Arché

di Leda Bubola /

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2^ Parte

Il problema, non il cuore, ma l’arteria, del problema, è quello che amo chiamare l’interiorizzazione dei modelli patriarcali. Può forse sembrare un modo un po’ astratto di definire un certo fenomeno, ovvero la rincorsa sfrenata di molte donne verso una significanza simbolica (rappresentanza politica e sociale) che dà luogo a conseguenze deleterie per sé e per le altre. A tal proposito Claudia Bruno descrive con maestria lo spirito che permea il fare di molte donne, ovvero, il bisogno di accettazione sociale, un essere accettate che evidentemente non viene da sé ma dev’essere in qualche modo giustificato, meritato (http://femminismoinstrada.altervista.org/giustificazioni/).

Inutile dire che i criteri di valutazione di questo merito sono definiti da un forte carattere prestazionale-produttivo, basti pensare a qualsiasi ambiente lavorativo, accademico ma anche sociale. Tale carattere prestazionale è la prova pratica della tesi, ormai ampiamente condivisa (Braidotti, Zaretti, Calciolari, Irigaray, Cavarero), della presenza simbolica di una sessualità esclusivamente fallica che impedisce, proprio per il suo carattere erettivo, di muoversi verso l’altro/a, sbarrando la strada alla relazione, invece di favorirla (Cavarero, Inclinazioni, Critica alla rettitudine). Il ritorno di tale modalità a-relazionale è una certa illusione di invulnerabilità e onnipotenza, che Michele Spanò definisce come la lotta dei filosofi “con­tro l’infanzia e la mater­nità; dun­que e con­se­guen­te­mente: con­tro la dipen­denza da altri, con­tro la vul­ne­ra­bi­lità e l’affidamento, con­tro la cura, la dedi­zione e il decentramento”.

Credo sia opportuno ricordare come, in termini più propriamente filosofici, e riprendendo un’osservazione già sviluppata da Cavarero, tale lotta dei filosofi è una lotta che prima di tutto si inquadra come lotta contro il divenire. Parmenide è il primo filosofo che nega il divenire e, dopo di lui, la storia della filosofia occidentale si impegna a risolvere la contraddizione che nasce da questa negazione, ovvero, il ritorno sintomatico del rimosso, la pulsione di vita che combatte quella di morte, Eros contro Thanatos. Per questo non si può fare di tutta l’erba un fascio, e non si può cogliere, all’interno della dimensione evocata da ciascun filosofo appartenente alle diverse tradizioni occidentali, solo la tendenza contro la pulsione vitale. Fare questo significherebbe d’altronde, riproporre un’ideologia e non una visione analitica, nel suo senso più proprio, ovvero quello di scioglimento dei nodi, cui auspichiamo.

Detto questo, l’osservazione di Spanò, ovvero l’associazione tra divenire-caducità-femminilità è sicuramente un’associazione valida, tra l’altro già presente in Cavarero (Il femminile negato). Per giungere al cuore del problema, ovvero a ciò che tiene insieme il turbinio vorticoso di Eros contro Thanatos, si deve però stressare l’importanza del tratto violento insito nella modalità sopra accennata. È in esso, a mio parere, che si scorgono più chiaramente, le implicazioni pratiche che un ordine simbolico che contempla uno solo dei due sessi (Zaretti) produce nelle nostre vite quotidiane.

Già Braidotti (http://femminismoinstrada.altervista.org/dal-primato-ultimato-del-fallo/) sottolinea il carattere violento di tale modalità mentre Cavarero ne dedica un libro intitolato Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale.  A tal proposito propongo una citazione di Salvatore Natoli tratta da L’esperienza del dolore ed utilizzata anche da Paola Zaretti all’interno dello spettacolo itinerante Donne in Strada.

