di essere clementi di fronte all’ennesima trappola ideologica in cui il femminismo – che rimane pur sempre un “ismo” e dunque un’ideologia – ricaccia le donne senza pietà. Anche se il femminismo non fu sempre questo, non lo era quando il suo discorso ruotava attorno all’intimità delle donne, alla scoperta del loro assoggettamento al potere, al riconoscimento di uno scacco fatale dal quale nessuna era totalmente esente indipendentemente dalla classe sociale, dall’educazione e dalla storia personale. Le due polarità “moralismo” e “libertinismo” ci mostrano come la posizione nei confronti dei temi affrontati, quello dell’aborto e della prostituzione, siano molto distanti dalle posizioni soggettive e intimistiche del primo femminismo. C’è chi direbbe che questo è il normale sviluppo di un processo in cui le tappe si succedono l’una all’altra in continua evoluzione, anche se nel rintracciare le tappe di questo supposto progresso mancano delle fasi fondamentali per comprendere come si è arrivati al suddetto schieramento, il quale sembrerebbe – come ci suggerisce Ida Dominijanni – una semplificazione di gran lunga sminuente la complessità di un pensiero senza schieramenti: “cose che capitano ai pensieri complessi in tempi di alternative semplici semplici”. Tipo quella fra ”femminismo moralista” e ”femminismo libertario” in cui la semplicità dilagante, la chiamo così per essere gentile, ha deciso di gettarci.” C’è da chiedersi, a questo punto, perché rispetto a una questione complessa qual è quella dell’aborto, irriducibile ad una semplice scelta fra un sì e un no, si ricorra a una tale banalizzazione della complessità. Verrebbe da sospettare che è proprio la complessità e l’irrimediabilità di un conflitto – come può essere quello di decidere se tenere o no un figlio o una figlia – a spingere verso la via-soluzione apparentemente più semplice. Eppure la posizione moralista e quella libertaria qualcosa in comune ce l’hanno, come d’altronde tutti i termini che si trovano in opposizione: entrambe, infatti, rivelano una posizione soggettiva “eretta” – prendo qui a prestito le parole di Cavarero – ovvero, una posizione in cui il soggetto non contempla l’altro da sé, la dimensione relazionale. La posizione moralista, come tutte le morali, ruota attorno ad un sistema di valori universalmente riconosciuti, in altre parole, contempla la cosa giusta in sé e non in rapporto alla realtà che la comprende. Il soggetto si pone dinanzi ad una verità universale e agisce in nome di quella. Nel caso della prostituzione, quindi, schierarsi contro di essa escludendo a priori la possibilità che possa veramente essere la libera scelta di una donna, significa assumere – come confessa velatamente Dominjianni – una posizione moralista. Nell’assumere a modello un ragionamento che si basa su questa polarità oppositiva, da una parte una posizione giudicante, dall’altra una rivendicazione, forse istigata proprio da questo giudizio, si rischia di perdersi e perdere il fulcro su cui ogni riflessione in tema di aborto e di prostituzione dovrebbe basarsi, ovvero quello della donna che prende tale decisione. e del suo rapportarsi alle diverse possibilità esperienziali che si trova di fronte. Cosa significa per una donna abortire e cosa significa prostituirsi? Prima di riflettere su questo dobbiamo rilevare, come suggerito, una fondamentale differenza nell’impiego del termine autodeterminazione in relazione all’aborto e alla prostituzione. Sembra, infatti, che la prima associazione sia d’uso comune mentre la seconda molto meno frequente. A rigor di logica, dobbiamo però osservare che se autodeterminazione significa “capacità di scelta autonoma ed indipendente dell’individuo”, una donna che decide autonomamente e indipendentemente di prostituirsi, è una donna che si autodetermina. Certo si può discutere sul significato delle parole autonomia e indipendenza ma, in tal caso, bisognerebbe mettere in discussione anche il termine autodeterminazione. Sembra che questo sia più facile in relazione al tema della prostituzione, come se ci fosse, da parte di alcune donne, un rifiuto di fronte alla mercificazione che altre fanno del loro corpo. Posso solo ipotizzare che questo rifiuto sia proporzionale al riconoscimento della specularità di tale comportamento rispetto all’uso maschile del corpo femminile perpetuato per millenni. Rimane comunque curioso il fatto che riguardo al tema dell’aborto non ci sia un tale rifiuto di fronte alla decisione di sottoporre il proprio corpo all’invasività di un’azione di per sé non moralmente disprezzabile ma di sicuro violenta.

Emanuela: per quanto riguarda gli argomenti aborto/prostituzione, penso che non si possano trattare sullo stesso piano in termini di autodeterminazione. Sono “scelte” che implicano sensibilità particolari riguardanti anche le vite degli altri e azioni precise da sostenere e di cui è quasi d’obbligo doverne rendere conto….

