Un rifiuto imperdonabile

TYP-427688-4321261-artemisia01gdi Leda Bubola / Un rifiuto imperdonabile

A fare questo intervento mi hanno sollecitato non solo i recenti accadimenti politici ma anche le osservazioni da me condivise e portate avanti nel blog e su FB da Paola Zaretti e Donatella Proietti. Testimonianza del fatto che Tabula Rasa non funziona attraverso un consenso ottenuto tramite l’omologazione, né di donne né di idee, sento la necessità di esprimere il mio punto di vista, facendolo “danzare” insieme a quello delle mie amiche e compagne di viaggio.

È ai loro interventi, infatti, che devo il mio desiderio di prendere posizione rispetto a tutto ciò che sta succedendo. Non sarei altrimenti intervenuta, forse sbagliando. Andrò quindi a fondo riguardo alle motivazioni per cui non solo non sarei intervenuta ma avrei anche sbagliato non facendolo.

La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho cominciato a percepire tramite i notiziari e i social network le espressioni di protesta in seguito alla bocciatura dell’emendamento sulle quote rosa – che prevedeva l’alternanza di genere per i capilista nella proporzione 60-40 per cento – è stata una sensazione contrastante: da una parte mi sentivo sollevata dal vedere approvata una legge che umilia le donne in quanto donne, dall’altra avvertivo proprio quella stessa umiliazione che sembrava fosse stata scongiurata dall’esito del “verdetto”.

Sulle quote rosa la mia opinione rimane invariata da ormai alcuni anni. Non si può chiedere ad altri/e ciò che non si ha, pena, il riconfermare proprio la condizione che si vuole scongiurare. Chi altro se non le minoranze – dove con questo termine si intendono le minoranze emarginate e non le minoranze elitarie – si batte per modificare un ordinamento che le considera tali? E la storia non ci ha forse mostrato che, anche se le minoranze vincessero la loro lotta al potere, non farebbero altro che riconfermare la stessa logica d’esclusione che le aveva a loro volta escluse? Ritorniamo alla tanto riconfermata logica del servo-padrone, una logica che non si può scongiurare dall’interno dello stesso meccanismo. Una prova evidente sono tutte le lotte di classe svoltesi nel corso della nostra storia millenaria e lette in chiave nietzscheana. Questo grande filosofo ci aiuta, infatti, a smascherare la vera natura della morale nascosta dietro ai grandi ideali di cambiamento, una natura – aggiungo io –  maschile nell’atto di porsi come fondatrice di valori assoluti che per tale loro carattere imprescindibile riducono a sé una realtà molto più complessa e vitale.

Cosa dicono le quote rosa di per sé se non l’effettiva inferiorità delle donne rispetto agli uomini? Una donna che non si considera inferiore può sentirsi rappresentata da un emendamento che la pone come inferiore, per definizione, nei confronti dell’uomo? E perché mai una donna dovrebbe andare a chiedere ad un uomo la possibilità di partecipare alla sua politica, dove il sua sta proprio nel fatto che gli si deve chiedere il permesso?

Mi sono anche detta che si trattava della solita vecchia questione discussa e identificata dalle varie correnti femministe tramite opposizioni terminologiche che indicano sempre la stessa coppia di alternative: “rappresentanza si o rappresentanza no”, “partecipazione o estraneità”, “dentro o fuori”.. e avendo già fatto la mia scelta, che non si situa in nessuno dei due versanti, ma nel superamento di essi successiva ad una presa di coscienza ben chiara – ovvero dell’impossibilità di stare dentro al simbolico in quanto soggetto donna http://femminismoinstrada.altervista.org/1151-2/–, mi dissi che sarebbe stato inutile indignarsi di fronte ad una situazione in cui le donne si sono rese artefici del loro stesso destino, perché e per cosa poi? Per convincere qualcuna di loro che è un suicidio entrare nella politica degli uomini con l’illusione di poter cambiare qualcosa dall’interno? Che è come gettarsi la zappa sui piedi, per poi finire ad umiliarsi al punto da non riconoscere neppure più l’umiliazione a cui si è sottoposte? No, basta.. è stato un rifiuto immediato e, devo dire, in un certo senso, il segnale di una salute ritrovata.

Ma c’era altro in questo rifiuto e grazie all’invito alla discussione espresso dai numerosi interventi di Tabula Rasa ho pian piano avuto modo di chiarirmi le idee ed ora, di condividerle con altre e altri liberamente. Oltre alla consapevolezza che l’aver firmato il contratto con l’uomo politico, l’aver accettato le sue clausole, non potesse portare ad altro che al mettersi nella posizione di essere usate ed umiliate, c’era qualcosa di un antico ed intimo ricordo che ho collegato istintivamente alla posizione delle donne in Parlamento, sia a quelle che dichiarano di “essere donne con le palle” e di “non aver bisogno delle quote rosa”, sia a quelle che si lamentano del fatto che l’emendamento non sia stato approvato.. insomma, sia a quelle che sfidano il padre, sia a quelle che elemosinano la sua attenzione.

