giustificazioni

BRUNO
di Claudia Bruno /

Ieri c’è stato il penultimo seminario di Iaph Italia dedicato alla lettura di Simone De Beauvoir, Il Secondo Sesso. Il pomeriggio era incentrato sulla sezione che nel libro si chiama Giustificazioni. In queste pagine l’autrice traccia il ritratto di tre figure tipo di donne del suo tempo (il testo è del 1949): la narcisista, l’innamorata e la mistica, che fungono da “giustificazioni” per sfuggire al sentirsi niente, come se essere niente fosse un destino rispetto al quale una donna deve trovare dei modi per giustificarsi. E allora “la giustificazione diventa una strategia per ricevere l’essere da qualcun altro” ha detto Eleonora Mineo, che ha tenuto il seminario ieri e ha voluto ricordarci  come invece in Carla Lonzi (dove l’essere viene dalla relazione con un’altra, con altre) questo niente  diventi poi “un punto d’arrivo, una sottrazione di credito alla cultura e una conquista come condizione di autenticità”. Eleonora ci ha chiesto: “le donne oggi hanno bisogno di giustificazioni e di ricevere riconoscimento per non sentirsi che sono niente”?

Secondo me resta una domanda centrale, cruciale, essenziale anche per una donna nata dopo il femminismo, soprattutto se ha incontrato il femminismo. Perché l’automatismo ci spingerebbe a metterla in un angolo come un vestito vecchio, e rispondere che no, le donne oggi non hanno più bisogno di alcuna giustificazione per evitare di precipitare nel nulla. E invece io credo veramente che le cose non stiano in questo modo.  In primo luogo perché dentro il femminismo abbiamo dato per scontato, e continuiamo a farlo, che ricevere l’essere da qualcun’altra, di per sé non sia una giustificazione per sfuggire al niente, ma la conditio sine qua non della nostra credibilità. Nonostante la fatica che ognuna fa, o ha fatto, per liberarsi dall’introiezione dello sguardo di madri biologiche o simboliche, alla base delle nostre argomentazioni c’è l’assunto del femminismo che si è fatto maniera, e cioè che solo un’altra può confermarmi che esisto. Tuttavia, le condizioni di questa attribuzione di esistenza non sono mai discusse, e il “giudizio” resta la modalità prevalente attraverso cui attualmente le femministe, e molte donne, si danno o si tolgono credito. Ecco, è proprio dal giudizio che hanno origine le giustificazioni.

Il secondo motivo per cui secondo me non è vero che le donne oggi non hanno bisogno di giustificazioni e riconoscimenti per sfuggire alla percezione di sé come niente, è la relazione che una donna che ha incontrato il femminismo può avere con la sua presenza nel mondo e con la sua presa di parola pubblica. Questo sentirsi in dovere di rendere continuamente riconoscibile la sua parola e permanentemente visibile la sua presenza, mi dice di una giustificazione di fondo. Mi dice del terrore di tornare al niente come fosse un tradimento della storia. Non penso alla politica intesa come “potere”, penso alla femminilizzazione del lavoro, penso alla presenza massiccia delle donne nell’associazionismo e nel volontariato, e penso alla iper-militanza di molte donne che continuano a dire di voler rallentare e respirare, ma non rallentano e non respirano. Esserci, contare, vincere, farsi in quattro, dieci, mille pezzi, per mostrare che noi possiamo e sappiamo rifare il mondo e salvarlo. Avere continuamente un’opinione su quel che accade, dover per forza prendere parola per uscire dall’indifferenziato, usare le stesse espressioni per riconoscersi. Se mi vedi, se mi senti, se mi leggi, se mi ri-conosci, allora esisto. Poter fare questo è una conquista impagabile, doverlo fare per dimostrare di esistere è una giustificazione infinita. E le donne si giustificano, ci giustifichiamo, continuamente, con i corpi e con le parole. Le donne dubitano ancora di se stesse, dubitiamo di noi stesse, e quindi delle altre. Le donne non si danno abbastanza credito, non ci diamo abbastanza credito, e questo accade quando il credito è misurato sul giudizio e non sull’ascolto e sulla fede dell’altra, come di sé.

Nel seminario Iaph dedicato alla prostituzione Giorgia Serughetti ha detto qualcosa di molto importante a mio parere riguardo al nodo della libertà, ha detto: “io sono convinta che si debba accogliere come vere le voci delle donne quando rappresentano se stesse come persone autodeterminate rispetto a ciò che scelgono di fare, quello che ognuna di noi vuole per sé, che nessuna si arroghi il diritto di dire che c’è un autoinganno, una falsa coscienza, che in realtà tu non sei veramente autodeterminata”. Questo dovrebbe valere non solo per la prostituzione, ma sempre e per tutte. Tra donne, tra donne che si sentono femministe e donne che non si sentono femministe, tra femministe e femministe.

La percezione che ho invece è che il femminismo contemporaneo da un certo punto in poi abbia instaurato una sorta di ipercorrettismo che di fatto tende ad allontanarci dal nodo dell’autenticità e dell’autodeterminazione e ci avvicina molto più alla giustificazione sociale e psichica di cui parlava Beauvoir a proposito di tutt’altri “tipi” e situazioni.

