Grazie NO

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di Paola Zaretti/ Grazie NO

In una replica sul tema della violenza alle donne che si trascina da diversi mesi intitolata E’ vero che lei lo dice: serve altro? (http://www.libreriadelledonne.it/tra-i-resti-del-patriarca) scrive Vedovati:

(…) disorienta e preoccupa gli uomini il fatto che basti solo la parola di una donna. Ed è un punto importante da vedere e affrontare politicamente (…). Ora vedo che queste affermazioni fanno problema anche ad alcune donne.

E meno male che fanno problema “anche” ad alcune donne – dico io – perché il punto da “vedere e affrontare” va visto e affrontato, certo, prima che politicamente, logica-mente.
Ritornare su questa discussione è, probabilmente, impiegare male il proprio tempo ma poiché nell’articolo Fra eretti e genuflessi, meglio inclinati (ttp://femminismoinstrada.altervista.org/tra-eretti-e-genu…/?), pubblicato di recente in Tabula rasa, il tema è stato trattato, mi sento una di quelle “alcune” chiamate in causa.

La prima cosa su cui l’autore dell’articolo dovrebbe interrogarsi, è come mai le sue affermazioni, condivise tempo addietro da molte donne – come lui stesso, senza andare oltre, lascia intendere – rappresentino ora un problema non solo per gli uomini preoccupati del fatto che potrebbe bastare, a metterli in difficoltà, la parola di una donna, ma anche per le donne stesse. Che la parola di una donna che afferma di essere stata oggetto di violenza non basti, che non basti che sia vero il fatto che lei lo dica ma occorre che sia vero ciò che dice, è un elemento  che segnala il rischio di una teorizzazione fondata su un sessismo alla rovescia uguale e contrario che ripropone e conferma, in forma invertita, il binarismo oppositivo patriarcale.

Stiamo – scrive Vedovati – alla verità soggettiva di una donna che parla e che non c’è altra verità che quella, che quel che dice è vero perché è lei che lo dice, che è lei la fonte della verità, che al centro di tutto c’è la parola di una donna, che non c’è bisogno di altro fondamento, che quella parola si significa da sola.

Ma che cos’è che motiva e giustifica una posizione come questa – che  nega ed esclude ogni forma di relazione – e un’ insistenza così ossessiva nel dire che “non c’è altra verità che quella” che “è lei la fonte della verità”, che “non c’è bisogno di altro fondamento” che non sia la parola di una donna?
E’ la paura. E’ la paura il movente di una censura che, attraverso la difesa indiscriminata di un’unica verità posta come assoluta, viene esercitata nei confronti della ricerca di un’altra verità possibile. Una censura della verità necessaria e senza la quale si creerebbe – così si dice – una “frattura” fra ciò che una donna dice essere vero e la verità dei fatti (i “fatti veri”) e questa “frattura” andrebbe a vantaggio degli uomini. Come dire che la tutela della “causa” delle donne esige il sacrificio della Verità – e, con essa, della Giustizia:

Se invece cerchiamo un’altra verità al di là della verità soggettiva di lei, dunque una verità che può prescindere dalla sua parola, che si dà oggettivamente, si apre quella frattura tra “fatti veri” ed esperienza soggettiva che dà spazio ai “se” ed ai “ma” degli uomini, al “lo dice lei, ma…” e il “lei lo dice” diventa qualcosa come “è solo lei che lo dice.

In realtà se non c’è confronto, se La Donna, come Dio, è la fonte unica e assoluta della Verità, se la sua Parola non ha bisogno di alcun fondamento essendo  essa a se stessa fondamento, non di “frattura” si tratta ma di negazione della relazione. Inutile dire che un’affermazione di questa portata è l’esito prevedibile – e temibile – di un’enfatizzazione-esaltazione indiscriminata della credenza fideistica in un’ “Autorità femminile” e di quanto – nonostante le immancabili negazioni d’obbligo e “di maniera” messe in campo – le va dietro: un malcelato desiderio di onnipotenza generatore di un’ idolatria mascherata da “fragilità” antiidolatrica:

E’ una questione di autorità, la forza simbolica che si riconosce nella parola di una donna che nomina la violenza a partire da sé. “Accettare l’autorità senza protesi, accettare che sia fragile, è antidoto di ogni idolatria”, ha scritto Luisa Muraro (…)..Perché il punto politico non è il destino di MP o la punizione di “uno di loro”, ma che degli uomini, soprattutto uomini che hanno lavorato sulla violenza maschile, raccontino pubblicamente cosa accade quando una donna li accusa, quando la violenza li tocca da vicino, e cosa si può fare per cambiare, affidandosi alle relazioni con le donne. Questa è la politica che le donne ci insegnano.

Not in my name. Se sono questi gli esiti prodotti negli uomini dal loro affidamento alle relazioni con le donne, se è questa la politica che le donne hanno insegnato a donne e uomini, per cambiare c’è una sola cosa da fare: abbandonare – così come ogni buon/a allievo/a che si rispetti dovrebbe aver imparato a fare – maestre e maestri per recuperare come uomini e  donne, nel pensiero, nella scrittura, “libertà”, “autenticità”, “rischio” e…dignità e per imparare, soprattutto, a scindere la verità dall’autorità:

Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi» l’autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell’autorità“. (Pasolini, scritti corsari).

