LA carnefice e LA vittima

0804

di Paola Zaretti / La Carnefice e La vittima. Declinazione al femminile di una coppia che scoppia..

Non c’è altra via che la liberazione in proprio che permetta di superare l’inferiorizzazione: chi si libera non può liberare l’altra, ma solo aiutarla ad andare in crisi. L’uscita dalla crisi è interamente sulle spalle di chi ce l’ha.  (Lonzi, Taci anzi parla, 30 settembre 1972)

L’attacco di sorpresa  è proprio dell’inferiorizzato che sbotta da un generico e non ammesso malumore al rigetto più completo. (Taci, anzi parla, 6 Giugno 1973)

(…) Ho dato agli altri il diritto di distruggermi. Lo stanno facendo, sono tutti una banda inferocita, hanno pale e picconi, vogliono il mio linciaggio (…). Sono dieci mesi che piango, dieci mesi che cammino verso la mia distruzione. Figurarsi che la mia amica era Sara: mi sembra una con la cotenna invece che con la pelle. Ibid., 17 Giugno 1973)

Mi sono ritornati in mente, in questi giorni – non per caso – questi passaggi di Lonzi che sono andata a ripescare per dire qualcosa del mio sentire in seguito ad alcuni gravissimi avvenimenti verificatisi nella pagina di Maschile Plurale dopo la pubblicazione del post di Tabula rasa Prostituzione. Almeno un pelo nero. http://femminismoinstrada.altervista.org/almeno-un-pelo-nero/, il cui contenuto non giustifica in alcun modo la violenza che ha fatto seguito alla mia risposta al commento che qui riporto:

“il presupposto da cui parte questa considerazione è errato. E porta alla conclusione errata. Non si parte da esperienze personali (ed individuali) per arrivare ad un assoluto. Ma si osserva e – se si conosce il fenomeno – si denuncia e ci si batte per eliminare l’ingiustizia e crudeltà. Sono al di fuori di queste considerazioni chi, se per scelta personale e convinta (che si presume portino alla realizzazione dei propri desideri). La tratta, lo sfruttamento, l’abietta condizione in cui si trova la stragrande maggioranza delle ragazze è un dato oggettivo, non è “un’esperienza personale”. Nessuna violentata e ingravidata potrebbe prendere la sua esperienza ed applicarla come assoluto universale alla maternità”.

La risposta a questo commento – che è poi stata censurata e trasformata in un casus belli – diceva semplicemente questo: che il presupposto del post era corretto e che la conclusione era ad esso conforme. Veniva infatti fatto osservare alla commentatrice – senza alcun intento denigratorio nei suoi riguardi – che la posizione di partenza da lei criticata e denegata nel suo commento (“Non si parte da esperienze personali”), era precisamente la posizione da cui lei stessa – non senza dovizia di particolari resi pubblici nei suoi numerosissimi interventi in MP sulla prostituzione – era sempre partita. Fu per questa ragione che l’ ingiunzione da lei rivolta nel commento a non partire da “esperienze personali” e a limitarsi al ruolo di pure “osservatrici” e “conoscitrici del fenomeno”, suonava stonata, fuori luogo, e del tutto contraddittoria rispetto ai messaggi da lei stessa – e fino a quel momento resi pubbici – sulla sua “esperienza personale” che nulla aveva a che fare, peraltro, né con lo sfruttamento né con la tratta ma con la prostituzione. Per quanto riguarda il passaggio sul materno, il mio riferimento non aveva nulla a che vedere con donne “violentate” e “ingravidate”. Aver rilevato la contraddizione – che nulla aveva a che fare con un giudizio, è bastato a scatenare l’inferno: Intimazioni, intimidazioni, minacce, scadenze, ingiurie, alimentate da alcune altre i cui commenti sono conformi alle regole del branco e alla pulsione sadica che puntualmente lo governa. Che cosa è accaduto? Che cosa ha provocato una reazione tanto spropositata? Che cosa, visto che nessun giudizio né in quell’occasione né in altre, è stato mai formulato su questa persona nè su chi decide – liberamente o no – della propria vita? Una reazione tanto più sorprendente e fuori luogo se si pensa che  la finalità di quel post – alla cui lettura rimando e invito – era  quella di aprire una riflessione attorno alle possibili motivazioni della guerra fra “abolizioniste e “libertarie” per capirne, approfondirne le ragioni e cercare di venirne finalmente a capo.

Lonzi, a un certo punto della sua vita, ha abbandonato il femminismo e ce ne informa. La distinzione tra femminismo “politico-ideologico” e “femminismo di liberazione”  è un punto fermo nel suo pensiero, non c’è, fra l’uno e l’altro, intercambiabilità e così ne scriveva riferendosi alle dichiarazioni messe in giro dalla Donne del FILF che si facevano portavoci dell’autocoscienza:

Vi si legge che nel femminismo ancora l’autocoscienza non si sa cosa sia né a cosa serva; secondo una, serve ad accorgersi della dimensione politica dell’oppressione. Mentre è vero il contrario: ci si accorge che femminismo politico-ideologico (cioè volto al futuro e femminismo di liberazione (cioè volto al presente) sono due ricerche differenti e non intercambiabili. Purtroppo le retroguardie sono sempre quelle che parlano perché, non dicendo niente di proprio, non soffrono di  essere fraintese e perciò sono dell’opinione che “tutto fa brodo”.

