UCCIDERE NON E’ “NORMALE”. CHI UCCIDE NON E’ “NORMALE”

di Paola Zaretti/UCCIDERE NON E’ “NORMALE”. CHI UCCIDE NON E’ “NORMALE

Demone

Ma poichè si teme che affermarlo e riconoscerlo comporterebbe una riduzione di pena per gli assassini, per evitare che ciò accada, c’è un solo modo: NEGARLO, e che sia vero o no, non conta, non DEVE contare.
Si costruisce e si rafforza così, giorno dopo giorno, attraverso la ripetizione, una negazione a priori, del tutto disinteressata e impermeabile alla conoscenza e all’approfondimento della verità – quale che, beninteso, essa sia.
Si tratta, dunque, per il modo in cui viene proposta, di una negazione funzionale e strumentale alla realizzazione di un preciso intento – l’aggravio, senza sconti, della pena assegnata – che non può essere assunto quale corretto metro di misura di verità e giustizia.
Forse che un evento, un accadimento, può essere definito “normale” per il solo fatto di non essere più eccezionale? Il fatto che un evento – l’assassinio di una donna – non costituisca un caso eccezionale ma si verifichi, di norma, quasi quotidianamente, ci autorizza forse a considerare normale tale evento e la persona che lo agisce?
Qual è la ragione che motiva la diffusione di diagnosi improbabili – e quanto meno discutibili – circa la normalità-sanità di chi uccide, divulgate da esperte/i spesso improvvisate/i? E può un verdetto diagnostico di “normalità-sanità”, essere sostenuto unicamente in funzione del fatto che il riconoscimento della patologia di certi comportamenti maschili ridurrebbe la pena per coloro che li compiono?
Se continuo a interrogarmi su questo punto non è certo per favorire gli artefici di tanti misfatti che, per quanto mi riguarda, potrebbero passare il resto della loro vita in galera ma perché posizioni fondate su presupposti logicamente insostenibili, non vanno sostenute essendo di grave danno all’intellegibilità della stessa “causa” in nome della quale vengono diffuse.
Vale la pena ricordare, ancora una volta, che un filo sottile separa normalità e patologia e che, pur trattandosi sempre e soltanto di una misura quantitativa e non qualitativa, di tale misura bisogna avere cognizione.
Vogliamo chiamarla “patologia da sistema” androcentrico? Sempre patologia è.