Anni fa durante un ritiro in Slovenia, Luce Irigaray disse dell’importanza del silenzio. Mi ricordo che scattai sulla sedia e pur dovendolo spiegare in una lingua che non era la mia mi sentii di prendere parola e dire che le donne erano state zitte per secoli, e che forse non era questo il tempo per dare valore al silenzio, perché non è mai troppo chiaro se una donna sta zitta perché vuole o perché è costretta dal contesto a farlo. Ci fu una serie di teste che annuivano. Invece Irigaray rispose: “questa è veramente la tua risposta a quello che ho detto, o stai pensando per automatismo?”. Io ovviamente risposi che era proprio la mia risposta. Irigaray mi disse: “beh, se non hai ancora chiara la differenza che passa tra un silenzio coltivato e un silenzio imposto hai ancora strada da fare”.

Ieri mi è tornato in mente questo scambio, a cui dopo quattro anni riesco forse a dare un senso. Tra me e me ho molto presente ora cos’è un silenzio coltivato, ma tra donne il confine tra silenzio coltivato e silenzio imposto non è affatto chiaro, non ancora. Nell’immaginario su di noi, il lusso di un’assenza temporanea o permanente dal discorso che non cancelli l’esistenza, non ci compete. Pretendiamo di dare e ricevere giustificazioni, comunque. Una donna o smette di esistere, torna al niente, al suo misero destino animale e immanente, oppure risponde impegnandosi nella sua continua dimostrazione di esistenza. Mi chiedo dove risiede la libertà in questo meccanismo. Perché se c’è un’eredità che il femminismo come movimento e pensiero ci ha lasciato è di chiederci continuamente se è qui che vogliamo essere, se è questo che volevamo dire o fare, e se volevamo farlo proprio così o in un altro modo.

La domanda è la stessa ma le risposte cambiano, ad ognuna il compito di rispondere dopo che la risposta arriva e non prima. Lasciar risuonare è diverso da annuire.

Io voglio essere una donna libera, non una femminista adeguata.

L’autenticità toglie le difese e rende più vulnerabili, perciò in situazioni poco chiare, viene scambiata per sprovvedutezza. Le persone più legate alla cultura e che ad essa restano attaccate come a una conquista irrinunciabile, considerano questa qualità con bonomia o con fastidio, sempre con la presunzione di avere fatto più strada, di essere più a posto. Sono proprio loro che etichettano sbrigativamente come ‘istintiva’, ‘naive’ (con evidente significato restrittivo) colei che, per voler essere se stessa, si apre presentandosi nuda e priva di impalcature. Ci vuole più coraggio a mostrarsi spogliate che a barricarsi dietro la parola consacrata”.
Maria Grazia Chinese, Dell’autenticità (È già politica, Scritti di Rivolta Femminile, 1977)

Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere”.

Wislawa Szymborska, Sotto una piccola stella

L’immagine è un’opera di Dominique Fortin

testo di Claudia Bruno

https://www.facebook.com/laboratorio.donnae?fref=ts

Claudia Bruno

scopro ora che Paola Zaretti ha citato le mie parole a Bologna, accanto a quelle di Carla Lonzi e Angela Putino. Non conosco Paola, nel senso che non abbiamo ancora mai avuto uno scambio diretto né dal vivo né virtualmente, ma vorrei ringraziarla, non per autocompiacimento, ma perché proprio in un momento in cui sto mettendo completamente in discussione il mio stare dentro il femminismo, il suo intervento mi risuona in molti modi, è un segnale che mi dà un po’ di senso, qualcosa che ancora una volta lungo questo cammino fuori dai binari mi dice che quando cominciamo a “sentire” come stiamo nelle cose non si tratta mai solo di una questione personale e che la lotta quotidiana per l’autenticità – che sta fuori da ogni rassicurazione perché comporta sempre il rischio del non riconoscimento, vale a dire del non essere immediatamente riconoscibile – non è altro che un atto d’amore per il mondo in tutte le sue forme… o almeno io così la intendo. se un giorno il mondo dovesse riconoscermi, vorrei che riconoscesse quella che sono e non un’altra, e questo potrà avvenire solo correndo il rischio di non essere riconosciuta.

Una risposta a “giustificazioni

  1. Il testo di Claudia sollecita una serie di importanti riflessioni cui dar corso – a cominciare dal titolo: “giustificazioni”.
    “… dentro il femminismo ” – si dice – abbiamo dato per scontato, e continuiamo a farlo, che ricevere l’essere da qualcun’altra, di per sé non sia una giustificazione per sfuggire al niente, ma la conditio sine qua non della nostra credibilità.” Si vuole dunque dire che ricevere l’essere da qualcun’ altra, non basta per essere e per essere credibili e che una tale pratica è un modo – illusorio, aggiungo io – per sfuggire al niente.
    Si dice, ancora, che la lotta per l’autenticità è incompatibile con il riconoscimento…di qui il paradosso: si può essere riconosciute per quello che si è correndo il rischio di non esserlo, di essere dunque misconosciute.

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