16

Paola: Va inoltre precisato, come qualcuno suggerisce, che all’uso dell’articolo determinativo che precede la parola “autodeterminazione” sarebbe preferibile l’uso dell’articolo indeterminativo: una autodeterminazione. Essa, infatti “non è mai l’unica possibile ma sempre una possibile autodeterminazione, dato che la sua forma (individuale e collettiva) è – dovrebbe essere; lo è ancora? – il risultato di una scelta che si esercita di volta in volta e non un assoluto da replicare eternamente uguale a se stesso” (F. Sollazzo)

Dalle considerazioni sin qui emerse, in particolare da alcuni punti toccati da Leda, mi viene da fare una sollecitazione che forse ci permette di entrare  nel vivo del problema dell’autodeterminazione e della sua duplice declinazione nei differenti ambiti della prostituzione e dell’aborto. Vi proporrei allora di partire dal corpo e di considerare e confrontare la messa in gioco, in un caso e nell’altro, del corpo femminile.

Paola: La prima cosa che mi viene da dire è che siamo di fronte a due esperienze  del corpo assai diverse e non assimilabili: mentre nel caso della prostituzione la decisione riguarda la messa in gioco unicamente del proprio corpo, nel caso dell’aborto non si tratta semplicemente di decidere del  proprio corpo ma di un corpo in relazione con ciò che lo abita – quale che sia e comunque si voglia definire la “cosa” che lo abita.  Credo che per una donna il solo fatto di venire a “sapere” di essere incinta e di avere quindi consapevolezza della propria nuova condizione, trasformi radicalmente la sua precedente relazione con il proprio corpo avvertito come un “altro” corpo, il corpo di un’”altra”, un corpo percepito e vissuto  diversamente da “prima” e fantasmaticamente abitato – nei modi dell’intrusione o dell’accoglienza o, più spesso di entrambe – da “altro” da lei.  Oltre a questo tipo di relazione, c’è anche la relazione con il partner necessario al concepimento. Il ruolo del corpo, nel caso della prostituzione, è totalmente diverso: l’autodeterminazione a prostituirsi  e a deciderne perciò liberamente, prescinde sia dalla relazione con “ciò” che lo abita – e con cui immaginariamente ma inevitabilmente si entra in relazione – che dalla relazione con un partner responsabile del concepimento.

40DonneSEPOLCRODonne longobarde

Rossana: La donna che decide di prostituirsi (ovviamente non quella che subisce tale destino) decide come muoversi sul confine della relazione con il maschio, ad esempio attraverso l’uso del preservativo o precludendo alcune parti del proprio corpo e comunque separando l’atto sessuale dalla relazione sessuale, impedendo la gravidanza. Nella donna che decide di abortire o meno, invece, il confine è stato superato e l’embrione ne è il segno. Due situazioni molto diverse, sì, ma che si trovano anche molto vicine sotto il grido all’autodeterminazione ‘il corpo è mio e lo gestisco io’: decido liberamente chi far entrare e uscire; se, quando, quanto, come, con chi fare l’amore, quindi la madre, quindi la donna. L’autodeterminazione, se così intesa, sembra funzionare alla stregua di un ‘meccanismo di difesa’, che facendo della sovranità sul proprio corpo un valore, rende il corpo un ‘oggetto’ nelle mani dell’Io: scindendo l’esperienza fisica da quella psichica in una sorta di ‘isolamento affettivo’, trova dunque il modo di non farsi rin-tracciare da questi incontri che inevitabilmente la condizionerebbero, richiamando in vita il fantasma della sottomissione, riattivando il “timore di sparire nell’altro” citato nell’introduzione, nonché sensi di colpa insopportabili. Sappiamo bene, però, che noi non ‘abbiamo’ un corpo, lo ‘siamo’. Ogni esperienza che facciamo è un fenomeno irripetibile e incancellabile che lascia traccia in noi e, attraverso di noi, nel mondo con cui siamo in relazione. E per questo i meccanismi di difesa agiscono a nostra protezione, come una pelle psichica a garanzia di un’esperienza con l’altro/a sostenibile, sul fragile equilibrio tra interno ed esterno, crinale sul quale continuamente oscilliamo, tra identificazioni e proiezioni, individuazioni e separazioni, piacere e dispiacere. Il desiderio di una stabilità definitiva che fermi questa oscillazione, questa altalena emotiva, assomiglia molto al principio di costanza freudiano che, con lo scopo di fermare la sofferenza, pretende la stasi, la morte. Nell’aborto l’esperienza del corpo relazionale che la gravidanza rappresenta è ai massimi livelli e, come dice Paola, è fondamentalmente inevitabile: forse proprio per questo, il sostegno all’autodeterminazione è più netto, a difesa dai rischi di intrusione. E della colpa. Credo che per parlare di libera scelta, quindi, si debba fare i conti con un ‘partire da sé che implichi la consapevolezza delle proprie difese e, quindi, dei conflitti e dei compromessi, dei bisogni e dei desideri, nonché delle angosce e della distruttività che albergano in noi e che, volenti o nolenti, ci spingono ad agire.

Sulla base di quanto detto nell’Introduzione alla Conversazione a proposito del concetto di autodeterminazione e sulla scorta delle considerazioni di Dominijanni sulla scia di Butler, pensate che questa parola sia ancora spendibile, che andrebbe ripensata o addirittura eliminata?