Quanto Verità e Autorità siano incompatibili difficilmente risulta chiaro come in questo frangente. Così com’è chiaro che il “privilegio” a oltranza, comunque accordato, alla parola di una donna “in quanto donna”  – come se l’anatomia fosse il destino – vera o falsa che sia, è la peggiore forma di paternalmaternalismo esercitabile nei suoi confronti a cui diciamo, ringraziando: Grazie no. Vogliamo donne e uomini libere/i e non genuflessi di fronte a una supposta autorità sia essa maschile o femminile.

Una risposta a “Grazie NO

  1. hai ragione, forse è una perdita di tempo continuare in una discussione in cui non emergono novità. soprattutto perché le tante domande che sono state poste non trovano risposta. Mi pare significativo il riferimento che fai alla relazione per due motivi. il primo riguarda proprio la parola di una donna (o di un uomo) che non è semplicemente vera o falsa ma è anch’essa denti una relazione, è frutto di un vissuto. e dunque muta in base alla relazione non ne è la precondizione statica. nella concretezza i centri antiviolenza non si pongono nell’alternativa tra riconoscere a prescindere come vera la parola della donna o delegittimarla come “inaffidabile” ma offrono un percorso in cui è la donna stessa che elabora una lettura della propria esperienza. L’altra questione che rimanda alla relazione è il riferimento all’autorità (tema in questa discussione spesso usato con superficialità e disinvoltura confondendo autorevolezza, autorità simbolica, riconoscimento reciproco…). Si può condividere o meno l’elaborazione teorica attorno all'”affidamento” tra donne, ma quella riflessione riguardava la potenzialità trasformatrice che, in un ordine di esazione della soggettività femminile può esserci nel riconoscere da parte di una donna l’autorità di un’altra donna e nel mettere in gioco il simbolico materno rispetto a quello paterno. ripeto: si può condividere o meno e io ho molti dubbi su letture “estreme” di questa prospettiva. Ma la si può riproporre pedissequamente per gli uomini senza un’ulteriore declinazione? Mi chiedo che risorse ci siano in un affidamento maschile all’autorità femminile, quale relazione. Si è parlato di desiderio, eros e messa in gioco della propria parzialità nelle relazioni tra donne e uomini. C’è spazio per un qualche eros in un affidamento maschile all’autorità “della madre”? Che valenza reciprocamente trasformatrice c’è in una relazione di affidamento maschile all’autorità femminile? Credo che in questa riflessione come uomini agiscano alcune tentazioni profonde che andrebbero osservate criticamente da noi stessi: la tentazione paternalistica di sacralizzare la vittima e di attribuirle per questo una parola che ha valore fuori dalle relazioni. (che è altro da “prendere sul serio quella parola” e quell’interlocutrice ed avere con essa un confronto libero di ascolto e, nel caso, di conflitto). Ma anche il desiderio di non perdere uno sguardo femminile di riconoscimento e approvazione. Forse qui il fantasma della madre torna ma rovesciato: non un’autorità temibile da cui si sottrarrebbe. Ma la nostalgia o il dolore di una perdita per uno sguardo di accoglienza incondizionata che è frutto di una costruzione simbolica che desessualizza la madre, ne rimuove la soggettività per farla corrispondere ad una “aspettativa” di oblatività che è frutto di una rappresentazione maschile. rappresentazione che, per questo la rappresenta come “destino femminile” ma anche come minaccia fagocitante che richiede l’affermazione di un potere regolativi maschile. Per me la “pista di ricerca” è proprio nel riconoscere il desiderio femminile, lo sguardo differente, la soggettività femminile come risorsa per reinvetare relazioni di reciprocità tra parzialità e differenze. che mi chiede non di stare nell’altalena tra affidamento o emancipazione revanscista ma nell’assunzione di responsabilità di mettere in gioco la mia differenza e di relazionarmi con (un’) altra differenza e una parzialità. forse anche nella responsabilità e nella libertà non di passare da un ordine a un altro ma di dire (e innanzitutto ascoltare, scoprire, riconoscere) il mio desiderio, la mia esperienza maschile districandone continuamente la tensione tra “storia”, e singolarità, dominio e miseria prodotta da quel dominio. E qui emerge un’altra differenza di fondo: io credo che il patriarcato abbia prodotto un dominio degli uomini ma anche una loro alienazione. Abbia attribuito al loro corpo una corrispondenza al simbolico fallico che li schiaccia nell’alternativa tra impotenza e dominio. Credo che questo non voglia dire negare le disparità di potere tra donne e omisi ma sia la precondiione per una prospettiva maschile non meramente paternalistica o volontaristica. che non chieda agli uomini di “farsi carico” del mondo ma di avere il coraggio di mettere in gioco la propria parzialità e il proprio desiderio di libertà…

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