L’odio lega, l’amore separa

images 3425676543Paola Zaretti/L’odio lega, l’amore separa

Da un Convegno tenuto a Milano organizzato dal Forun Lou Salomè

Imbarazzante. E’ davvero imbarazzante essere qui a parlar d’Amore.

E neppure il titolo – che trionfa su questo ciclo di Antilezioni Anatomia dell’Amore a svelare la temeraria finalità del Forum in materia d’amore – basta a soffocare l’imbarazzo che m’aveva spinta, qualche tempo fa, a declinare l’invito, a desistere dall’impegno di dire qualcosa, qualsiasi cosa, sull’argomento. Su un tema impossibile da sfiorare senza tirare in campo l’universo composito del sapere dell’Occidente nella sua totalità – dalla filosofia, all’arte, alla religione – e decisa come sono a sorvolare millenni di storia relegandola all’oblio, aggirando così quel pericolo che Nietzsche riconobbe nella “malattia storica” e in ciò che generalmente s’intende con il termine cultura.

Per guardare nuda all’Amore nudo. Spoglio di quel carcame sociale che il solo nome basta a evocare. C’è stato chi, come Marsilio Ficino – uno degli intrepidi – ha provato a sondarne il mistero azionando, nientemeno, la leva dell’essenza – ciò per cui qualcosa è ciò che è e nulla di diverso da ciò che è – con il risultato, nient’affatto entusiasmante, che cinque secoli dopo, è ancora quest’essenza a restare velata. Il nome di quest’essenza è forse distanza. La distanza dal sogno è forse la sola dimensione etica ed estetica in cui l’Amore riposa scrutando il tempo per una rigenerazione da tanto clamore assordante. La favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio nelle Metamorfosi è vagamente allusiva al riguardo: Eros, invaghito di Psiche, le fa visita ogni notte ad un patto: lei non dovrà mai vedere il suo volto. Ma alla rottura del patto, il Dio s’invola e Psiche sarà resa immortale e accolta nell’Olimpo come sposa di Eros solo dopo il perdono di Zeus. Fra l’amante (Eros) e l’amata (Psiche) c’è una distanza segnata, nel mito, dallo sguardo. Già, nel mito… Perché in tema d’amore la distanza, la separazione sono, nella realtà, quanto di più insopportabile e di più odioso si possa pensare,  salvo in quel particolarissimo genere di separazione che, storicamente parlando, costituì agli albori del Medioevo, il motivo dominante dell’amor cortese, un fenomeno cui Denis De Rougemont ha dedicato il suo libro L’amore e l’Occidente e che – diciamolo subito – non è affatto omologabile al processo di separazione di cui ci stiamo occupando.

Mi viene in mente, in proposito e per un’analogia rovesciata con il mito di Amore e Psiche, un passo divertente di Violette Leduc, riferito al suo amante e riportato da Simone de Beauvoir: “Tu quando dormi, io ti odio”. Già. Nel mito, come in questo divertente enunciato, ciò che risulta insopportabile per una donna non è il non poter guardare (è il caso di Psiche) e neppure il non poter essere guardata bensì il non poter guardare l’altro mentre l’altro la guardaGuardare nuda all’Amore nudo. Ecco, in formula,  il mio progetto che assume l’ignoranza dotta – spero – l’”incultura” – avrebbe detto Nietzsche – come una forma di sapere altra dal sapere dominante. Quel sapere del padrone che nella scala dei valori mette senza indugio l’amore idolatra, quello che fa Uno, al primo posto. L’amore materno, fraterno paterno, quello per il simile, l’amore per un uomo, per una donna, l’amore per Dio e l’amor patrio.

Ma l’amore è davvero un valore?

E l’odio è un disvalore?