Lorella: Sono decisamente d’accordo nel ritenere che non sia possibile pensare l’individuo avulso dal contesto in cui vive e nel sistema di relazioni in cui è collocato: l’identità personale non può che plasmarsi sul sociale e si muove lungo un continuum che va dal conformismo alla trasgressione secondo le situazioni che si vengono a creare. Mi piace citare, a questo proposito, tutta quella direzione di studi e ricerche aperte in sociologia dall’interazionismo simbolico e dagli indirizzi del costruttivismo sociale che, analizzando la vita quotidiana, ci mostrano proprio le tensioni che possono venirsi a creare tra questi due poli opposti, conformità e opposizione. Perché, in fin dei conti, la relazione richiama a una qualche forma di vincolo all’agire individuale cosi come l’autodeterminazione ci porta a pensare, nella sua forma estrema, a un individualismo che non si lascia tanto ingabbiare, e il conflitto che si può venire a creare tra questi due opposti è decisamente irrimediabile. Nelle sue radici, il femminismo ha dovuto affermare questo concetto perché si opponeva a una società altamente costrittiva dell’identità femminile, sotto ogni punto di vista. Lungi dall’aver raggiunto la cosiddetta “parità”, oggi forse possiamo pensare di parlare in termini di “assunzione di responsabilità” individuale (come suggerisce Bauman) più che di autodeterminazione. Questa espressione – forse – lascia spazio a un qualche riferimento alla relazione e al sistema di valori che orienta l’azione e se lo si contestualizza nella particolare situazione in cui le persone si trovano a vivere, decidere e agire, le opposizioni sopra richiamate perdono di forza.

Maria: “Il corpo è mio e lo gestisco io”, slogan femminista anni ’70, va contestualizzato: era un tentativo di emancipazione/liberazione dalla repressione e sudditanza del potere patriarcale. Quelle donne scendevano in piazza a rivendicare il diritto e la volontà di riappropriarsi del proprio corpo, fino ad allora proprietà – sancita dal matrimonio – del coniuge che ne poteva disporre a suo piacimento. Slogan servito a legittimare la 194 (fino ad allora l’aborto era considerato reato): con tale legge chi ha usato e abusato del corpo della donna, concede alla donna la possibilità di liberarsi del “prodotto” della fecondazione (non del frutto del concepimento di una relazione) assolvendosi da ogni reato/responsabilità. Nella rivendicazione (delusione, rabbia, vendetta), la donna di fatto riconosce la supremazia e il dominio a colui a cui chiede la concessione di un diritto/libertà. La rivendicazione non è conoscenza/consapevolezza dei propri diritti, bisogni, desideri e quindi non è scelta libera e responsabile. Se la donna decide per l’aborto, non pensa alla rinuncia a diventare madre, ma a liberarsi in qualche modo di quel “prodotto” della fecondazione ottenuto dall’uso/abuso/violenza. La 194 con l’intento di salvare la vita della donna – con l’aborto clandestino ne morivano troppe – il potere maschile mantiene inalterato lo status quo: si è ipocritamente schierato a favore della donna, ma di fatto soggiogandola. Ho votato la 194 perché, pur consapevole ora come allora dell’“inganno”, pensavo di non potermi sostituire alla decisione di chi optava per l’aborto. Il mio punto di riferimento è la posizione di Carla Lonzi (vedi: Sputiamo su Hegel). Lo slogan “il corpo è mio…” usato per sottolineare la libertà di prostituzione è ugualmente rivendicazione nei confronti dello sfruttamento subìto. La donna che lo fa per riscattarsi socialmente, professionalmente, o solo economicamente, usa il potere della prestazione sessuale, dietro compenso, per soggiogare e rendere dipendente l’uomo. È un tentativo di invertire il “gioco delle parti”. In entrambi i casi, aborto e prostituzione, diversi ma simili in quanto invocano l’autodeterminazione, giocano la conquista della libertà sul terreno della violenza, alienazione e solitudine. Sono d’accordo con Judith Butler: “il corpo è mio e non mio”, a sottolineare il potere della relazione che l’autodeterminazione intesa da una parte di femministe oggi come allora, ha invece dimenticato.

Paola: In base alle considerazioni inizialmente emerse sul significato e sui luoghi d’origine di questa parola e di altre ad essa affini, penso che l’uso del termine “autodeterminazione” sia altamente problematico e fuorviante nella misura in cui si ispira, come abbiamo visto, a un paradigma ontologico maschile e individualista piuttosto che a quel paradigma relazionale che molte femministe vanno costantemente invocando. Si tratta, peraltro, di una contraddizione tutta interna al femminismo che senza tregua lo attraversa. Basti pensare all’uso  costante e spesso martellante della parola “relazione” che viene utilizzata da molte femministe in tutte le occasioni possibili. Capita, con questa parola, la stessa cosa che capita – e lo faceva già notare già Angela Putino – con la parola “differenza”. Ho già detto a questo proposito e in altro contesto, che l’insistenza ossessiva nell’uso di questi termini,  il continuo nominare, è un modo performativo per fare esistere ciò che non c’è.  Meno c’è e più  nomino per far esistere ciò che non c’è ma la strategia, alla lunga, non funziona. Non so se “autodeterminazione” sia  una parola da eliminare ma credo non possa essere utilizzata senza la consapevolezza della problematicità e dei rischi che il suo uso comporta. Trattandosi di un termine abbondantemente in uso nel gergo della cultura patriarcale che di autodeterminazioni e di ontologie individuali, di autocelebrazioni di autonomie e di autarchie, di solipsismi e di autismi, di sovranità e di relazioni mancate, vanta un ricchissimo repertorio di cui le opere dei  filosofi e dei teologi ampiamente testimoniano,  credo che questa parola vada sicuramente ripensata.

