Arché

di Leda Bubola /

images (2)1^ Parte

Non si può dire che le nostre vite non siano spezzettate, lasciamo frammenti di noi in ogni quando e in ogni dove tanto da renderci molto difficile il raccoglierli in una dimensione che, se non vuole essere unitaria perché l’Uno è dispotico, vorrebbe almeno concepire lo stare insieme delle parti, come processo e non come sistema, un solo istante o qualche delle nostre vite, della nostra quotidianità.

Syn-ballein, questa  non è altro che la funzione del simbolo, che non è di rinviare ad una trascendenza che sta nell’al-di-là, in un Dio specchio per l’uomo, o una Dea specchio per la donna, ma ad una trascendenza che sta nell’al-di-qua, ovvero dentro di noi, e che ci rende ciò che siamo. Una volta appreso che il cominciamento è in noi, non come appartenenza ma come processo organico di farsi e disfarsi, non resta che intraprendere il cammino della riappropriazione di ciò che, se non trova espressione, pone fine alla vita.

È questo il risultato di un atteggiamento incomprensibile a meno che non si scelga per un’ottica di genere, non un’ottica che trovi un senso che non c’è, ma un’ottica analitica che, nella pur mancanza di senso in cui l’umanità si trova, riesca a cogliere il cuore di un problema che riguarda tutte e tutti noi, in qualsiasi ambito della nostra vita.

“Se c’è qualcosa su cui, da campi disciplinari e da prospettive diverse, varrebbe la pena di focalizzare l’attenzione, è l’intimo legame che tiene insieme patriarcato, clinica del maschile e pulsione di morte. Sarebbe opportuno attraversare e connettere con il necessario rigore, categorie cliniche, esperienza clinica e categorie filosofiche: nevrosi ossessive e paranoia da un lato e metafisica dall’altro a partire dalla nozione freudiana di pulsione di morte sganciata dalla sfera esclusiva del biologico e collocata al suo giusto posto di “concetto limite fra lo psichico e il somatico”. Chissà che non sia giunto il momento di arrischiarsi a lavorare sulle “patologie delle comunità civili” come auspicato da Freud..”(P. Zaretti, La psicoanalisi è donna?)

 Ma, per far questo, non si può prescindere dalla storia e da ciò che c’è stato prima di noi, non si può prescindere da quel fenomeno sociale, politico e culturale che ha reso possibile un radicale cambio di prospettiva, ovvero, il femminismo, fenomeno sociale che risulta, anche a seguito di studi recenti (http://femminismoinstrada.altervista.org/psicanalisi-e-femminismo/) sempre più allacciato con quell’area del sapere maschile con cui ha un rapporto di amore e odio, ovvero, la psicanalisi.

Il femminismo ha aperto uno spazio di possibilità di espressione, espressione di una violenza perpetrata fin dall’inizio dell’umanità intesa filosoficamente con l’inizio della filosofia, ovvero la filosofia greco antica. Si tratta di una violenza – connessa con la pulsione di morte individuata da Zaretti che richiama la categoria di morte evocata da Arendt e ripresa da Cavarero – a volte non facilmente identificabile in questi termini, ovvero, come una violenza dell’uomo nei confronti della donna. Basti pensare a Platone che nella Repubblica propone per le donne la possibilità di avere la stessa educazione degli uomini e di ricoprire cariche politiche-sociali al pari degli uomini.

“L’inferiorità femminile (convinzione indiscussa nella cultura greca) dipendeva soltanto, secondo Platone, dalla mancanza di un’adeguata educazione delle donne, vincolate com’erano alle mansioni, da svolgere nel chiuso della “casa”, della procreazione e dell’allevamento della prole. Ma non è forse vero che le femmine dei cani da caccia o da guardia partecipano a queste mansioni a fianco dei loro maschi? Non c’è alcuna ragione “naturale” perché ciò non debba accadere anche nel genere umano. Se adeguatamente educate, le donne migliori possono venire integrate nel gruppo dirigente della nuova città al fianco degli uomini migliori: “Non vi è dunque nell’ambito della gestione della città alcuna occupazione che sia propria della donna perché è una donna, né dell’uomo perché dell’uomo, ma poiché le doti naturali sono parimenti disseminate in entrambe queste forme di vita, secondo natura la donna deve partecipare a tutte le funzioni, e a tutte lìuomo”, benché la donna sia fisicamente in ogni caso più debole dell’uomo”. (Vegetti, 15 Lezioni su Platone, corsivo mio; Platone, Repubblica, 455 d)