La risposta più ovvia e immediata – un alla prima domanda e un no alla seconda, frutto di un’apparente emancipazione culturale che fa costume (chi oserebbe sostenere oggi, dopo Freud e dopo Lacan, che amore e odio sono due sentimenti opposti?) – è troppo generica e superficiale. Mi viene in mente, per inciso, a proposito di questa complicità fra amore e odio – un sodalizio su cui occorrerebbe andare più a fondo – un’affermazione di Lacan ripresa dal commento di Aristotele a tre versi di Empedocle, secondo cui Dio, proprio Dio, nella misura in cui non conosce l’odio, non ama. Interessante, no? In realtà, nei due interrogativi riportati, vediamo profilarsi una delle questioni filosofiche per eccellenza posta in anteprima in termini radicali antikantiani – e non solo – da Nietzsche: la teoria del senso e del valore, la genealogia dei valori che inaugura la domanda seguente: Chi pone i valori? Chi stabilisce il valore dei valori? La risposta di Nietzsche – l’ Ubermensch – è a tutti nota se non altro per le mistificazioni e distorsioni cui ha dato luogo. Fare filosofia a colpi di martello, ecco, in sintesi, il compito del progetto nietzschiano. E perché non provare noi, a nostra volta, ad usare il martello, in tema d’amore?

L’amore è dunque un valore? Ecco di ritorno la nostra domanda che ci suggerisce di definire la qualità dell’amore di cui stiamo parlando: Eros, Filia e Agape sono infatti tre termini greci che significano amore pur presentando fra loro delle sfumature rilevanti. Diciamo subito allora, in via del tutto approssimativa, che il discrimine che passa tra valore e non valore in riferimento all’amore, è lo stesso discrimine che passa tra  separazione e  legame. Nel titolo di questo nostro incontro, a far legame è l’odio mentre ciò che divide e separa è l’Amore. Fra ciò che lega e ciò che separa la “cultura” che ci abita veicola e predilige senz’altro il primo (di cui il matrimonio incarna il paradigma ideale) piuttosto che il secondo (la cui esemplificazione è rappresentata dal divorzio). Ne conseguirebbe, per deduzione, che la cultura che ci governa – accanita fautrice del legame – è una cultura dell’odio nel cui grembo, grazie ad un potentissimo antidoto riparativo, non si fa che parlar d’amore. E’, né più né meno, ciò che i media passano tutto il loro tempo a fare.

Invero, a contemplare nudi il mondo nudo, la visione, in tema d’amore, è alquanto raccapricciante, in misura tanto più sensibile quando ad essere invocato come prototipo del valore assoluto è l’amore materno in quell’aura sacrificale e annichilente che ne struttura e ne consolida il senso attraverso la creazione della coppia vincente colpa–sacrificio, una perla della cultura occidentale e del Cristianesimo. Così, mentre l’infanticidio fa scandalo, il non sapere, l’ignoranza di una donna-madre sulle proprie pulsioni, sulla normalità e legittimità della propria ambivalenza, – che tanta parte ha nella messa in atto, a volte, di un gesto estremo – passa del tutto inosservata e viene completamente elusa. A far d’attrazione in questi casi, si tratti d’infanticidio o altro, a sedurre ipnoticamente, stupidissimamente, è l’individuazione della colpa e del colpevole in armonia con la logica del “risentimento” e della “cattiva coscienza” eredi del nichilismo. Ammesso che sia lecito parlare di colpa, occorre dire che l’unica colpa di cui si tratta è la propria ignoranza. Si ignora, per esempio, la necessità di riconoscere all’ambivalenza un valore, qual è quello di segnare il limite che deve necessariamente separare una madre dal proprio figlio, una donna da un uomo, per attuare quella distanza che spaccando in due l’amore che vuol fare Uno, evita al tempo stesso che tale distanza  degeneri, per un passaggio all’atto, in quella distanza reale e irriducibile che è la morte.