BELLE

Leda: Sono d’accordo con Lorella e Paola sulla necessità di ripensare la parola Autodeterminazione. In particolare su quanto detto mi piacerebbe approfondire astraendo dalla diversità delle due esperienze, quella della prostituzione, in cui il corpo è oggettivato ma pur sempre – come nota Paola –  svincolato da una relazione di necessità con un altro corpo o con se stesso, e quella dell’aborto, in cui è invece già compromesso con un altro corpo fuori di sé e un corpo potenziale dentro di sé. Mi interessa capire se la posizione di quel soggetto che abbiamo definito, autarchico e autosufficiente – una posizione di dominio – può dar conto dell’oggettivazione che viene messa in atto a scapito del proprio corpo. Butler ci insegna in The psychic life of power che la relazione padrone-servo è il fondamento ontologico del soggetto e, se questo è vero, fare del proprio corpo un oggetto vorrebbe dire metterlo nelle mani del padrone affinché egli ne faccia ciò che desidera. È questo l’unico modello pensabile di soggetto oppure l’ontologia relazionale senza innesto – come suggerisce Cavarero – potrebbe fornirci un’alternativa?

Rossana: Personalmente, penso che questa parola sia importante e al tempo stesso pericolosa se non viene superata e ripensata. Il rischio maggiore che vedo è quello che rimanga un ‘mito’ e come tale ordini la realtà – interiore ed esteriore – delle donne che, emulando la verticalità del modello patriarcale maschile, restano nell’illusione che in questa postura stia la libertà. Così facendo, le relazioni,  e l’uso del proprio corpo in esse, diventano strumentali, finalizzate a raggiungere l’agognata meta dell’autonomia/indipendenza, rovesciando il mezzo con il fine. Mi chiedo anche quanto l’epidemia, rilevata negli ultimi decenni, delle patologie dei disturbi dell’alimentazione, anoressia e bulimia,  non rappresenti in qualche modo la realizzazione perversa di questo mito: nel primo caso rifiutando il bisogno dell’altro/a tout-court negandosi l’elemento primo di dipendenza qual è il cibo, nel secondo assumendolo in modo autarchico governando l’assunzione-espulsione con una sovranità dell’Io che estromette la relazione con gli effettivi segnali del proprio corpo e al tempo stesso la relazione con il mondo. Ritengo, tuttavia, che la parola autodeterminazione possa comunque non essere eliminata, ma possa essere ripensata e risignificata come il riconoscimento alla donna della sua capacità di scelta decisiva, purchè riconosca anche il ‘bisogno dell’altro-a’ e la collochi all’interno della trama delle relazioni nelle quali è implicata, consapevole del loro potere trasformativo, dentro e fuori di sé.

Immagine

Pensate che la critica di moralismo rivolta da alcune alla posizione di Dominijanni sia pertinente?

Lorella: se seguo il filo del ragionamento che ho abbozzato sopra, mi pare di poter affermare che femminismo libertario e moralista siano la trasposizione di due opposti tra loro inconciliabili, come tutte le ideologie, del resto, come ben argomenta Leda. E come tutti gli estremismi, non possono che stridere al confronto con la realtà. Il fatto di difendere il principio di autodeterminazione per ciò che riguarda l’aborto e di rifiutarlo se lo si applica alla prostituzione non sarebbe in sé sbagliato se le motivazioni di questa rimodulazione fossero solide. Di fatto, ho la sensazione che sotto sotto ci siano questioni più emotive che razionali che inducono una parte delle donne a prendere queste posizioni.

Paola: Se ho capito bene, Lorella, tu saresti orientata a sostenere il principio di autodeterminazione per quanto riguarda l’aborto e non per quanto riguarda la prostituzione ma nel problematizzare giustamente la questione, ipotizzi e auspichi, mi pare, l’apporto di “motivazioni solide” che potrebbero/ dovrebbero intervenire per poter teorizzare in modo convincente una diversificazione fra le due esperienze di cui si tratta. Ecco, credo il nostro essere qui sia finalizzato a cercare insieme le motivazioni  di cui parli, quelle motivazioni che ci autorizzerebbero a sostenere, a ragion veduta e in modo non infondato, che uno stesso principio, l’autodeterminazione – la cui connivenza e le cui implicazioni e incrostazioni patriarcali sono ormai, da quanto detto, evidenti –  può essere diversamente declinato in due diversi contesti e in due diverse  esperienze. Che questo sia possibile è tutto da dimostrare.

