La ricerca filosofica “a partire da sé”

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di Leda Bubola / Questo spazio significa per me un nuovo inizio. Per questo ho intitolato i miei due scritti, che prevedevano una terza porzione conclusiva, con il termine greco Arché[1]. Mi riferivo al senso dell’origine che gli antichi identificavano in una forza primigenia sottesa al Tutto e indicata spesso con un elemento naturale impiegato metaforicamente, l’acqua, l’aria, il fuoco o l’infinito, fase già successiva nel processo di astrazione che poi culminerà con il reperimento di un principio divino, se l’infinito non è già un principio divino in sé. Mi sono poi persa nel mio intento o forse, non avendolo ancora ben chiaro, ho divagato citando fonti pur sempre autorevoli – al maschile e al femminile – che potessero in qualche modo autorizzare le mie parole. A posteriori, mi rendo conto di aver completamente fallito l’obiettivo che mi ero, più o meno consapevolmente, proposta, ovvero di inquadrare un senso dell’ arché, dell’origine, secondo una prospettiva diversa da come è stata comunemente intesa, ovvero come qualcosa al di fuori di sé.

Non scarterei la possibilità che questa concezione dell’origine come qualcosa al di fuori di sé fosse la conseguenza diretta di un inquadramento dell’esistenza entro canoni maschili, facile è infatti osservare come l’uomo non sia in possesso della facoltà generatrice della donna, almeno, non negli stessi termini. Ed è proprio la possibilità di una primigenia invidia dell’utero che fa teorizzare a Cavarero, sulla scia delle osservazioni dell’antropologa Page du Bois (Il femminile negato), la causa di un rovesciamento che vede nella presa di potere del simbolo fallico la strutturazione della società patriarcale e con essa la teorizzazione della cultura occidentale fin dalle sue origini.

Dunque, l’impossibilità di reperire l’origine dentro di , – che non equivale assolutamente nel considerarsi generatori/trici soli e indiscussi della vita, ma, che, al contrario, analizza i processi del farsi e disfarsi organico e psichico come movimento indiscusso e originario di qualsiasi creazione vitale o artistica, come movimento al quale sottoporsi con saggezza piuttosto che pretendere di governare dall’alto di una posizione inoccupabile se non nell’immaginazione – potrebbe essere la causa di una ricerca spasmodica della stessa origine al di fuori di sé. A riprova di questa tesi la concezione strettamente legata all’origine intesa come giustificazione della propria esistenza, ma, forse, prima della giustificazione, come senso.

La concezione di un elemento unificatore, inteso metaforicamente o meno, a cosa può servire se non al reperimento di un senso nell’esperienza umana? E quale tesi più banale di quella di concepire la filosofia stessa come la ricerca di trovare un modo di affrontare la vita che sia il meno possibile disperante? Perché la difficoltà più grande quando si è in vita è quella di immaginarsi una vita senza senso, senza la quale sarebbe inutile affrontare la sofferenza. La filosofia greco antica inquadra il senso dell’uomo all’interno di una concezione cosmica dell’universo che gli permette di essere porzione nata di diritto, catena dell’ingranaggio con in sé la natura divina, dimentica della sua materia, di sua madre, se non nel suo aspetto sublimato e normato prima dal nomos della polis che incatena la pulsione a trame socialmente accettabili, poi dalla lex naturale trasformatasi successivamente in ius naturale, in cui si evince anche dall’aspetto terminologico una chiara connessione con una concezione della natura come irrimediabile base di partenza dell’umano. Nella sua fase più recente, e in particolare grazie alla filosofia di Plotino – anche se già in Platone vengono poste le basi di quello sguardo al divino che poi verrà monopolizzato dal cristianesimo – la filosofia greco antica crea lo spazio per quel Dio poi radicatosi con l’avvento del cristianesimo.

Parallelamente al reperimento di un senso all’infuori di sé e al ruolo di tutela e garanzia affidata ad un fautore dai chiari tratti antropomorfi si situa il totale distacco dal corpo, identificato nel mutamento e nel fantasma primo al quale si rifugge, ovvero, la morte, la stessa che Arendt e Cavarero osservano essere al centro dell’ottica filosofica occidentale. Guardare alla vita dal punto di vista della morte significa voltare le spalle alla nascita, all’origine, non quella eterna e universale, quella singolare e necessariamente mortale, fatta della commistione indivisibile di corpo e spirito. Ma questo cosa comporta dal punto di vista di come noi esseri umani, uomini e donne, affrontiamo, e prima ancora, concepiamo la vita?

Forse è inutile dire che siamo condannati a disprezzare il nostro corpo in un’operazione che è difficilmente distinguibile: da un certa prospettiva, assunta culturalmente e direi, purtroppo, inevitabilmente, non possiamo far altro che disprezzare il nostro corpo con modalità e potenzialità strumentali diverse per uomini e donne. Gli uomini concepiranno il sesso come puro svuotamento corporeo, come funzione organica fine a se stessa oppure alla continuazione della specie; le donne useranno il proprio corpo come strumento di seduzione per ottenere piaceri amorosi o lavorativi oppure sceglieranno di occupare lo stereotipo del materno-divino. Inutile dire che il mio intento è ben lontano dall’includere in questa rozza, ma pur sempre funzionale, generalizzazione, l’intera razza umana. Il punto su cui desidero concentrarmi è l’evidente contraddizione che si instaura tra concepire il proprio corpo come uno strumento, un oggetto per la soddisfazione del soggetto maschio o femmina poco importa, e l’evidente ostacolo che lo stesso corpo interpone tra il soggetto o il suo tentativo di fuga da se stesso. La risultante, infatti, non può che essere l’esplicitazione di quella contraddizione irriducibile che si tenta, dalle origini del pensiero occidentale, di risolvere, la contraddizione tra la vita e la morte. La prima vorrebbe vivere in eterno fino a non accettare la sua componente intrinseca, ovvero la morte stessa, che nel cammino della vita di ciascun individuo si incontra prima di tutto attraverso la sofferenza, la malattia e l’invecchiamento per poi culminare in ciò che noi, vivi, possiamo concepire solo come un’idea.