A questo specialissimo e pericolosissimo genere d’ignoranza Freud dedicò la vita intera, l’ipotesi dell’inconscio non avendo altro senso se non quello di dar conto ad un soggetto di un sapere dal quale, pur abitato, rimane escluso. Contro questo tipo d’ignoranza insidiosa, condivisa e universalmente diffusa fra gli esseri parlanti per effetto del linguaggio, – il linguaggio è la causa dell’inconscio, suggeriva Lacan – non c’è scienza che tenga. Nessun miracolo della scienza calcolante potrebbe mai curarla né, d’altronde, lo vorrebbe. Se ciò accadesse, ne conseguirebbe un tale profondo sovvertimento dei valori esistenti da minare alle radici i pilastri di una civiltà – la nostra – in cui persino il Crimine legittimato dalla guerra rischia la santificazione. Di qui il pericolo insito nel sapere psicanalitico in materia d’amore, di qui la querelle senza respiro sullo statuto epistemologico della psicanalisi, di qui il più incisivo attentato ufficiale e legalizzato a Freud e alla sua invenzione: la legge Ossicini, la più conforme a quell’osso duro, non ancora metabolizzato, che la psicanalisi è sempre stata e continua ad essere nell’ambito dei saperi.

Forse che si sarebbe potuto impunemente sopportare qualcuno – è di Lacan che sto parlando – che esordisse un giorno così: “non c’è rapporto sessuale”? “Il rapporto sessuale è impossibile”? O, ancora, “l’amore è ciò che supplisce all’assenza del rapporto sessuale”? Non è forse bastato un enunciato come il primo indicato a seminare uno sgomento tale che neppure il più sofisticato distinguo fra rapporto atto – a dire, insomma che sì, sì, si può continuare a fottere perchè l’assenza del rapporto non significa assenza dell’atto – riuscirebbe a sedare? Perché, vivaddio, se non c’è rapporto sessuale, se la relazione fra i sessi è votata all’impossibile essendo l’amore desiderio di fare Uno, che cos’è che giustifica un’istituzione come il matrimonio? Che cosa la famiglia? Riemerge qui, puntuale, il dissidio – datato e insoluto – fra un’etica della passione fondata sull’amore come mito e l’etica dell’amore istituzionalizzato.

Ebbene, al centro del nostro pensiero è proprio questa passione, questo anelito dell’amore a fare Uno perché è nel cuore di questo Uno che il germe dell’odio si annida e matura. Resta da sapere perché, perché l’amore che vuole l’Uno sino al punto estremo di regalare alla morte e ad essa soltanto il privilegio di attuare la distanza – “finchè morte non vi separi” – contenga in sè il virus dell’odio. Di quell’odio che tanto spesso garantisce alle unioni il loro carattere di stabilità apparente per una vita intera. Sono due, come si vede, le questioni che si vanno delineando e a cui dovremmo suggerire una risposta articolata e convincente. La prima ricerca la ragione per cui l’amore, nel suo febbrile anelito verso l’Uno, finisce per riconoscere proprio nell’Uno, la radice dell’odio. La seconda, ad essa legata, interroga invece sulla ragione per cui – in forza di un paradossale rovesciamento – a far legame, a fare Uno, finirebbe per essere l’odio al posto dell’amore.

Per sostenere, distintamente, queste due tesi apparentemente estreme, condensate soprattutto nella prima parte del titolo, ho pensato bene di sfruttare, nel senso letterale del termine, il sapere che qualche grande ha messo a nostra disposizione per evidenziare, se non altro, che la tesi avanzata nel titolo di questo nostro incontro, non è poi così estrema né così originale come potrebbe  sembrare. In merito alla prima questione infatti, – l’individuazione della radice dell’odio nell’anelito dell’Eros a fare Uno -Freud s’è mostrato davvero prodigo e puntuale sia per aver situato l’origine dello sviluppo dell’odio in coincidenza con “la comparsa dell’oggetto nello stadio del narcisismo primario” (F. Pulsioni e loro destini, pag. 31) sia per essersi ben guardato dall’escludere che il “senso originario” dell’odio vada ricercato proprio nella relazione fra il soggetto e il mondo esterno, oggetti compresi, sia per essersi chiesto, ancor più radicalmente, “di dove sorga la necessità per la nostra vita psichica di superare le frontiere del narcisismo e di applicare la libido agli oggetti” (Introduzione al narcisismo, pag. 455)

