Femina erecta. “Approfittiamo”…del materno

 

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di Paola Zaretti/ Femina erecta “Approfittiamo… del materno”

Nemesi 194, lo scritto dedicato alla legge sull’aborto e pubblicato qualche tempo fa sul blog Tabula rasa. Il femminismo ritrova la strada, http://femminismoinstrada.altervista.org/nemesi-194/, oltre agli inattesi consensi di cui ringrazio, ha comprensibilmente suscitato in alcune femministe amiche – poche in verità rispetto alla scabrosità del tema e alla difficoltà di trasmettere la sostanza di un pensiero critico nei riguardi dell’”intoccabilità” di un dogma – alcune perplessità su cui vorrei ritornare utilizzando, almeno in parte, Inclinazioni. Critica della rettitudine, il libro di Adriana Cavarero di recente pubblicazione. La precisazione sulla parzialità, è qui d’obbligo considerata l’abbondanza di riferimenti letterari, filosofici e artistici  – Woolf, Kant, Platone, Levinas, Arendt, Leonardo, Hobbes, Newmann – per ricordarne alcuni soltanto, e la complessità di un testo che mantenendo saldamente in mano il filo conduttore  di una “postura” filosofica riscontrabile anche in altre opere precedenti  – la critica al concetto di “natura” e il ripensamento, condiviso da Butler, di una “natura” umana intesa come “condizione umana” e la critica radicale al pensiero fallogocentrico – apre tuttavia  a nuovi scorci inediti di pensiero. A interessarmi in questo testo, sono la categoria arendtiana di “nascita”,  di “vulnerabilità”, di “dipendenza” che, assieme a quella di “inerme”, incontriamo anche in altri scritti di Cavarero e di Butler e che stridono, per contrasto,  sia con l’idea di un soggetto dritto, eretto, verticale, autarchico, autonomo e solipsista, incapace di relazione con l’altro, sia con i concetti di forza e di sovranità. Non me sarei forse interessata tanto,  in questo momento, se non fosse per via del clamore e del preoccupante successo di cui godono, in certi ambiti del femminismo nostrano, parole come “forza” e  “sovranità femminile” che nel mentre inseguono gli stessi  modelli ontologici individuali ed autarchici ispirati alla verticalità piuttosto che alla vulnerabilità, alla precarietà e all’inclinazione  – mostrandosi così tutt’altro che inclini alla relazione – ne vanno tuttavia esaltando il valore, come se l’idea di sovranità, di autosufficienza, di autonomia e di indipendenza non fossero incompatibili con un’ontologia della relazione.

A delimitare e a circoscrivere la specifica area di interesse entro la quale vorrei muovermi con il prezioso ausilio di alcune riflessioni sulla verticalità e sull’inclinazione che agitano e si agitano  nel libro di Cavarero, è un’indagine interessata a considerare la “postura” della donna e dell’uomo all’interno della legge 194 e al di fuori da stereotipie ideologiche ingombranti, per procedere in direzione della quale non c’è di meglio che mettere a confronto lo scenario della legge – in cui questi due posizionamenti sono contemplati – con i due rispettivi paradigmi posturali, con i due modelli di soggettività – maschile e femminile – descritti da Cavarero nel suo libro di cui daremo presto conto.

A suggerire la prima parte del titolo, Femina erecta, è un’ironica allusione identificativa tra la tradizionale postura geometrica e verticalizzante dell’ Homo erectus esaltata dalla filosofia occidentale ed evidenziata da Cavarero nel suo libro, e la sua tragicomica versione femminile ricordata da Irigary in un passaggio in cui, a dispetto di quell’ “inclinazione” auspicata da Cavarero,  al centro del contesto descritto,  si erge, inquietante, la figura della Femina erecta :

“A molte femministe anglosassoni – e più in generale a molte donne del ceppo germanico – basta avere la loro cattedra universitaria o avere scritto il loro libro per essere liberate (…). In quei paesi una donna  può dunque avere il sua fallo, se non il sua pene”.

 E in Italia? Come vanno le cose in Italia?