Già. Il punto è ancora e di nuovo l’autocoscienza. La distinzione di Lonzi fra femminismo “politico-ideologico” e “femminismo di liberazione” è netta e costante nel suo pensiero e la troviamo abbondantemente espressa in Sputiamo su Hegel ma non solo. Aveva ragione nel distinguere, per averla vissuta sulla propria pelle, la violenza che abita in ogni ideologia e i suoi mostruosi effetti così ben descritti da Arendt quando ci racconta dove conduce la logica di un’idea teorizzata e praticata fino alle sue conseguenze estreme: alle “bande inferocite con pali e picconi”, a donne come Sara con la “cotenna” al posto della “pelle”, al “linciaggio” di cui Lonzi ci parla in Taci, anzi parla. A osservare quello che succede in fb ma non solo, mi vado sempre più convincendo che parte del sedicente “femminismo” italiano ne sia letteralmente infestato. Me ne vado persuadendo fino al punto da non potermi più riconoscere in esso. La violenza distruttiva che sempre più spesso lo abita, nasce proprio dal politico-‘ideologico e nasce soprattutto ad opera di quelle che Lonzi acutamente individuava e definiva le “retroguardie” il cui “niente da dire di proprio” risparmia loro qualsiasi sofferenza. Infatti, per poter essere fraintese – intese male, equivocate nel proprio dire – bisogna pure azzardare. Bisogna pure che qualcosa si dica, che qualcosa da dire, insomma, ci sia. E quando non c’è, al posto della ricchezza assicurata dalla produzione teorica e della ricerca su cui confrontarsi – come molte fanno – c’è quello che Lonzi chiama “l’attacco di sorpresa”.

Lonzi fa luce, come sempre, su un’importante connessione fra “l’attacco di sorpresa” e il “niente da dire”. Infatti:

l’attacco di sorpresa proprio dell’ inferiorizzato che sbotta da un generico e non ammesso malumore al rigetto più completo (Lonzi, Taci anzi parla)

è qualcosa di logicamente derivato proprio da quel ”niente da dire” che provoca inevitabilmente rabbia, frustrazione, odio, invidia e conseguente “rigetto” da parte dell’attaccante. Per contrastare dunque  efficacemente il ricorso di alcune “femministe” a pale e picconi, bisognerà trovare una via che permetta all’inferiorizzata (che non è, si badi bene, l’”inferiore”) di superare l’inferiorizzazione.  Ma qual è questa via? E’ importante individuarla e Lonzi, pur non essendo su questo punto molto ottimista, ci viene incontro dicendoci che nessuna donna, neppure una donna liberata, può liberare dalla sua inferiorizzazione un’altra donna. Nessuna donna ha il potere di compiere il miracolo. Quello che una donna liberata può fare nei riguardi di un’altra, è aiutarla ad andare in crisi in modo tale che a liberarsi “in proprio” sia lei stessa.

Non c’è altra via che la liberazione in proprio che permetta di superare l’inferiorizzazione: chi si libera non può liberare l’altra, ma solo aiutarla ad andare in crisi. L’uscita dalla crisi è interamente sulle spalle di chi ce l’ha.  (Lonzi, Taci, anzi parla, 30 settembre 1972)

Non avrei scelto questi brani che evocano “pale” e “picconi” se non fosse per qualcosa di cui ho fatto esperienza in questi giorni e che ben corrisponde alla descrizione di quella “banda inferocita” descritta da Lonzi. La differenza fra lei e me è che io non ho mai concesso e non concedo agli altri il diritto di distruzione per la semplicissima ragione che la sindrome di Stoccolma propria della posizione vittima non mi permetterebbe di fare il lavoro che faccio, da anni, con donne e uomini. Ed è per questa non concessione e per quel rispetto che ogni donna dovrebbe a se stessa, che ho ritenuto  doveroso – e doloroso –  ritornare su quanto accaduto per dare la mia versione dei fatti.

Non servirà a nulla? E’ probabile, ma non è questo che conta.

A contare non è esser creduti/e o meno ma qualcosa che a che fare con una testimonianza: una donna può/deve uscire dalla posizione in cui un’altra o altre la collocano, soprattutto quando il luogo in cui viene collocata è lo stesso luogo in cui loro sono state messe a suo tempo e da cui, grazie a un  gioco di scambio immaginario fra persone, cercano illusoriamente e disperatamente di uscire facendo subire ad altre la loro stessa sorte. Sto parlando di relazione donna-donna, non della relazione uomo-donna, non della vittima e del carnefice ma della vittima e della carnefice, di uno scenario trascurato tutto da indagare su cui ho già posto l’attenzione tempo fa.  Perché, se una cosa è certa è che le donne, vittime da millenni della violenza  maschile esercitata su di loro, tendono a ripetere non con gli uomini, ma con le loro simili ciò che dagli uomini subiscono e hanno subito. La donna che viene di volta in volta “colpita”, “ferita”, è sì l’altra donna ma è l’altra donna che lei stessa è stata e che non cesserà di essere fintantoché, per liberarsi dalla posizione della vittima, sarà costretta a trasformarsi carnefice illudendosi, così facendo, di uscire dalla trappola del binarismo vittima-carnefice.

Non ritengo di aver offeso una donna, una donna come me, né tantomeno di aver umiliato la sua dignità ma non posso non prendere atto del fatto che lei – a ragione o a torto – si è sentita offesa.

E allora poiché l’ultimo tormentone riguarda la “verità soggettiva” e la “verità oggettiva”, sarebbe forse il caso di riparlarne perché qui non è della verità soggettiva di un uomo e di una donna – cui bisogna dare assoluta priorità, si dice – che bisogna indagare, ma della verità di due donne ed è, come facilmente si comprende, tutta un’altra faccenda decisamente più complicata.

… Come sempre capita quando di mezzo ci sono le donne.