La risposta di Freud in materia d’amore, ha uno spessore tutto economico e nient’affatto poetico trattandosi, nell’investimento libidico rivolto all’oggetto, di un di più, di un’eccedenza, di un avanzo, insomma, di libido che debordando dall’Io, verrebbe riversata sull’oggetto. Lacan, dal canto suo, nel ribadire con forza l’essenza rigorosamente narcisistica dell’amore, finisce per chiedersi, a sua volta, come sia anche solo pensabile l’amore per un altro (cfr. Encore, pag. 47), definendo “ciance” il preteso amore oggettuale e affermando, non meno radicalmente di Freud, che “non è escluso che l’essere in quanto tale provochi l’odio” (Ibid. pag.98). Vale la pena ricordare , per inciso, che proprio questo tipo di amore narcisistico – “egotistico” come lo definisce De Rougemont nel suo libro citando a modello negativo il Tristano – sarebbe responsabile di quell’idea negativa infelice di amore che dal Medio Evo in poi continua a dominare la concezione amorosa dell’Occidente.

Per la psicanalisi invece, a far problema per un soggetto, è l’oggetto; si tratta, propriamente parlando, di una sorta d’incompatibilità originaria, ancestrale e irriducibile. Non solo, ma c’è di più. Non manca, nella descrizione dell’esperienza dell’innamoramento suggerita da Freud e, soprattutto, nella ricostruzione del passaggio destinato a trasformare l’innamoramento in “amore”, uno sfondo prosaico non meno incoraggiante null’altro essendo l’amore, infatti, se non un’invenzione necessaria per mantenere nel tempo la possibilità di far fronte al ridestarsi di un bisogno sessuale.(cfr. Innamoramento e ipnosi, p. 299). Ma ritornando a quella specie di travaso libidico dal soggetto all’oggetto poc’anzi accennata – è questa, senza dubbio, la descrizione più cruda e meno seducente del fenomeno dell’innamoramento – occorre aggiungere che questo passaggio, nient’affatto indolore, è troppo spesso causa di ravage, di rovina. Freud, nel descriverci la relazione d’amore, ci parla – e l’esperienza clinica non smentisce – di un processo di divoramento dell’Io da parte dell’oggetto, di un oggetto che proietterebbe sul soggetto la sua ombra mortale. Ciò non vale solo nel caso della melanconia ma riguarda, strutturalmente, ogni forma d’innamoramento in quanto tale. Non è la melanconia a trasformare l’amore in una patologia ma è l’amore ad essere, nella sua essenza, patologico. Detto altrimenti, in una relazione a due, uno dei due partner sarebbe destinato a soccombere non per una ragione qualsiasi ma in forza di una potente ragione logica e strutturale: ad esigere il sacrificio di uno dei due partner della relazione, è il desiderio dell’amore di fare Uno, desiderio che scontrandosi con le pulsioni di autoconservazione, libera l’odio come forma difensiva primaria al servizio di tali pulsioni. All’idealizzazione dell’oggetto e all’accresciuto valore che gli viene conferito, fa da pendant, fatalmente, la miseria e lo svuotamento e del soggetto.

E’ precisamente questo desiderio impossibile a conferire all’amore quell’aura di follia che, a dispetto di Platone, è tutt’altro che “divina”. La faccenda sarebbe più comica che tragica se non fosse che qualcuno, non di rado, nel disperato tentativo di spezzare il vincolo che lo incatena all’oggetto e al suo potere annientante, decide di farlo con un passaggio all’atto in cui l’amore per l’oggetto, trasformatosi in odio, si rovescia sul soggetto consegnandolo alla propria distruzione. Il suicidio per amore – come impropriamente si dice – è la messa in atto estrema nel reale, di una separazione che risulta impossibile sul piano simbolico.

