Una domanda subdola

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di Paola Zaretti / Una domanda subdola

E’ “femminismo quello di chi sostiene che la vittima si è posta sulla strada del carnefice cercato a misura del proprio sintomo”?

Così si legge in un commento postato in un blog. Si tratta di un interrogativo decisamente stonato che sembra aver poco ha a che fare con il resto del commento nel suo complesso e la cui presenza sembra piuttosto rispondere a un intento di tutt’altra natura: fare la solita guerra-conta-schieramento e opporre la Veramente Femminista a chi invece non lo sarebbe, sottintentendo, ovvio, che l’autrice del commento Veramente lo sia… Il criterio indicato per riconoscere a colpo d’occhio la Vera femminista cui assegnare la medaglia al valore, consisterebbe sostanzialmente in questo: la Vera Femminista sarebbe colei che nel fare riferimento alla coppia vittima-carnefice – coppia che suppone l’esistenza di un legame, di una connessione, di una relazione, insomma, fra i due soggetti indicati – si rifiuta al tempo stesso di riconoscere l’esistenza di tale connessione e dunque della relazione vittima-carnefice. E già solo su questo ci sarebbe di che argomentare.

Ma poiché mi riconosco fra quelle donne che si rifiutano di collocare a priori le proprie simili, nel mucchio poco dignitoso della “vittima” sempre vittima e soltanto vittima, rimando chi non vuol capire o non capisce – se per limiti personali, letture distratte o malafede non saprei dire – ancora una volta a questo scritto

 femminismoinstrada.altervista.org/attacco-alle-vittime/

Destinato a chi, banalizzando, semplificando, riducendo e manipolando una questione assai delicata che va affrontata innanzi tutto rispettando e condividendo gli strumenti a suo tempo utilizzati dalle stesse donne (la pratica del partire da sè), si domanda – considerandosi evidentemente l’Incarnazione vivente e assoluta del Femminismo italiano – se sia “femminismo quello di chi sostiene che la vittima si è posta sulla strada del carnefice cercato a misura del proprio sintomo”. Ignorando con ciò volutamente, che “il partire da sè”, l’autocoscienza, proprio per via delle sue relazioni con l’inconscio riconosciute da Lonzi per prima, è stata innanzi tutto una pratica di interrogazione su di sè, sui propri vissuti, sulla relazione con l’altro sesso, sulle ragioni inconsce dei propri comportamenti, ragioni che collocandosi su un piano diverso rispetto da quello della consapevolezza della “ratio”, possono spingere una donna a fare scelte coatte e autodistruttive che vanno, suo malgrado e a sua stessa insaputa, contro se stessa.

Inutile dire che chi, per via di una serie di ragioni legate alla propria storia, si è vissuta e continua a vivere e a percepire se stessa unicamente come “vittima”, proietterà inevitabilmente sulle altre donne questo suo personale vissuto equiparandole a sé e considerandole, al pari di sè, sempre e soltanto come vittime, mentre coloro che hanno scelto di affrontare e di analizzare quella condizione di subalternità con il desiderio e la volontà di liberarsene attraverso un lavoro analitico o autocoscienziale di translaborazione, vedranno la vittima “che in loro fu” con gli occhi di chi, riconosciuta la propria parte non di colpa ma di responsabilità nel “gioco”, decide di non starci più liberandosi dal sintomo che le teneva legate a un partner-carnefice. Perché, ricordiamocelo, non c’è niente che più e meglio del Sintomo faccia Legame.
E non si tratta, si badi bene, di esprimere  giudizi di merito fra chi sceglie una strada o un’altra. Si tratta, infatti, di una scelta cui nessuna è obbligata ma che di fatto – lo si voglia riconoscere o no – modifica radicalmente una visione prospettica oppositiva – qual è quella sopra riportata – che considera in modo inadeguato e superficiale il complesso rapporto che si stabilisce fra una vittima e il suo carnefice.
Esistono relazioni – di cui quella vittima-carnefice fa parte – che non sono frettolosamente liquidabili facendo unicamente ricorso al piano ideologico, sociologico, antropologico o politico, ma che, per essere comprese in tutti i loro aspetti e sfumature, devono essere valutate soprattutto tenendo conto, fra le altre cose, dell’importanza decisiva della sfera psichica e dei processi inconsci che la abitano e che sfuggono, per definizione, al sapere cosciente della “ratio”, delle ideologie, della sociologia, dell’antropologia e della politica per come quest’ultima – a differenza di come la intendeva Antoniette Fouque per la quale il legame tra inconscio e politica era ineludibile – viene intesa.
Tali relazioni devono dunque essere valutate all’interno di quell’ambito cognitivo che il femminismo stesso e per primo – attraverso l’avvio della pratica autocoscienziale – ha sempre ritenuto prioritaria e il cui valore, nell’interrogativo sopra riportato, viene invece completamente cancellato.
Bisogna dunque mettersi d’accordo con se stesse: se si decide di eliminare il valore e la funzione dell’autocoscienza liquidando il suo rapporto con l’inconscio – in quanto comprensibilmente scomodo e soggettivamente impegnativo – lo si dica e lo si faccia evitando però di tirare fuori questa pratica, quando serve, come un coniglio dal cappello ed evitando, magari, di ergersi a Incarnazione di un femminismo dimentico di sé e delle sue origini.
Questo è quanto un minimo di onestà intellettuale richiede.