Il semplice fatto che una donna sia “autodeterminata” a prostituirsi o ad abortire – trascurando, momentaneamente, le ragioni degli eventuali distinguo fra le due situazioni – ci autorizza forse ad affermare oltre ogni ragionevole dubbio che si tratta, in un caso e nell’altro, di una libera scelta? Non dovremmo, prima di indulgere a facilitazioni ideologiche, tener conto di quell’altra “ragione” –  la ragione dell’ inconscio – che guida e destina, senza che se ne abbia consapevolezza alcuna, tanta parte di quelle scelte e di quegli atti della nostra vita che siamo abituati a considerare frutto del caso?

Leda: Trovarsi a decidere aborto si-aborto no, non é una condizione libera ma dettata – vedi Lonzi e MacKinnon – dall’ormai già acquisita inferiorizzazione della donna non nei confronti dell’uomo ma nei confronti della logica maschile che riduce la complessità della realtà ad una legislazione incapace di comprenderla. Una scelta libera é quella che deriva dalla consapevolezza di sé e del proprio desiderio-bisogno di fronte all’esperienza della maternità, una consapevolezza che può essere acquisita solo attraverso un approfondimento di quest’esperienza e della sua contraddittorietà. Non crearsi lo spazio e la possibilità per riflettere su questo e ridurre il tutto a un si o a un no significa non voler essere libere veramente. Accettare di dare una risposta a questa domanda non é già acconsentire alla logica maschile? Ci si illude con un “si” di non rinunciare a se stesse ma la rinuncia di sé non sta forse nell’acconsentire che la libertà di una donna sia confusa con la possibilità di essere il soggetto della violenza perpetuata sul proprio corpo? Perché l’aborto resta un atto violento così lo è come prostituirsi. Dunque forse dovremmo chiederci: perché le donne corrono a volte verso la loro autodistruzione? Cos’é che le spinge a perpetuare la violenza che é stata loro inferta per secoli e a diventarne addirittura le aguzzine? Quale perdita e quale acquisizione nel fare questo?

Rossana: Autodeterminazione, lo avete già ben spiegato, è un termine spinoso, che va maneggiato con attenzione. Come tutte le parole, condensa, oltre che molteplici significati e posture, un contesto storico del passato che, forse, si riattualizza con non poche conseguenze. Vorrei soffermarmi brevemente sulla definizione di autodeterminazione che, innanzitutto, è concepita come un diritto, il quale sancisce il riconoscimento che la donna detiene una capacità di scelta. Il diritto – come ben spiega Cavarero a proposito di inclinazione e rettitudine – sposta la donna da una postura sottomessa ad una eretta di fronte al maschio, che tale diritto possiede a priori. Posso solo immaginare che portata deve aver avuto negli anni ’70 per le donne riconoscersi dotate di una capacità decisionale in sé. E su di sé. In questo senso, credo che la rivendicazione di autodeterminarsi in modo autonomo e indipendente del primo femminismo non abbia avuto origine tanto da un desiderio solipsistico di autoreferenzialità, ma sia nata dentro un humus relazionale che, partendo dalla ragnatela di relazioni determinate da altri – il marito, i figli, la famiglia, la comunità – sulla quale la donna era impigliata dalle aspettative culturali sul suo ruolo di donna,   abbia trovato, passando attraverso un nuovo tipo di relazione con altre donne, nel reciproco riconoscimento e nella presa di coscienza, la spinta per sottrarsi alla logica del dominio-sottomissione patriarcale: eccola allora ribellarsi contro il sequestro del proprio corpo con lo slogan ‘il corpo è mio e lo gestisco io!’, contro la dipendenza con la ricerca della indipendenza soprattutto economica, contro le regole imposte con l’autonomia nelle scelte sessuali, riproduttive e di gestione della propria vita. Il diritto ad autodeterminarsi per la donna si genera e alimenta grazie al consenso di altre donne con le quali si instaurano relazioni di reciproco riconoscimento e risonanza, perciò in un ambito assolutamente relazionale all’interno dei gruppi di autocoscienza. Autodeterminazione è stata, quindi, la parola chiave che ha permesso alle donne di aprire le porte delle loro case e cominciare ad uscire da quella prigione costruita da una cultura sino ad allora mai messa in discussione. Insomma, un mezzo, non un fine. Un mezzo…per andare dove? Si potrebbe ipotizzare che, ora come allora, l’autodeterminazione costituisca un processo di rifiuto e di fuga da un mondo di relazioni infelici, insoddisfacenti, perché subìte e condizionanti, una scialuppa di salvataggio, verso un orizzonte di relazioni finalmente libere e, quindi, felici? Possibile che quell’orizzonte sia tuttora un miraggio e che le donne siano ancora dentro quella scialuppa, magari convinte di essere arrivate? Il dubbio è che con l’acqua sporca si sia buttato anche il bambino, ossia che con l’esigenza di essere autonome e indipendenti si siano rotte le relazioni significative del passato, virando verso i loro surrogati, verso la solitudine o verso il ritorno nostalgico ad esse. Di fatto, sembra essere esattamente il bambino, la sua dipendenza e la sua vulnerabilità, il suo richiamo inevitabile all’accudimento, all’inclinazione e alla reciprocità, l’insopprimibile angoscia che la sua impotenza provoca potentemente in noi, la creatura che pure noi siamo state, ciò che è stato rimosso.  E il ‘bambino’ è proprio ciò che viene escluso dalla relazione, sia nella prostituzione, sia nell’aborto.

