“Perché non mi dà quello che mi spetta?” “Come ha potuto passarmi sopra?” Cambiare musica…

 

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di Paola Zaretti / “Perché non mi dà quello che mi spetta?” “Come ha potuto passarmi sopra?” Cambiare musica…

Tre mesi fa, in occasione dell’apertura del blog Tabula rasa Il femminismo ritrova la strada, abbiamo ritenuto importante comunicare, a lettrici e lettori, la nostra “visione” del blog e la sua/nostra scommessa teorica e politica: fare Tabula rasa di un Primato – il primato del “fallo”. http://femminismoinstrada.altervista.org/1151-2/

Lo abbiamo fatto riferendoci, per l’occasione, a due brani significativi che ben definiscono, in sintesi, il Nodo teorico centrale – i cui effetti si riflettono pesantemente su una pratica destinata a vanificare la propria incidenza politica – attorno al quale ruota e si articola il nostro progetto.

A meno che entrambe i sessi non si uniscano nel tentativo di realizzare una sessualità non fallica, di riscrivere il copione della sessualità prendendo le distanze dalla violenza del Fallo, nulla cambierà. (R. Braidotti, In Metamorfosi)

La donna deve percorrere un itinerario doloroso e complesso. Una vera e propria conversione al genere femminile (…). Le difficoltà che le donne incontrano per entrare nel mondo culturale maschile hanno come conseguenza che quasi tutte, comprese quelle che si dicono femministe, rinunciano alla loro soggettività femminile e ai rapporti con le altre donne, e ciò le conduce verso un vicolo cieco, individuale e collettivo, dal punto di vista della comunicazione. (L. Irigaray, Sessi e genealogie)

Dalla “violenza” del fallo denunziata da Braidotti, le relazioni fra donne non sono affatto immuni, neppure quelle cresciute “sotto l’ombrello” del femminismo degli anni ‘70 in cui, nonostante la guerra dichiarata al fallocentrismo, la contesa per il possesso del fallo ha impedito, in gran parte, sia lo sviluppo di quella “soggettività femminile” nella direzione auspicata da Irigaray, sia la nascita e la crescita di sane e autentiche relazioni con altre donne. Il vicolo cieco “individuale” e “collettivo” da lei previsto con grande anticipo sui tempi, pare oggi un fatto compiuto.

La lotta delle donne per il possesso del fallo – per togliere all’altra ciò che l’altra non ha ma di cui la si suppone immaginariamente essere dotata – non va senza il comfort di un ricco e variegato corredo di furti, di piccole ruberie, di appropriazioni illegittime, di eliminazioni, cancellazioni e misconoscimenti che trovano in queste parole di Lonzi, che ne aveva fatto tristemente esperienza, una sintesi esemplare:

“Perché non mi dà quello che mi spetta?” “ Come ha potuto passarmi sopra?”

Inutile rilevare che l’espressione “passarmi sopra”, la dice lunga sulle ragioni della nascita del blog, sulle ricadute negative del fantasma fallico all’interno del femminismo e sulla sua scommessa di sancirne l’”ultimato”. Che Carla Lonzi non fosse una donna avida di potere, che fosse assolutamente  libera e disabitata dal desiderio di un tale primato, è poco ma sicuro. Bastano, a darne conto, l’insieme delle  sue opere  e le parole qui riportate:

Vent’anni fa ero una studentessa dell’università / quindici anni fa ero una dottoressa in storia dell’arte/

dieci anni fa ero scrittrice d’arte e amica di artisti / due anni fa ero femminista […] Adesso / non sono

niente, niente assolutamente

 

Mi spoglio

Di tutto ciò

Di cui mi ero

Vestita

 

Che bello essere

Quello che si è

Anche se si è

Poco pochissimo

Niente

Il rifiuto del potere e una sana presa di distanza dalla sua seduzione-maledizione, non comporta tuttavia, per una donna, e dunque neppure per Lonzi, la rinuncia al bisogno di riconoscimento per ciò che lei è, pensa e fa:

 Voglio essere

 nella Storia

 e voglio essere

 assente dalla Storia.

 Voglio essere riconosciuta

 e voglio l’onore

 di non esserlo

 Ho paura della notorietà  come sono mortificata dall’anonimato

Un bisogno per lei così lacerante e irriducibile, da renderla capace, all’occorrenza, di una replica di implacabile durezza di fronte a un tentativo di misconoscimento messo in atto, da altre, nei suoi riguardi. E  bisogna dire che quando si tratta di restituire a se stessa ciò che le spetta, ciò che è frutto e parto e fatica del proprio pensiero – di cui altre si sarebbero appropriate – Lonzi lo fa, giustamente, come vedremo, senza sconti e nel modo più crudo.

Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente – scriveva.