Alla figura dell’ Homo erectus  – così definito dalle scienze antropologiche per sottolinearne la postura verticalizzante che immortala l ‘immagine del primato fallico maschile e che di tanta fortuna ha goduto non solo nella filosofia antica ma nelle diverse epoche – si è andata sempre più affiancando all’interno di un’area del femminismo italiano, la figura, altrettanto inquietante, della sua copia in versione femmina: Femina erecta – appunto, come mi piace chiamarla. Che l’affermarsi di  questa figura illusoriamente “vincente” e il crescente credito che l’accompagna continuino a essere scambiati da molte femministe di vecchia e nuova generazione per un “guadagno”, è ciò che si tende a credere, dimenticando che la confusione fra guadagno e asservimento a un simbolico maschio è la trappola più insidiosa e mortifera da cui ogni donna, femminista o no, dovrebbe guardarsi. A intuire il pericolo e a mettere in guardia le donne da possibili derive “falliche” ci ha pensato, in  termini ancora più espliciti di Irigary, Rosy Braidotti:

“A meno che entrambe i sessi non si uniscano nel tentativo di realizzare una sessualità non fallica, di riscrivere il copione della sessualità prendendo le distanze dalla violenza del Fallo, nulla cambierà.” (R. Braidotti,  In Metamorfosi)

Si tratta dunque, per Braidotti, di contrastare e smantellare quei “dispositivi di verticalizzazione” – così li chiama Cavarero ricordando Foucault – in cui la violenza fallica e la celebrazione dell’uomo “retto”, due distillati della migliore tradizione fallocentrica, finiscono per informare l’agire politico di uomini e donne. Nulla garantisce, infatti, che in assenza di una ferma e assidua opera di contrasto a tali dispositivi da parte delle donne,  non si giunga a quella destinazione fatale che preoccupava Lonzi, a quella “fine del femminismo” cui  inevitabilmente si vota un pensiero incapace di sfuggire alla trappola del “mito dell’uomo” e alla gogna della logica duale figlia dell’Uno su cui tale mito si fonda.

Erano questi, in sostanza, i pensieri che mi attraversavano durante la stesura di Nemesis 194, un testo sulla legge di interruzione di gravidanza, quando nel bel mezzo di quel rimuginare sulla legge e sulla rispettive posture assunte dall’uomo e dalla donna all’interno di quello scenario, mi è capitato fra le mani Inclinazioni. Critica della rettitudine di Adriana Cavarero persuadendomi a ritornare, con rinnovata convinzione, sulla tesi contenuta in Nemesis 194 e sul primato sancito da quella legge: il primato – potremmo dire utilizzando sin d’ora ora alcuni termini di Cavarero che andranno meglio precisati – di un’”ontologia individualista” e verticale a scapito di un’”ontologia della relazione”. Va da sé che trattandosi di una legge riguardante le donne,  non può non colpire il fatto che la postura assunta dalla donna nell’ambito di quella legge – quella della Femina erecta – è una postura che contrasta con il modello relazionale, con il primato della relazione e con la critica al soggetto autarchico sostenuta dagli esiti più recenti del pensiero femminista sull’”ontologia dell’umano” e sul valore della vulnerabilità. Una Femina erecta la cui postura in nulla differisce, sul piano dell’esercizio di un dominio, dalla “postura” escludente che caratterizza l’ontologia individualista maschile cui già Lonzi si riferiva quando scriveva:

“La liberalizzazione dell’aborto è diventata, attraverso millenni, la condizione mediante la quale il patriarcato prevede di sanare le sue contraddizioni mantenendo inalterato il suo dominio”. (C. Lonzi, Sessualità femminile e aborto. Rivolta femminile 1971)

E, ancora:

 “Cercare di mettere al riparo le nostre vite attraverso una richiesta per la legalizzazione dell’aborto, porta, sotto considerazioni pretestuosamente filantropiche e umanitarie, al nostro suicidio: in modo indiretto viene riconfermata la prevalenza di un sesso su un altro intanto che l’altro sembra andare incontro alla sua liberazione”. (Ibid.)

