Velamento e s-velamento

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di Paola Zaretti/ La Vita è la prima “fortezza” per godere della Libertà

In  O la Libertà o la vita scrivevo qualche tempo fa fa:

La mia libertà è sacra. E se voglio girare come meglio credo e, al limite, persino nuda, sono libera di farlo perché il fatto di vestirmi come più mi aggrada non è ragion sufficiente per dare a chicchessia il diritto di insidiarmi, di molestarmi, di stuprarmi e, come spesso capita, di ammazzarmi.

La mia libertà è sacra e va difesa ad ogni costo, anche se il prezzo di quel costo è la mia vita. Che vita sarebbe, infatti, una vita privata della sua libertà?

Ma che ne sarebbe di una libertà senza una vita che di tale libertà possa godere? Perché, se perdo la vita perdo, assieme alla vita, la Libertà di viverla.

Ho voluto riprendere  e riportare alcuni passaggi di una breve riflessione pubblicata “a caldo” nel blog di Tabula rasa qualche tempo fa, http://femminismoinstrada.altervista.org/o-la-liberta-o-la-vita/, sollecitata a ritornare in argomento dopo la lettura di alcuni interventi che al di là di una critica giusta e condivisa alla deplorevole sentenza di assoluzione di sei stupratori da parte dei giudici di Firenze, hanno tuttavia evidenziato alcuni risvolti discutibili, e a mio parere non trascurabili, seguiti alla vicenda.

Se sull’aspetto, in sé scandaloso, della sentenza non c’è da spendere una sola parola in aggiunta all’ indignazione già espressa da molte, vale invece la pena spenderne qualcuna sulla tonalità e sulla piega involutiva di alcune affermazioni – comprensibilmente fomentate e inasprite, beninteso, da quella sentenza – in cui labile ed evanescente si fa il confine fra una giusta rivendicazione della libertà femminile e quella che potrebbe apparire a chi legge un’ implicita licenza, se non un invito, sia pure involontario, alle donne, a mettere a repentaglio la propria vita. Si tratta di affermazioni contenute in alcuni commenti che, per la loro qualità fortemente re-attiva e oppositiva, rischiano, nonostante e a dispetto delle migliori intenzioni, di trasformare una giusta rivendicazione di libertà – esasperata e portata alle sue estreme conseguenze – in una specie di sfida alla morte. Di qui l’esigenza di ritornare sul tema per via di alcuni enunciati che da una critica a quella sentenza, trapassano alla diffusione di messaggi indirizzati alle donne formulati (almeno in una prima versione iniziale, “mitigata” in seguito ad alcune obiezioni sollevate) sulla scelta : “O la libertà o la vita”, che rischiano di essere letti come un incitamento  a ingaggiare, in nome della libertà femminile, una “sfida” i cui tratti fallimentari e controproducenti caratterizzano quella che può essere definita, a tutti gli effetti, una “sfida isterica”.

Non si vede infatti, innanzi tutto e in primo luogo, come la discriminante fra “essere femminista” e “non esserlo” possa riguardare l’ontologia, non si vede come tale discrimine possa essere fondato sulla decisione di una donna di prendere (o non prendere) in piena notte una via principale più lunga ma illuminata al fine di evitare (o non evitare) inutili rischi. Non si vede neppure come il “distinguo” fra “essere femminista” e “non esserlo” possa essere ridotto alla differenza che passa tra una donna che reputa l’uso di alcuni accorgimenti a salvaguardia della propria vita una SCONFITTA e un disincentivo a continuare la sua lotta contro la violenza, e una donna che, preso atto della realtà dei pericoli che corre, sceglie, per non finire ammazzata, la via della prudenza. Nè si vede, infine, come una Priorità Assoluta – qual è la tutela della propria vita – possa essere  considerata uno “spostamento di prospettiva che serve a giustificare la cultura dello stupro”.

Seguendo la logica di certi ragionamenti, ne conseguirebbe, in sintesi, che  quelle donne sciagurate che per evitare di essere stuprate o ammazzate, decidono di modificare le proprie abitudini scegliendo, di notte, piuttosto che una via oscura, una strada illuminata,  potrebbero essere  giudicate, ipso facto, delle donne non libere e sospette di contribuire, con la loro scelta, alla SCONFITTA per la lotta alla violenza! Inutile dire che di qui a dedurre che per contribuire alla VITTORIA sia necessario sfidare il pericolo  e rimetterci, magari la vita, il passo è breve…A me pare che una simile impostazione del problema della “libertà femminile” sia decisamente pericolosa e non posso non interrogarmi sul senso e sul significato di un’istigazione in cui ad essere messa a repentaglio è proprio, e paradossalmente, la vita di quelle donne in nome delle quali si invoca la tutela.

E’ sull’onda dello stesso ragionamento e delle stesse argomentazioni che, analogamente, e sempre in nome della difesa Assoluta della libertà, si fa cenno, successivamente, alla libertà dei bambini in un parco di pedofili o a quella degli omosessuali. Capita così che – paradossalmente – in una visione che assume la difesa dei “PRINCIPI” quale fondamento primo cui appellarsi, il Principio di realtà: “so che il mondo è così, quindi devo proteggermi”, si consuma nel misconoscimento per trasmutarsi in un discorso “solo teorico”. Vale allora la pena ricordare che la tutela di sé non ha nulla a che fare con la teoria ma con un desiderio e una pratica di conservazione della Vita.

Confido, ottimisticamente, che a nessuna/a venga in mente – mala tempora currunt! – di appiccicare a queste osservazioni l’etichetta modaiola di turno (“moralismo”). Dovrebbe infatti risultare chiaro, da quanto detto, che la questione che qui interessa va ben al di là dell’opportunità o meno di elargire suggerimenti o indicazioni da distribuire (o non distribuire) alle donne su come  debbano o non debbano acconciarsi e vestirsi, su coperture e scoperture dei corpi: a sedurre infatti, ad attrarre e a infiammare i desideri, non è l’esposizione della cruda nudità dei corpi ma il loro occultamento-velamento.

Ed è qui che la questione fallica gioca la sua partita decisiva.