Il riferimento al padre ha immediatamente innescato quell’intimo ricordo di cui vorrei rendervi partecipi, non per il semplice gusto dell’autonarrazione, ma perché mi fornisce l’occasione di  mostrare, ancora una volta, quanto la nostra politica sia fatta di autocoscienza, intesa come modalità di riflessione che va dal particolare (privato) all’universale (pubblico).

Il rapporto con il padre è quindi la chiave che mi ha dato gli elementi per comprendere lo stretto collegamento tra la situazione delle donne in parlamento e la loro ostinata battaglia per le quote rosa. Un padre che, pur amando la propria figlia, non mette in discussione i valori supposti universali – e bisogna aggiungere, inevitabilmente patriarcali –  sui quali basa la propria vita e, di conseguenza, i propri rapporti interpersonali, non lascia che due alternative alla figlia che con lui cerca di rapportarsi: il ribellarsi, l’andare contro – che come sappiamo non è mai un superamento – e l’accondiscendere, che implica necessariamente il tentativo, conseguente all’accettazione delle sue condizioni, di trovare un modo per sopravvivere. Ne consegue che questo tentativo di sopravvivenza consiste nel continuare a chiedere ciò che in partenza viene negato, ovvero quell’importanza – nel caso del rapporto tra padre e figlia amore – che sola può garantire l’esistenza dell’altro polo soggettivo del rapporto, ovvero la figlia.

In realtà, si tratta di una falsa alternativa perché la scelta tra queste due opzioni è una scelta dettata dall’uomo-padre-politico, a cui si rivolge la donna per chiedergli la propria esistenza simbolica, il riconoscimento tanto agognato. Ci ritroviamo in questo frangente a incrociare un tema caro al femminismo, ovvero l’importanza dell’autorizzarsi da sé, un tema che, per quanto sia stato oggetto di molte riflessioni fondamentali e di altrettanti scritti, sembra essere più che mai attuale. Che posizione è quella di una donna che chiede l’avvallo della propria esistenza simbolica all’uomo politico? La forza politica che una donna suppone di ottenere entrando in  politica è veramente una forza? Cambiare una legge certo fa la differenza, ma, anche se esiste una legge, essa può non venire affatto rispettata. Dunque perché le donne non pensano ad incidere politicamente nel reale facendo uso di un potere che hanno già?

A questo proposito c’è però da fare una piccola precisazione già trattata nell’ultimo intervento di Paola Zaretti (Ossessioni speculari, “paritarismo” e “differenza” maschere del potere, http://femminismoinstrada.altervista.org/ossessioni-speculari-paritarismo-e-differenza-maschere-del-potere/). Stare “fuori” dalla politica dei partiti non significa esserne realmente fuori se ciò implica una presa di posizione strutturalmente verticale, per dirla con Cavarero, propria di quella donna che avendo sfidato il padre ha poi vinto su di lui. Qual è, infatti, l’interesse della figlia se non quello di essere amata e amare il padre, può esso diventare desiderio di prevalere sul padre? La mimesis del maschile sembra essere la medesima faccia del mito dell’uomo (Lonzi) nella sua più profonda interiorizzazione.

Ma come acconsentire ad un rapporto le cui condizioni non possono essere accettate, non è forse questa una relazione impossibile in partenza? Forse sì, sta di fatto che è certamente impossibile modificare realmente lo status quo di un simbolico che non rappresenta la differenza e non potrà mai rappresentarla. E poi forse, non è proprio nell’essere accettate, in altre parole, incluse, che risiede la “sconfitta” intesa come perdita di sé? Putino con l’immagine della lacerazione, Lonzi con quella della spoliazione da tutte le maschere sociali, del vuoto, Irigaray tramite l’espressione conversione al femminile, Woolf con la descrizione della condizione tragica femminile – rintracciabile anche nelle autrici già citate – indicano una strada alternativa alla rimozione del rifiuto imperdonabile di un padre, di una politica, che non contempla l’ “altra da sé”. Questa alternativa risiede nel farsi carico di una condizione di per sé irrisolvibile e, a partire da essa, scorgere possibilità di movimento altrimenti invisibili ai nostri occhi.

Ed ecco perché avrei sbagliato nel non portare in questa discussione il mio intervento, avrei rinunciato, infatti, a muovermi in quello spazio di esistenza sotterranea a cui aspiriamo a dar voce tramite l’Autocoscienza e da cui solo può partire un reale cambiamento politico. L’indugiare ad esprimere la propria opinione, o quando non se ne ha una – tanto meglio – i propri pensieri, è uno dei grandi ostacoli di questo cammino, un ostacolo che ci viene dall’interno, dalla nostra innata tendenza a non considerarci mai abbastanza. E abbastanza non saremo mai finché non avremo smaltito il dolore di un rifiuto imperdonabile.