Lonzi non scherza: lei sa che la legalizzazione dell’aborto è per le donne un suicidio e che questo suicidio è l’esito funesto della “prevalenza” dell’uomo su di lei. Il duplice significato di questa “prevalenza”, ci permette di far luce su un altro genere di suicidio – un suicidio simbolico – che l’inconsapevolezza non rende né meno riconoscibile né meno pericoloso: si tratta, infatti, di quella particolare modalità suicidaria femminile che, attraverso l’alienazione, una donna si procura da sé tutte le volte che a prevalere su di lei non è un  uomo, ma l’uomo che lei stessa diventa attraverso un’identificazione con l’altro sesso certificata dall’’assunzione della sua medesima postura. Essere uomo o essere donna non è, infatti, un “destino” anatomico, come pensava Freud, ma una questione di posizionamento. Capita così che quando una donna assume nei riguardi dell’uomo la stessa posizione escludente che l’uomo ha storicamente avuto nei suoi – è il caso della 194 in cui non è la decisione ultima, giustamente riconosciuta alla donna, che va messa in discussione ma l’esclusione dell’uomo dal diritto a un parere totalmente demandato al di lei arbitrio – a “vincere” non è il primato di quell’ontologia relazionale che le donne vanno costantemente predicando ma il primato di un’ontologia autarchica e individuale e anaffettiva. Così il Comandamento “non si tocca”, il Noli me tangere della 194 – una legge peraltro a suo tempo rifiutata dalla maggior parte delle donne favorevoli, piuttosto, alla depenalizzazione del reato d’aborto – è il riflesso speculare del Noli me tangere dogmaticamente rivendicato da quella stessa ontologia individualista  violenta di cui il maschile, indifferente a un’ontologia della relazione, ha impregnato la cultura dell’Occidente. Che questo possa considerarsi un guadagno è, oltre che imbarazzante, difficile da sostenere. Ma c’è di più, c’è che all’interno di quella legge la geometria del quadro si complica: la figura e il posizionamento della donna si scinde e si mostra, infatti, in una doppia postura: quella eretta e verticalizzante della Femina erecta, autodeterminata e “sovrana” e quella inclinata che mette in scena, sia pure potenzialmente, una natalità altrettanto potenziale e un tipo di  “relazionalità originalmente duale”, cosicché verticalità e inclinazione, ontologia individualista e ontologia relazionale finiscono per confliggere.  Benché Cavarero nella scena di seguito descritta non si riferisca alla 194 e parli di un “infante” e di un “neonato”, mi pare che la ricostruzione del quadro che ci offre possa essere comunque  utile ai fini della nostra riflessione:

“Due sono, innanzi tutto, i personaggi in scena: la madre e l’infans. Se la prima deve guardarsi dal ben noto rischio di sprofondare nello stereotipo della donna oblativa, il secondo sembra pretendere proprio questa oblatività perché sta nella posizione di una vulnerabilità estrema. Per l’infante, in sostanza, la relazione è una cruciale dipendenza, per di più inconsapevole e unidirezionale: ovvero una passività verso l’atto, benigno o maligno, di chi su di lui si inclina. In questo senso l’infante, e tanto più il neonato, incarna in modo esemplare l’altro in quanto inerme”. (A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, p. 143)

Bisogna tuttavia guardarsi – avverte Cavarero – dal pensare il materno unicamente come cura “in omaggio allo stereotipo oblativo” oscurando “la valenza etica dell’alternativa fra cura e ferita che sta nell’inclinazione” :

 “L’inclinazione materna non decide ancora per il bene o per il male, si piega semplicemente sull’infante, disegnando una scena nella quale il bene e il male, la cura e la ferita, agiti con potenza piena e unilaterale, non prevedono alcuna ritorsione”. (Ibid., p. 147)

Ora, per valutare se in quale misura sia possibile ricavare da un testo come “Inclinazioni” altri elementi utili a ripensare in una luce diversa e libera da ideologie, la 194, conviene fare un passo ulteriore confrontando il posizionamento della donna e dell’uomo all’interno di questa legge,  con i due paradigmi posturali,  con i due modelli di soggettività – maschile e femminile – che Cavarero così descrive:

“Accanto al paradigma dell’asse verticale, requisito dell’uomo per via della sua razionalità congenita, compare il paradigma di una linea obliqua riservata invece alla donna per via di una costitutiva attitudine alla maternità che ne causa l’inclinazione. Che si tratti di stereotipi, per di più inattuali, è appunto dato per scontato, incontestabile, ammesso; anzi, l’efficacia dello schema conta proprio sulla riproposizione enfatica dei loro caratteri convenzionali. A ben vedere, sotto un profilo filosofico, si tratta però anche di due paradigmi posturali che afferiscono a due diversi modelli di soggettività, due teatri per interrogarsi sulla condizione umana in termini di autonomia o dipendenza, due stili di pensiero, due linguaggi: uno riconducibile all’ontologia individualista, l’altro a un’ontologia relazionale. Rintracciare nell’uno un profilo maschile e nell’altro un segno squisitamente femminile rende più interessante l’operazione”. (Ibid.)