Ad ostacolare il processo di separazione e a fare da collante è l’odio di cui una relazione spesso avidamente, eroticamente si nutre.Eroticamente? C’è dunque un erotismo dell’odio e nell’odio? Ebbene sì.. Non solo l’odio può acquisire un carattere erotico ma è proprio questa sua componente erotica a garantire tanto spesso la continuità di una relazione amorosa sia pure in chiave leggermente sado-masochista. (cfr. Freud, Pulsioni e loro destini, p.34). Ma non va tuttavia trascurata almeno una seconda importante ragione per cui riconoscere all’odio un effetto rafforzativo e ri-costituente sul legame. La clinica mostra senza esitazione l’esistenza di un nesso decisivo fra l’odio e la colpa ed è proprio nell’articolazione di questo nesso che una risposta persuasiva alla nostra questione può essere cercata. In effetti, a far legame, ad impedire la separazione, non è tanto l’odio ma la colpa che esso genera.  Come separarsi, infatti, da un oggetto odiato senza divenire preda della colpa scaturita dall’odio che si nutre? A mettere dunque in moto un’ esigenza riparativa – che per un moto circolare vizioso finisce per incrementare ulteriormente il legame e con esso l’odio, – è la colpa. Si può dire, insomma, che il rafforzamento del legame è direttamente proporzionale al peso della colpa generata dall’odio e si può aggiungere che nella relazione madre-figlia il movimento qui descritto non gode certo del privilegio esclusivo della rarità. L’amore, per contro, immune dall’idea di colpa – fatto salvo il caso di tradimento che comunque non fa testo se non altro per i condizionamenti morali cui è soggetto – non necessita dell’espediente riparativo indispensabile all’odio in vista del rafforzamento del legame con l’oggetto.

Là dove l’odio ripara l’amore separa.

L’amore, che respira nella distanza è perciò taglio, rottura dell’Uno, è separazione da ogni legame patologico con l’oggetto. E’ separazione che precede – logicamente e cronologicamente – l’unione. Il fatto che si verifichi generalmente il contrario – è l’unione matrimoniale a precedere il divorzio – non significa che ciò sia logico, né naturale, significa semplicemente che, complice un’ignoranza imputabile ad una mancata formazione in materia d’amore, questa è una delle infinite varianti delle aberrazioni costruite sull’amore. L’amore e la stabilità di una relazione di coppia, la possibilità di giungere a quella che Lacan definiva “una relazione temperata e vivibile fra i sessi”, dipende essenzialmente dalla capacità di operare un’inversione temporale in cui la separazione preceda l’unione. Ad essere più precisi, bisogna riuscire a pensare l’amore come un’esperienza che si costituisce e si snoda in tre tempi piuttosto che in due. Non dunque unione e separazione (o se volete matrimonio e divorzio) ma unione e separazione in vista di un’unione nuova fondata su un Eros che partecipi della Bellezza. Inutile dire che, se così fosse, i divorzi non avrebbero ragione d’esistere.

Sì, la Bellezza – dicevo, osando. Perché se ci si assume il rischio di essere testimoni dell’Assurdo – come lo chiamava Kierkegaard – ovvero di quel passaggio tragico, inaggirabile, in cui la potenza della disperazione al suo culmine trapassa, visibile, in un lampo, nell’esperienza del Bello, non si può mancare di dirne. L’esperienza temporale del Bello – associata, per Nietzsche, all’idea di discesa – è forse la più magica, suggestiva e la più vicina all’esperienza del Bello che si fa visibile, talvolta, anche nel corso di un’analisi. Ascoltiamo:

Quando la potenza diventa clemente e scende giù giù nel visi-bile: un tale scendere giù io la chiamo bellezza

E’ nella vertigine di questa discesa che esperienza estetica ed esperienza etica felicemente confluiscono, è in questa discesa che Eros platonico e produzione di sapere si fondono in unità. Non è necessario giungere allo stadio religioso per sapere, con Kierkegaard, che nessuna beatitudine è possibile senza la salvezza del pensiero, per sapere che attaccarsi stabilmente ad un uomo, ad una donna abbandonando il pensiero e la disperata nostalgia che ne deriva, è un atto di inaudita violenza e di abdicazione al proprio valore. Occorre che il debito contratto nei confronti di se stessi venga liquidato sino alla sua totale estinzione. Più facile per l’uomo che per la donna. Molto si potrebbe argomentare in proposito perché fra l’amore di un uomo per una donna e l’amore di una donna per un uomo non c’è simmetria.