Reperire un senso/l’origine al di fuori di sé significa quindi partire dalla prospettiva della propria insensatezza considerata dal punto di vista di una morte impossibile da fuggire, ma, allo stesso tempo, significa porsi, attraverso un’operazione nascosta a trabocchetto, al di sopra dell’esistenza umana stessa, se non effettivamente, attraverso l’immaginazione, e un’immaginazione, direi, alquanto perversa. L’operazione di fuga dalla morte attraverso l’identificazione di un principio creatore originario e immutabile significa affidare a quell’unica porzione del nostro essere, ritenuta fin dalle origini della filosofia greco antica la porzione più nobile, ovvero l’intelletto razionale, una fiducia a dir poco sconsiderata. Senza sminuire l’evidente importanza di questa facoltà per la nostra vita e il nostro benessere, ciò su cui voglio porre l’accento è la fede incondizionata da sempre attribuita a questa proprietà eterna e connessa al divino che scarta immediatamente la componente femminile e fa della vita nella sua organicità un rifiuto da eliminare. Questo tentativo si rivela a noi nel pieno del suo narcisismo, come il tentativo esasperato di conservare se stessi mentre la non accettazione della morte si traduce nell’incapacità di vivere veramente se non nel continuo rifuggire la vita stessa, nell’ossessione della morte.

Inutile dire che la modernità e la post modernità con il loro stile di vita fortemente tecnologizzato, l’estetica ormai robotica a cui si sottopone l’intera umanità e la settorializzazione della vita organica stessa – si pensa agli studi sul post umano –  accentua una concezione della vita dal punto di vista della morte ma non ne è l’origine. L’origine – come quella del male tradotto nella banalizzazione della normalità da Arendt – è da ricercarsi in una concezione della vita che ha la sua sede alla radice della cultura occidentale, e, come credo, ha a che fare anche con una concezione dell’origine come qualcosa al di fuori di sé.

L’alternativa, quindi, di concepire l’origine come parte di sé, non significa, come già accennato nella parte introduttiva di quest’articolo, nel considerarsi creatori o creatrici della vita, posizione che sarebbe speculare al concepire la vita al di fuori di sé finendo con il porre sé – nel caso della cultura occidentale un sé maschile, ma, secondo la tendenza dei femminismi italiani della seconda metà del XX secolo si parla anche di sé femminili – ad origine della vita stessa, ma nel porsi al centro di un processo di responsabilizzazione che parte dal considerarsi artefici dei propri pensieri e, di conseguenza, delle proprie azioni. Non si tratta di cosa semplice da ottenere, e men che meno di un processo con un inizio e una fine, non si tratta nemmeno di un processo che può aver luogo in solitudine. Il gruppo di donne su cui si fonda questo blog si impegna quotidianamente nel duro lavoro dell’autocoscienza che si propone proprio lo scopo di riappropriarsi di ciò che inconsciamente viene agito per capire se quell’azione è ciò che esprime noi stesse oppure no, questo è anche il lavoro che si svolge attraverso un percorso di analisi.

La proposta avviata da Paola Zaretti in un suo seminario di cui ho citato un brano nel primo articolo intitolato Arché, si basa sull’intento di avviare questo stesso processo ad un livello culturale su cui necessariamente si basano le nostre esperienze individuali e quindi strettamente connesso ad esse, come anche l’intera storia dei femminismi ci insegna. In parte questo lavoro culturale, è già stato iniziato da studiose come Adriana Cavarero, Angela Putino, Carla Lonzi che propongono una decostruzione del sapere maschile volta non al suo annientamento ma, come credo, all’acquisizione di una nuova modalità di rapportarsi ad esso. Entrare nel sapere maschile senza esserne assorbite, ma tenendo sempre presente il proprio centro, il proprio fulcro originario senza il quale sarebbe impossibile prendere posizione, o meglio, trovare la propria all’interno di un rapporto che facilmente scade, proprio in mancanza di questa centratura, in banale assorbimento di idee altrui o in riflessioni che non troveranno mai la luce della loro espressione, come lo dimostra l’assenza di un centro che ha caratterizzato la stesura dei due precedenti articoli da me pubblicati in questo blog e intitolati Arché.

L’entusiasmo che mi ha colta nel momento in cui sono stata coinvolta in questo progetto è la forte necessità di ricavare uno spazio condiviso in cui impegnarsi a non perdere se stesse – obbiettivo irraggiungibile senza la dimensione relazionale – , la propria origine intesa come la consapevolezza della propria forza e capacità di dirigere i propri pensieri non per governarli, come vorrebbe una certa concezione della cura, ma per farli fluire dove il desiderio li porta. Su queste basi, mi propongo di iniziare un lavoro culturale e filosofico di ricerca approfondito sui temi accennati in questi scritti, un lavoro che servirà a me per tessere la tela della mia presenza, una necessità che dovrebbe, a mio parere, essere alla base di qualsiasi lavoro di ricerca filosofica alla luce delle ultime considerazioni dell’ermeneutica dopo le quali non è più eticamente possibile nascondere se stessi dietro a ciò che si scrive.

 Leda Bubola