Bene, vedo che sono già state anticipate alcune questioni inerenti la domanda alla quale stiamo girando attorno da un po’ e che vorrei farvi: se si ritiene l’autodeterminazione un principio sovrano assoluto da rivendicare e difendere in caso di aborto – “l’utero è mio e lo gestisco io” – in nome di che cosa questo stesso principio non dovrebbe valere ed essere rivendicato nel caso della prostituzione? Insomma, una volta accettato l’antico slogan femminista “il corpo è mio e lo gestisco io”, è possibile indicare qualche fondato motivo per cui questo slogan non dovrebbe essere esteso alla libertà di prostituirsi?

LorellaCondivido questa considerazione sull’incoerenza che si crea nell’affermazione di un principio cosi forte quando si parla di aborto e nella sua sconfessione se si tratta di prostituzione. Entrambe queste situazioni in cui è il corpo della donna ad essere messo in discussione, possono celare una diversità di posizioni e modi di vivere e sentire differenti, che vanno accuratamente letti con gli occhi della donna stessa e non di un’ideologia: perché la donna che vende il suo corpo o lo mostra con ostentazione viene necessariamente vista come accondiscendente una cultura patriarcale che la vede oggetto dello sguardo maschile e non si riesce a credere che ci possa essere una precisa scelta di questa donna e, magari, anche un piacere personale? E perché una donna che sceglie di rispettare il desiderio del suo compagno o dei suoi cari di tenere un figlio che non voleva deve necessariamente essere vista come incapace di autodeterminarsi? Mi pare che senza la considerazione di tutte le sfumature di cui può colorarsi la realtà e di tutte le differenze che “l’universo donna” può manifestare si rischi di stirare la realtà senza comprenderla. Nella vita concreta, come accennavo sopra, il conflitto tra relazione e libertà individuale si palesa ogni giorno in mille modi. Quello che credo sia importante è permettere ad ogni donna di raggiungere un grado di consapevolezza di sé che le permetta di muoversi in questi conflitti scegliendo di volta in volta quello che in quel momento crede sia la cosa migliore. Non credo che, ad oggi, possiamo dire di aver conseguito questo risultato, e se guardiamo alle generazioni di donne giovanissime possiamo renderci conto degli effetti nefasti che questi slogan hanno avuto su di loro, nefasti tanto quanto era a suo tempo l’oppressione femminile: ragazzine che si vendono per una ricarica telefonica, che assumono la pillola del giorno dopo o abortiscono quasi come fosse un metodo anticoncezionale… Eh si, è forse il momento, per il femminismo, di ritrovare la sua strada…

Rossana: Quello che mi viene da pensare è che questa differenza possa essere collegata ad un principio cardine che potrei semplificare nell’equazione autodeterminazione=esclusione del maschio, inteso come portatore di valori patriarcali, che rimane tuttavia il parametro di riferimento, appunto come escluso, per la donna ‘libera’. Questo assunto fa sì, quindi, che per la prostituzione sia difficile concedere il vessillo di una assoluta autodeterminazione, perché la donna, per quanto titolare del proprio corpo e in grado di essere professionalmente indipendente e autonoma, trovandosi implicata nelle regole dello scambio sessuo-economico, rischia l’alienazione alimentando e reggendo le leggi di mercato proprie dell’ordine simbolico patriarcale, di cui sfrutta i frutti. La prostituta è la donna ‘fuori luogo’ che, nelle varie culture, trasgredisce le regole di scambio e proprietà sul corpo delle donne, e che, proprio per questo, trasgredendole, le conferma.  Nell’aborto, invece, questo rischio sembra non esserci: di per sé la donna che ha vissuto una sessualità libera, è libera di liberarsi anche delle sue conseguenze se non le desidera. Per far questo non viene pagata, anzi, di per sé paga un prezzo elevatissimo che resterà inciso sul suo corpo e, per quanto rimosso, nella sua memoria. Qui credo si sottovaluti il richiamo di Paola a Lonzi, ossia al fatto che una gravidanza indesiderata è anche pensabile come l’ennesimo esito di una colonizzazione della quale la donna autodeterminata si trova sola alle prese con una ‘guerra civile’ che si svolge tutta dentro di sé. E se provassimo a cambiare l’assunto di partenza prendendo spunto dalla domanda di Lonzi: ‘Per il piacere di chi (sono rimasta incinta)?’ e lo applicassimo ad entrambe le situazioni, aborto e prostituzione, e rispondessimo ‘il mio!’, forse potremmo intercettare una forma di autodeterminazione diversa, fondata sul proprio piacere, meglio ancora desiderio, parametro questo sì, autenticamente nostro.