Per capire a quale dei due modelli si ispiri questa legge possiamo chiederci – schematizzando – quale sia l’ontologia che vediamo all’opera nella 194, se essa corrisponda a quella maschile, autarchica e individualista o a quella relazionale della vulnerabilità. E’ opportuno sottolineare, prima di procedere,  l’utilizzo – dichiarato da Cavarero –  di uno stereotipo del materno dato per scontato che, declinato in un certo modo, avrebbe il vantaggio di rendere efficace l’operazione che si prefigge e che consisterebbe nel mostrare, sulle tracce di Arendt, lo scarto fra verticalità e inclinazione, fra autonomia e vulnerabilità reinterrogando e sfruttando fino in fondo lo stereotipo materno nell’intento dichiarato di trasformare un pregiudizio in “una spregiudicata capacità di giudizio”. (Cfr. p. 25). Lo stereotipo, infatti:

 “non è sempre un mero ingombro al lucido lavoro della riflessione. Alcuni, come quello legato alla figura del materno, conservano, anzi, una grande potenzialità critica che vale la pena di scovare e far fruttare”.

Come dire che dalla scena “scena primaria” – che vede l’infante in posizione di totale dipendenza – la figura della madre, invece che essere assente o “latitante” com’è sempre stata a causa del pesante stereotipo oblativo  che si porta addosso”,  deve essere “transvalutata” per diventare la figura di cui è possibile “approfittare” così come Lonzi aveva  “approfittato della differenza”. Del resto, per prevenire fraintendimenti – che si sono peraltro puntualmente verificati – Cavarero aggiunge:

“Non si tratta, ovviamente di tematizzare la natalità e la maternità per se stesse, quasi fossero il luogo esclusivo del senso, la quintessenza di ogni relazione possibile o ideale. Né tantomeno si tratta di puntare su una ridicola infantilizzazione dell’umano  e una discutibile maternalizzazione dell’etica (…). Alla luce della verticalità che domina nella storia dell’ontologia, si tratta invece di cambiare registro o riposizionare lo sguardo, sforzandosi di immaginarla come una geometria di variabili posturali nella quale l’inclinazione assume un ruolo “modulare”.  (Ibid.)

E non si tratta neppure, come Cavarero precisa riferendosi a Vite precarie di Butler, di opporre una visione relazionale e una visione autonoma del sé o di apportare una “correzione” o un “innesto”, “correggendo l’ontologia individualista (e) innestandovi la categoria della relazione”,  ma si tratta:

“di pensare la relazione stessa come originaria e costitutiva ovvero come una dimensione essenziale dell’umano che (…) chiama in causa il nostro essere creature vulnerabili” e dipendenti di cui la condizione di vulnerabilità dell’infans incarna l’emblema”.

Si comprende il senso e lo scopo dell’impresa e la via per realizzarli:

“distillare geometricamente la retorica della maternità e sovrapporla come un foglio trasparente alla retorica del soggetto filosofico affinché la differenza fra i due modelli ontologici, etici e politici così convocati, prenda risalto”.

Di differenza dunque si tratta e non di opposizione fra due modelli ontologici. Sul rischio di una possibile confusione fra i due paradigmi, Cavarero si era già allertata in Le filosofie femministe. Si tratta di passare, insomma, dal modello individualista sostenuto dalla geometria verticalizzante del soggetto autarchico teorizzato dalla filosofia a un modello relazionale fondato sull’inclinazione il cui valore consiste per Arendt nel “portarci fuori dall’io” per sporgerci “all’esterno”. L’operazione può rivelarsi interessante anche per noi per capire, “cambiando di registro o riposizionando lo sguardo”  –  come Cavarero suggerisce –  a quale dei due paradigmi si ispira prevalentemente la 194. Va da sè che nel caso di affermazione del primo modello, ci troveremmo in presenza di ciò che Kristeva chiama “sessismo invertito”  incarnata dalla figura di Femina erecta destinata a riprodurre lo stesso modello che vorrebbe combattere:

