Si può aspirare alla propria “fine”?

BRUNO

di Paola Zaretti: Si può aspirare alla propria “fine”?

Il rapporto carnefice-vittima non è che un “modo”, una declinazione Singolare di quella “sostanza” che costituisce e definisce, Generalmente parlando, il rapporto del patriarcato con le donne. La relazione del patriarcato nei riguardi delle donne è infatti – su scala universale e con una variante di cui daremo conto – strutturalmente conforme alla relazione che il carnefice ha nei riguardi della sua vittima.

Ne consegue che le donne, prima che vittime di questo o quel singolo carnefice che hanno l’avventura d’incontrare sulla loro strada, sono vittime di quel “carnefice” generale, simbolico che il sistema di pensiero androcentrico rappresenta e incarna per loro. Con una differenza: mentre nella relazione carnefice-vittima – e nelle ormai quotidiane carneficine di donne – si tratta di morte fisica e reale, nella relazione del patriarcato con la donna, tale morte viene simbolicamente inferta attraverso la sua esclusione, in quanto donna, dall’ordine simbolico e attraverso la sua sussunzione nel neutro-maschile. E poiché tra carnefice e vittima esiste, nonostante lo si neghi, un legame di inconsapevole complicità, possiamo affermare che la stessa complicità è inconsapevolmente all’opera anche nella relazione delle donne con il patriarcato.

“Il mito dell’uomo”, è la formula in cui Lonzi individua e nomina tale relazione di complicità, è la formula con cui descrive un mito “culturale” che, in attesa di essere “smaltito” anche da parte delle donne, rende velleitaria, impensabile e destinata allo scacco, qualsiasi ipotesi rivoluzionaria e trasformativa. Ascoltiamo:

Il mito dell’uomo è di tutte, sia come partner che come cultura, e non c’è proposizione rivoluzionaria o atteggiamento di riserbo che tenga: il mito è lì, camuffato, nascosto, ibernato, ma pronto a uscire fuori alla prima occasione. Il femminismo non deve istituzionalizzare la tipica inibizione delle donne che solidarizzano tra loro negando reciprocamente il mito dell’uomo. Il femminismo non è altro che desiderio di un processo di liberazione attraverso il quale smaltire questo mito, NON NE E’ la RISOLUZIONE. Quella rappresenterebbe la fine del problema, quindi LA FINE DEL FEMMINISMO. (Maiuscolo mio)

(…) Ma allora questo femminismo cos’è? Ricerca dell’uomo, del rapporto con l’uomo dopo aver trovato se stesse. L’amica serve a trovare se stesse ma l’obiettivo è l’uomo (…). Non si scappa di lì (…).

Se non fosse che di morte, sempre di morte della donna – reale o simbolica – comunque si tratta sia nella relazione carnefice-vittima che nella relazione del patriarcato con le donne, potremmo anche disinteressarcene. Ma se è vero, com’è vero, e come Lonzi pensava, che la “risoluzione” del mito dell’uomo comporterebbe la “fine del femminismo” – e ciò non può che rappresentare, per il femminismo, una minaccia – è ragionevole pensare che il femminismo, a meno di non essere affetto da una pulsione suicidaria, non abbia alcun interesse a risolvere quel mito dipendendo, la sua stessa esistenza, dalla durata-conservazione di quel mito. Ciò significa che la relazione controversa e conflittuale del femminismo con il patriarcato sul piano simbolico, e la tragica relazione vittima-carnefice sul piano del reale, sono destinati alla  sopravvivenza e che il rivoluzionario tentativo di smantellamento del sistema di pensiero androcentrico è, nonostante gli sforzi messi in atto,  destinato a fallire.

Nessuno/a, infatti, neppure il femminismo, può aspirare alla propria fine anche se ciò comporta il mantenimento in vita del “mito dell’uomo”