Platone, dunque, fu il primo a ipotizzare proprio quel movimento integrazionista neo-paritario che va tanto di moda tra le giovani femministe oggi, come ben ci ricorda Donatella Proietti (http://femminismoinstrada.altervista.org/tavolette-da-riscrivere-molte/).

Facile farsi abbindolare da una tale proposta se non si tiene conto dello sfondo in cui queste parole trovano fiato, ovvero, nello sradicamento dell’oikos, nell’eliminazione di quel pericolo che, tra tutti, è considerato il maggiore, il pericolo che si creino valori privati, ovvero valori che non trovano riscontro nella realtà della polis ma, solamente, nella zona privata degli affetti.

“Perché ci sia unità della città occorre evitare che i membri del suo gruppo dirigente “la spezzino parlando del ‘mio’ non in riferimento alla stessa cosa ma a cose diverse l’uno dall’altro – sicché questo trascinerà nella propria casa ciò di cui ha potuto impadronirsi separatamente dagli altri, quello in una casa diversa e sua propria, e considereranno come propri moglie e figli diversi, che, vivendo essi nella privatezza, procureranno piaceri e dolori privati –, invece di condividere un’opinione su ciò che è ‘proprio’, tenendo tutti allo stesso fine, in modo da provare nella misura del possibile le stesse esperienza di dolore e di piacere.”” (Vegetti, 15 Lezioni su Platon; Platone, Repubblica, 464 c.d)

La diversità è ridotta ad unicità nell’atto fondante della polis greca, l’eguaglianza si basa su di una chiara scissione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico con una modalità estremamente violenta. Non dico niente di nuovo.. Radicare l’oikos nella città non può essere che un atto rivoluzionario e questo è l’intento di Oikos-Bios, centro filosofico di psicanalisi di genere antiviolenza.

Senza il femminismo, quell’oikos sradicato, ovvero quella privatezza degli affetti, quell’intimità valoriale tutta femminile, non avrebbe uno spazio per esprimersi, rimarrebbe, come lo è stato per secoli e secoli, nel privato delle famiglie, nascosto probabilmente dietro i successi sociali e politici di molti uomini e ormai oggi anche di molte donne.

In quest’ambito, il motto femminista “il personale è politico” molte, troppe volte banalizzato, acquista una valenza rivoluzionaria e radicale che nessun altro movimento politico ha mai avuto. E non è un caso se il suo furore, la sua hybris, sia stata spenta con la violenza così presto proprio da chi ne aveva dapprima innescato la miccia.. dunque forse troppo rivoluzionario?

Non tutti i luoghi femministi si fondano su un radicale spostamento di prospettiva, come quello appena delineato, – emerso negli anni d’oro del femminismo come uno spunto frettolosamente  messo a tacere – e che qui riproponiamo, anzi, tutt’altro; lo sappiamo in pratica più che in teoria.

Lo sappiamo per un comune sentire che tutte noi, aderenti e fondatrici di questo luogo e spero anche lettrici, condividiamo. Molto donne femministe predicano bene, talvolta benissimo, e razzolano male, incredibilmente male. È dunque in questo scarto, solo apparentemente inspiegabile, uno scarto che noi stesse, in modi diversi, abbiamo avvertito nelle nostre vite, che si fonda questo luogo. È sul mito dell’uomo di cui così bene ci avverte Carla Lonzi che vogliamo indagare per recuperare quella miccia di potenziale rivoluzionario ed innescarla. (http://femminismoinstrada.altervista.org/la-risoluzione-del-mito-delluomo-e-la-fine-del-femminismo/)