“Come tutte le società, la contro-società si fonda sull’espulsione di un escluso (…). I movimenti rivendicativi moderni hanno spesso ripetuto questo modello designando un colpevole per preservarsi dalle critiche: lo straniero, il capitale, l’altra religione, l’altro sesso. Il femminismo non diviene al fondo di questa logica un sessismo invertito?” (J.  Kristeva, Le nuove malattie dell’anima)

L’esclusione teorizzata, generalizzata e indiscriminata “dell’altro sesso” prevista nel caso specifico della 194, riguarderebbe dunque l’uomo, il cui parere in materia d’aborto –  giustamente non vincolante spettando la decisone ultima alla donna – può essere però privato del diritto di parola a meno di una “sovrana” concessione da parte della donna. Se qualcuna/o si facesse solleticare dall’idea, decisamente peregrina, che si voglia con ciò trasformare l’uomo in “vittima”, sarebbe del tutto fuori strada: tutto quanto detto, infatti, sulla Femina erecta allude esattamente al contrario e dimostra che – senza saperlo  o volerlo –  si può diventare vittime di se stesse. Da ultimo e ancora proposito della sovranità dell’Io, Cavarero ci ricorda quella pagina di Woolf di Una stanza tutta per regalata – dice – alla filosofia, in cui “la fisionomia geometrica dell’Io” – “dritto”, “autosufficiente”, “solo”, “indipendente”, “dominante”, “mortifero” e prevaricante  –  “diventa una chiave fondamentale per decostruire il soggetto che abita la modernità” . (Ibid., p. 57)

Quale soggetto? Maschio o femmina che sia – Homo erectus o Femina erecta che sia, aggiungo (io).

4 risposte a “Femina erecta. “Approfittiamo”…del materno

  1. Il termine sovrane usato ad es. Nel numero di Leggendaria e della S.IL. no si riferisce a donna slegata da una relazione con altre donne e autosufficiente ma che vive con agio nel mondo proprio grazie a questa relazione. Relazione che esiste anche tra la donna incinta e il suo ventre. La 194 non è una vittoria delle donne, è un compromesso che ha permesso di far uscire allo scoperto l’aborto clandestino e che a tutt’oggi in Italia è disattesa in molti ospedali perché tra poco anche i portantini sono obiettori come lo sono molti farmacisti x la così detta pillola del giorno dopo

  2. Grazie per il commento. Siamo sufficientemente informate sull’idea di sovranità (e di “autorità”) circolante in alcuni ambiti cui lei fa riferimento. La nostra posizione al riguardo, come si evince dal testo e da altri saggi, condivide la critica avanzata da Cavarero nei riguardi di tali concetti. Del resto la sua presa di distanza da Diotima è storia nota e significativa di una differenza. La 194 non è una vittoria, certo, ed è precisamente per questa ragione che non può essere invocata – e spesso accade – come se lo fosse.

  3. Paola, leggo sempre con interesse grandissimo tutto ciò che trovo scritto da Lei..in questo caso, pur intuendo le giuste ragioni del suo argomentare./Le domando: per come eravamo qualche generazione addietro :la morte per infezioni in seguito ad aborti clandestini , il terrore di rimanere incinte senza pillola , senza educazione sessuale e senza antibiotici ,non trova che la legge 194 sia stato un passaggio obbligato per salvarci la pelle? (poi,certamente era meglio la depenalizzazione..) Con simpatia

  4. Cara Luciana, grazie innanzi tutto per le Sue parole. Forse lo è stato per come eravamo. Ma ora le cose, con i mezzi che ci sono, sono molto diverse e, come ho scritto da qualche parte: “Non rimane incinta chi non vuole” (salvo evidentemente casi di violenza, stupro). E possibile che la mia sia una visione ideale ma per me il ricorso all’aborto come a qualcosa di necessario dovrebbe/potrebbe, semplicemente, non esistere (salvo rari casi indicati). E non per ragioni di tipo moralistico dalle quali sono lontanissima ma perché l’idea stessa che delle donne debbano sottoporsi ad una sofferenza fisica e psichica accompagnata spesso spesso con gravi conseguenze quando hanno tutti i mezzi per evitarla, è per me ragione di sofferenza. Quello che trovo inaccettabile è che si possa considerare la 194 una specie di via libera all’aborto. Mi domando perché mai una donna dovrebbe sottoporsi a questa violenza se ha tutti i mezzi per evitarla?

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