Paola: Guarda che rischi pure tu l’attributo di moralista! Ecco, hai toccato il punto cui volevo arrivare senza il quale questa Conversazione nulla avrebbe da aggiungere a tante altre simili sull’argomento. Parole come libertà, servitù  scelta  libera, scelta condizionata e roba simile non ci portano molto lontano se non mettiamo al centro delle nostre riflessioni e di questa Conversazione quella parola che ritorna – consapevolezza – che tu hai nominato e che avrebbe, tutto sommato, un’importanza relativa se non fosse che rimanda a quell’ Altra sfera, la sfera dell’inconscio. Mi sembra che non tenerne conto nell’ambito delle riflessioni che stiamo facendo, riduca di molto la possibilità di considerare le questioni  che ci interessano su un piano diverso e più complesso rispetto a quello che rischia di essere un piano puramente ideologico. Intendo dire, per fare solo un esempio tratto dall’esperienza, che il fatto che una donna dica: voglio o non voglio un figlio, non significa affatto che ciò che crede e dice di volere o non volere sia esattamente ciò che davvero vuole o non vuole, desidera o non desidera.  Ci vuole spesso un lungo lavoro per capire ciò che davvero si desidera. In fondo, quello che sto dicendo non è affatto diverso da quanto afferma Lonzi quando scrive:

(…) l’aborto non è una soluzione per la donna libera, ma per la donna colonizzata dal sistema patriarcale  (Ibid.).

E la donna “colonizzata” dal sistema patriarcale difficilmente è libera non solo di desiderare ma di sapere che cosa effettivamente desidera.

Parto

Secondo voi la sovranità del principio di autodeterminazione – così come viene formulato nella definizione inizialmente riportata – risulta compatibile con la relazione? E, qualora non lo fosse, poiché nella 194 è proprio della difesa di tale principio ciò di cui si tratta, quale sarebbe, in questa legge, il posto assegnato alla relazione ?

Paola: Su questo mi sono già pronunciata in Nemesis 194 e non posso che riportare quanto già sostenuto. Una cosa è dire che l’ultima parola, nella decisione deve spettare alla donna, altra cosa è rivendicare una procedura che nega, omette ed espelle la “relazione” – una parola  generosamente spesa dalle donne in questi anni  – su cui la partita uomo-donna, in definitiva, si giuoca. Se c’è una cosa autoevidente, è che il concepimento presuppone, solitamente, la partecipazione di due corpi e dunque una relazione a due che contrasta con l’idea di proprietà e/o di possesso esclusivo che ha di mira l’esclusione dell’altro da un atto generativo che, tanto o poco, nel bene e nel male lo riguarda. “L’utero è mio e me lo gestisco io”. Vero.  E sono mie tante altre cose: la gestazione, con la sua trasformazione del corpo, le nausee, i dolori del parto, lo svuotamento-sfinimento da allattamento, i sonni perduti, il gravame di una fatica e di una responsabilità tutta mia, solo mia. E sia. Ma comunque vogliamo definire il prodotto di una fecondazione, dobbiamo pur ammettere che quel prodotto – che, diversamente dall’utero, non è proprietà di nessuna/o – è la risultante di un atto a Due di una relazione a due. Che posto ha, che ne è di questa relazione, di cui tanto si parla, all’interno di questa Legge? E che non stia parlando dei casi di stupro credo non valga neppure la pena di sottolinearlo.. E’ una partita la 194, che la donna ha deciso di giocare, una volta tanto, da sola, senza l’altro. E’ la riproposizione simbolica vendicativa di un Gesto subito. La 194 è la memoria di una data: 22 Maggio 1978: è la data  inaugurale di una Nemesi, di una prima grande Vendetta Simbolica perpetrata dalle donne nei riguardi dell’uomo in riparazione dei torti subiti, è il trionfo di una Giustizia “divina” compensatrice. Una Vendetta fagocitata da un risentimento e da un’indignazione vivi, brucianti e inestinguibili per un’antica ferita: millenni di storia di esclusione simbolica subita che trova finalmente tempo e luogo e Voce per rivoltarsi contro quel genere maschio artefice e responsabile della loro esclusione dalla polis. Ben si comprendono, al di là delle motivazioni “di copertura” – la difesa della vita delle donne – le ragioni ancestrali e profonde della reattività scatenata nelle donne da una 194 la cui “sacralità” e intangibilità – è in costante pericolo. Nulla, in effetti, se non lo “Spirito di vendetta” – sarebbe in grado di spiegare degnamente l’esclusione programmata  – “in forza di Legge” – dell’uomo, che pure ha, nella generazione, una parte, ma a cui è concesso dire la sua parola se e solo “ove la donna lo acconsenta”. Neppure Lonzi, si sa, ne era entusiasta. Lei che, come poche altre, sapeva avventurarsi e spingere lo sguardo oltre la superficie, ogni qualvolta si trattava di smascherare – in qualsiasi forma si celasse, persino in quella “sublime” della legalizzazione – la logica assoggettante e perversa del dominio maschile e la subordinazione delle donne a tale dominio.