Realizzare il presente non aveva nulla a che fare, per Lonzi, né con un progetto egualitario né con un progetto rivoluzionario inteso come ribaltamento del dominio dei sessi. Chi mostra  di aver compreso in profondità il suo pensiero, ci ricorda che se c’è una donna in cui la radice del femminismo italiano va ricercata, questa donna è proprio lei portatrice di:

Una radicalità attiva e da riattivare nella lettura del presente. Una qualità che è propria solo di quelle poche e di quei pochi che sanno pensare così in profondità la contingenza in cui sono, da estrarre un senso che le sopravviva e dia i suoi frutti migliori nei tempi lunghi. (Dominijanni)

Ecco, noi crediamo e confidiamo, a nostra volta, nei tempi lunghi e a chi, perennemente preda di un ossessivo e incontenibile bisogno di “fare” – e nella dimenticanza che anche le parole, quando non sono vuote, sono azioni (Arendt) – non possiamo che rispondere che il presente è, anche per noi, la nostra meta.

Eppure di questa “radicalità attiva” di Lonzi che andrebbe oggi riattivata e vivificata, si stentano a trovare tracce  di una qualche consistenza, fatte di una stoffa diversa dalle solite generiche allusioni al “partire da sé”, incapaci, ormai, di riattivare alcunché. La cosa non desta meraviglia se si pensa che, nonostante i continui riferimenti a Lonzi e alla pratica dell’autocoscienza da lei introdotta  – e  di cui il femminismo ha cercato in tutta fretta e sia pure in modi diversi di sbarazzarsi – non si può certo dire che Lonzi sia stata amata dalle femministe italiane.

Nei due brani di Braidotti e di Irigaray proposti all’inizio, viene saggiamente ricordato il nesso fra fallo e violenza, un nesso la cui azione negativa e distruttiva si è sempre esercitata e continua ad esercitarsi anche, e direi soprattutto, nelle relazioni fra donne nella misura in cui la questione fallica, in un certo modo  –  un modo diverso da quello dell’uomo – comunque  le riguarda.  Ed è proprio perché le ri-guarda che le donne, pur non essendo manchevoli di nulla, si comportano come se davvero lo fossero, come se si  i credessero mancanti,  come se non avessero, insomma, piena consapevolezza di non esserlo. Se davvero si liberassero, una volta per tutte, dal fantasma della loro supposta mancanza indotta da un simbolico maschio (il solo davvero mancante di un simbolo femminile equi-valente al fallo in grado di rappresentare la donna), le relazioni fra donne potrebbero subire una reale e benefica metamorfosi.

Se a nessuna venisse in mente di immaginare-fantasmatizzare che l’altra ha ciò che a lei manca, ruberie appropriazioni, cancellazioni e misconoscimenti e frammentazioni che sono all’ordine del giorno e che rendono ogni appello esaltante la ”relazione” fra donne, falso e inconsistente, non avrebbero alcuna ragione di esistere. Chi ruba, si appropria, cancella, elimina e misconosce l’altra, lo fa proprio perché ignora che cosa significhi stare in relazione con qualcuna/o. Non sono dunque pochi, come si vede, gli effetti deleteri dovuti al fantasma di un primato fallico, non solo sulla relazione uomo-donna ma anche sulla relazione fra donne. Ciò risulta estremamente chiaro e percepibile da un passo di Lonzi – un passo decisamente “scomodo” che ho deciso di citare, per delicatezza, solo parzialmente e con gli accorgimenti del caso –  che ci dà la misura di come nulla sia cambiato nelle relazioni tra donne rispetto alla miserevole condizione da lei vissuta in prima persona e dolorosamente espressa attraverso le due domande del titolo che ho estratto dal testo e che servono ora a introdurre il brano che segue

“Perché non mi dà quello che mi spetta?” “ Come ha potuto passarmi sopra?”

“Scrivere è un atto pubblico.

Si scrive per esprimersi e per dare risonanza, perchè un’altra possa esprimersi e dare risonanza. Ogni altro modo di scrivere è una manifestazione di inserimento culturale. Se non ci si riconosce l’una con l’altra chi è riconosciuto è l’uomo: viene così avvalorata la sua cultura (…).