“Ogni vivente, determinabile come quantità di forza e centro organizzato della propria potenza, è vitale e pretende per sé la vita. Per questa ragione ogni mortale tiene alla propria vita e, in quanto mortale, tende quanto più può a tenere lontana da sé la morte. A tal fine, non solo si custodisce e si protegge, ma anticipa negli altri la sua morte e uccide. Uccidendo prende dentro di sé la vita dell’altro e accumula vita. Il mortale che uccide coltiva in sé l’illusione di durare, e se non può evitare la morte si persuade che in certo modo la può fronteggiare e contenere. A tal fine il vivente, come consuma per accrescersi, distruggere per dominare.” (Natoli, L’esperienza del dolore, pg. 54)

Prima ancora di essere una violenza contro la donna e la madre, o forse parallelamente a questo, la violenza che l’uomo infligge all’altra/o, è una violenza contro se stesso. Il motivo di tale violenza è chiaramente esplicitato da Natoli e si può riformulare come una necessità vitale, unica e sola possibilità di esistenza. Ciò indica una mancanza di energia vitale e uno spettro di insignificanza e impotenza che solo può giustificare il rivolgersi verso l’annientamento dell’altra/o come unica possibilità di esistenza propria.

La causa di questo spettro di insignificanza e impotenza è il senso greco del divenire, il senso tragico, ovvero il venire dal nulla e il ritornare nel nulla. Tutte le correnti filosofiche, da quella antica, moderna e contemporanea, dalle correnti epistemologiche o a quelle decostruttiviste, empiriste o razionaliste, idealiste etc., si basano su un terreno comune, una visione comune che non cambia mai, ovvero il senso greco del divenire, il venire dal nulla e il ritornare nel nulla. È questo nulla, talmente spaventoso da muovere le più profonde energie creative dell’essere umano allo scopo di inventare un senso che protegga dall’orrore, ad insorgere da questa tragica realtà: l’esistenza umana vista dalla prospettiva della propria mortalità.

Questo tratto è stato colto da Harendt e ripreso da Cavarero come prevalenza della categoria della morte rispetto a quella della vita, della nascita. La storia della filosofia occidentale acquista un senso non ancora sufficientemente indagato alla luce di tali considerazioni, un senso che non è la ricerca di una giustificazione ma la comprensione di ciò che ha portato alla nostra visione moderna, dalla teologia e dalla metafisica alla loro distruzione e sostituzione con la tecnica.

“… la volontà di rimedio e di salvezza, che attraversa l’intera civiltà occidentale, è una conseguenza della persuasione che le cose oscillano, nel divenire, tra l’essere e il niente. In questa oscillazione il divenire si presenta come l’estrema minaccia e spinge quindi alla ricerca dell’estremo rimedio (e infine alla distruzione del rimedio epistemico). La volontà di rimedio e di salvezza appartiene all’essenza della volontà di potenza. Il Rimedio contro la minaccia del divenire consiste oggi nell’impadronirsi e nell’identificarsi, mediante la scienza e la tecnica, alla sorgente del divenire.” (Severino, La filosofia contemporanea, pg. 263)

Dunque nel fondo del vaso di Pandora sempre lui, lo spettro del nulla. Il vuoto colmato dal pieno, l’assenza colmata dalla presenza, un primato o un ultimato che incrociano un’insufficienza angosciosa, un’inutilità che non osa guardare in faccia se stessa. La scelta è tra il reggere e il sopportare e, mentre quest’ultimo apre l’orizzonte alle ormai abusate possibilità teoretiche di ben due millenni e mezzo di filosofia, la prima, il reggere, apre la strada al cominciamento.

Tenendo in considerazione la matrice fortemente patriarcale di tutta la filosofia occidentale e, al contempo, la sua evidente centratura nell’impossibilità di reggere l’orrore, la tragicità dell’esistenza, c’è da chiedersi quanto e in che termini le donne abbiano ereditato questo tratto violento e l’angoscia di morte ad esso connessa (Zaretti). Ma la sequela di domande che si aprono a tale proposito è infinita, in che termini infatti entra tutto ciò nell’esperienza della maternità? In che termini si esprime il senso creativo dell’origine inscritto nel biologismo femminile e in che spazio trova espressione oltre a quello propriamente materno? In che termini può esistere, non certo all’interno della modalità verticistica patriarcale, e dove dunque? In uno spazio dove vige un’altra modalità, uno “stare in un altro piano”, Tabula Rasa.