Abbiamo accennato a consapevolezza e inconsapevolezza, abbiamo mobilitato parole che evocano l’inconscio, una dimensione con cui il femminismo ha imparato a fare i conti fin dagli anni ’70. Lo abbiamo fatto con il desiderio di restituire valore e attenzione all’importanza che alcune parole hanno avuto in passato e che riteniamo debba essere loro riconosciuta almeno all’interno di una Conversazione intenzionata a spingersi oltre moralismi-non moralismi per ristabilire alcune connessioni indispensabili fra il principio di autodeterminazione e la pratica dell’autocoscienza che nell’attuale dibattito su aborto e prostituzione sono del tutto assenti.

Paola: Sì.  E’ proprio così e mi pare appropriato e pertinente parlare di “restituzione”, nel senso che siamo motivate a restituire  peso e valore a parole che sembrano essersi pere per strada. Giova al nostro scopo ricordare, a proposito di inconscio, la frase di Antoniette Foque, psicanalista e femminista francese,  pronunciata in uno dei tanti consessi femministi che si svolgevano in quegli anni:

Mi sembrava che se non avessimo tenuto conto dell’inconscio, saremmo andate verso il delirio.

Ecco io credo che ci stiamo andando, anzi che forse ci siamo già dentro a giudicare da ciò che accade, a volte, all’interno di certe formazioni gruppali in fb. Ma non è mia intenzione soffermarmi su questo, mi sembra più interessante ricordare – visto che questa Conversazione ci ha fatto dolcemente scivolare verso l’inconscio – alcuni passaggi di un bellissimo dialogo Condizione umana contro “natura” fra Cavarero e Butler sulla psicanalisi da cui emerge la loro rispettiva posizione – differente ma non distante – rispetto all’importanza di questa disciplina. Ciò che risulta dall’andamento complessivo del dialogo, è che la visione di Butler, pur essendo estremamente critica nei riguardi della psicanalisi (anche lacaniana),  assegna tuttavia a questa disciplina un rilievo maggiore rispetto a quella accordatale da Cavarero che, con una battuta spiritosa, diceva ad alcuni amici che lei l’inconscio non ce l’ha…E devo dire, con un’altra battuta, che, in effetti, le obiezioni da lei avanzate alle argomentazioni di Butler in difesa della psicanalisi, sembrerebbero darle ragione. Il dialogo fra le due filosofe è, denso, fitto, incalzante e pieno di tornanti e la distanza iniziale fra due eccellenze che combattono lealmente e ad armi pari, va via via sempre più sfumando fino a quasi sparire al termine della lettura. Scrive a un certo punto Cavarero rivolgendosi a Butler:

Mi hai fatto una lezione sulla psicanalisi, e me la sono meritata (…). Vedo (nella psicanalisi) un rischio di “naturalismo”. Ovviamente il discorso cambia se la psicanalisi, rinunciando alle sue pretese cliniche, è assunta come una delle teorie più interessanti del Novecento, ossia come lo sfondo teorico che ci permette, fra le altre cose, non solo di decostruire il soggetto classico, ma anche di ripensare la categoria di relazione. In questo senso io sono più che disposta a seguirti.

Ciò che ciò che qui maggiormente interessa e che ci permette di  riconnetterci, dopo tanto girovagare, alle premesse preliminari a questa Conversazione traendone qualche acquisizione aggiuntiva utile al nostro scopo,  è proprio la necessità di decostruzione del soggetto classico, di quel soggetto “folle” che  incarna per Cavarero “le patologie egocentriche del soggetto moderno”, di quel soggetto

che, dopo secoli spesi a celebrare la sua autonomia e autopoiesi non appena scopre la dipendenza, viene colto dal timore di sparire nell’altro. (Cavarero).

 Ma il fatto è –  ecco il punto che ci interessa – che la decostruzione di questo soggetto narcisistico, autoreferenziale e autocelebrativo, comporta a sua radicale messa in questione e la rinuncia a primati di “autonomia” e “autodeterminazione”, a favore del recupero e della valorizzazione di quella dipendenza legata alla vulnerabilità di ogni essere umano. Su questo alla fine Cavarero e Butler concordano.

E noi, al termine di questa fatica – che Rossana ha definito “immane” ma che l’ha “costretta a pensare cose sulle quali non avrebbe mai riflettuto” – e che lascia aperte tante domande, non dovremmo interrogarci ancora? Non dovremmo domandarci – una volta preso atto dei legami di complicità esistenti fra antiche celebrazioni maschie e parole come “autonomia” e “autodeterminazione” – se il femminismo sia disposto ad abbandonare  la bandiera dell’autodeterminazione al suo maschio destino, scegliendo, magari, una bandiera più confacente a rappresentare le donne, una bandiera meno eretta e più inclinata verso l’altro/a da sé?