Quando a X si presenta l’occasione di dare riscontro a chi le ha offerto qualcosa di non anonimo da quel gruppo allargato che è il femminismo, tace, anzi nega. Perchè non ne approfitta invece per diminuire l’imbarazzo e la sofferenza che dice di provare a farsi protagonista tra chi non lo è? L’occasione a cui mi riferisco è la distinzione tra una sessualità femminile e una sessualità imposta dall’uomo su cui la X basa sostanzialmente le sue argomentazioni. Questa distinzione risale esattamente a “Sessualità femminile e aborto” e “La donna clitoridea e la donna vaginale”, cioè al ’71, anno in cui X dichiara di essersi avvicinata al femminismo (…). Al contrario già allora a me personalmente era accaduto di scrivere e di pubblicare un libretto sul sesso, frutto di una presa di coscienza che avevo fatto nel gruppo di Rivolta proprio a Milano, e che comunque non derivava dall’analisi del profondo. Perchè X non mi dà quello che mi spetta? Tra i motivi della sua perplessità a pubblicare la raccolta dei suoi scritti leggo: “ambizione malcelata di dire cose assolutamente originali”. Ma io avevo detto qualcosa di originale, e questo X non può accettarlo poiché lei considera un successo proprio l’averci rinunciato. Al posto del bisogno rimane l’invidia e quindi l’annullamento dell’altra che non può, non deve esistere. X non specifica cos’è questa sessualità femminile (…). Comunque può non avere a che fare con il capovolgimento tra vagina e clitoride, la vagina è il luogo della colonizzazione maschile e della procreazione. X non ha idea cos’è affermare per la prima volta qualcosa del genere. Non ne ha idea perchè non ne ha fatto esperienza. Non chiama in causa una donna che è una: il suo dibattito si svolge tutto, pro e contro, con nome e cognome, in un ambito maschile. Prende in considerazione le obiezioni alla pratica dell’inconscio che possono venirle dal mondo politico, dai marxisti; non una parola sulle obiezioni che le vengono dal femminismo, da chi si è messa sulla strada dell’autocoscienza. Ma che razza di politica femminile è questa? E potrei continuare: X non fa riferimento neppure a “Sputiamo su Hegel” (io parlo per me), sia nei punti dove concorda nel significato più generale di testo femminista che ha aperto una breccia nei ricatti marxisti verso le donne e nell’impostazione patriarcale della politica e della rivoluzione. Come ha potuto passarmi sopra? (…). Ho avvertito sempre una tale necessità di rispondenza per calmare il lavorio ininterrotto con cui cercavo di mantenere fiducia nella mia espressione, che le impossibilità di un’altra mi colpivano prima di tutto come una privazione inferta a me stessa. Come un qualcosa (rispondenza) che mi veniva tolto e non come un qualcosa (coscienza di sé) che l’altra non era in grado di dare. Ma non potendo non mettere in relazione la non coscienza di sé con una dipendenza dall’uomo (cultura), finivo per sentire giustificata la mia aggressività, anche se in un secondo tempo provavo senso di colpa per avere reagito così a delle impossibilità altrui. E’ stato da questo tormento che poco a poco mi sono resa conto che non esiste una coscienza di sé senza un’altra coscienza di sé, e che questo si verifica nella rispondenza. Il senso di colpa racchiudeva la scoperta, avvenuta in seguito, che la mia via di uscita e quella dell’altra sono intrecciate. Il femminismo, cioè il gruppo, ha avuto per me questo contenuto. Finora ho trovato conferme, indirette, in chi, per esempio la Solanas, si è espressa accettando l’urgenza e il rischio di una condizione solitaria, piuttosto che in chi ha potuto contare sulla pratica con altre donne in pieno femminismo come X, dalla quale mi divide proprio l’avere in comune alcuni presupposti con un significato tanto diverso (…). Perchè avvicinare gli uomini come se fossero dei bambini a cui le proprie verità bisogna porgerle adottando il linguaggio dei loro libri di lettura?  Perchè questa serietà, questo accoramento? Per farli capire, cioè per non perdere l’aggancio culturale. Allora qual è la pratica che fa deperire la Politica (e le maiuscole in genere)? Quella di “porre domande che disturbano il potere-sapere costituito”, oppure di fare tutti i gesti di espressione di sé e di riconoscimento dell’altra che aprono le porte del limbo in cui le donne cercano, senza trovarla, un’incarnazione reale? Il blocco va forzato una per una: questo è il passaggio necessario per la nascita della propria individualità, il presupposto di qualsiasi cambiamento (). Per X, stare male fra donne è frutto di resistenze dovute alla scelta dell’autonomia dall’uomo. Si può immaginare niente di più preordinato? Secondo la mia esperienza, si sta male fra donne quando questa scelta di autonomia è ambigua, quando l’uomo è presente, ma nascosto da una connivenza ideologica. Si comincia a stare bene fra donne quando il problema è ammesso, segno che il bisogno di autonomia non si presenta più come un dover essere, un dover dimostrare, ma come ricerca di sé e della coscienza di sé. Al contrario l’impostazione di X cancella ogni traccia personale del problema e rivela che la sua attenzione è volta non tanto a ciò che essa vive, quanto alla proposta culturale che ne può scaturire. E il destinatario di una proposta culturale, qualunque essa sia, è l’uomo”.

Sono parole durissime che rivelano un giudizio inclemente. Lonzi ritiene di essere stata espropriata del suo pensiero da X e non manca di fornirne le prove. La cosa non rivestirebbe per noi interesse se non fosse che l’esperienza da lei vissuta la vediamo continuamente ritornare, con qualche variazione su tema, nelle relazioni fra donne. A dire – a dirci – che se neppure della sintomaticità di gesti come quelli descritti si è ancora raggiunta la consapevolezza necessaria ad evitarli in nome del rispetto e del reciproco riconoscimento che ciascuna deve all’altra, smettere di nominare l’autocoscienza sarebbe la sola cosa onesta da fare.

“Partire da sé” vuol dire oggi analizzare questa sintomaticità, vuol dire interrogarla invece che negarla o rimuoverla, vuol dire lavorare su di sé per sciogliere il nodo che la attanaglia e la rende insolubile. La “risoluzione del mito dell’uomo” di cui parlava Lonzi non va senza la risoluzione di questa sintomaticità.