Indissolubilmente separati dunque

Ecco, in formula, il solo riconoscimento etico alla doppia verità che non c’è rapporto sessuale e che l’Amore, l’Eros, altro non è se non Memoria, luogo, insomma, di conservazione, di custodia del Ricordo d’amore che, abiurando la nostalgia, trapassa e si afferma come presenza reale. Inutile negare che nel percorso di discesa c’è qualcosa che si perde – non l’oggetto ma il miraggio e l’illusione che lo contendono – ma anche qualcosa che si acquista: la volontà d’illusione al posto dell’illusione. Come spero risulti visibile, la distanza che è all’opera nell’amore, la separazione di cui ho cercato di dar conto – in modo parziale e insufficiente – è altra cosa dalla separazione che costituisce il motivo dominante ma anche il limite dell’amor cortese in principio accennato e fondato sull’estetica dell’amour de loin. Lacan ricorda, in proposito, che questa particolare forma d’amore era “un modo assolutamente raffinato di supplire all’assenza di rapporto sessuale, facendo finta che siamo noi ad ostacolarlo”. (Encore). Si sarebbe trattato dunque di una specie di “gioco” di carattere prevalentemente estetico. Senza affrontare in dettaglio un’analisi comparata fra queste due modalità di separazione, è possibile tuttavia rilevare che tra il tipo di lettura interpretativa di Lacan del fenomeno cortese – peraltro acutissima – e il senso della distanza qui sostenuta, c’è almeno una sensibile differenza: la separazione, nel lirismo trobadorico è una distanza che possiamo definire a priori, situabile al principio del processo amoroso che non prevede né precede alcuna unione perché questa unione, cui manca il carattere di realtà, resta confinata nella sfera dell’impossibilità, dell’infelicità, della morte. Manca nella poetica amorosa dei trovatori la possibilità di un attraversamento dell’esperienza amorosa come impossibilità. Manca, insomma, nell’amor cortese un’esperienza etica dell’amore ed è forse per questa ragione che Denis de Rougemont lo considera un amore “patologico”.

L’esperienza etica dell’amore proposta dalla psicanalisi è dunque l’attraversamento dell’impossibilità a fare Uno e la sfida ad essere indissolubilmente Due, come ricorda il titolo del noto libro di Irigaray del ’94. Ebbene, per concludere questo nostro incontro ho pensato al grande Shakespeare.

Vi leggerò il sonetto n. 36 nella traduzione inedita di un uomo invisibile del quale cui potrei dire, con Irigaray

mai conoscerti, solo l’amore acconsente a una simile notte. Fra quelli che si amano sussiste un velo … E non è questo non-saperti che permette di rimanere due?

E Shakespeare:

Noi due dobbiamo stare divisi, lo confesso

Pur s’uno solo restano gl’indivisi amori.

Così in me rimarranno le colpe a farmi oppresso

Senza il tuo aiuto e solo patendo quegli errori.

Annoda i nostri amori una sola adorazione

Ma un dispettoso tratto nei corpi ci separa

Che, pur non alterando d’amor la pura azione,

ruba ai deliri amanti quell’ora meno avara.

Mai potrò a viso aperto il tuo nome confessare

Ché ti svergognerebbe la colpa su cui piango;

né tu di fronte al mondo potrai sol me onorare

se non rapendo onore al tuo nome ed al tuo rango.

Dunque non farlo: t’amo a tal punto e in questo credo

Che in possederti il nome e l’onore tuo possiedo.

Ed ecco il distico finale del n. 39 dove Shakespeare si rivolge all’assenza dichiarandola senza scopo se

E se non m’insegnassi in due l’uno a separare

Qui amando lui che deve di qui lontano stare.