Un supplemento critico alla critica di Saraceno

MARIA MICOZZI

di/Paola Zaretti Un supplemento critico alla critica di Chiara Saraceno

Alle considerazioni critiche espresse di recente da Chiara Saraceno in UOMO E DONNA. RADICALE ALTERITA’ O MULTIFORME PLURALITA’ in merito a UOMINI CHE ODIANO IL MISTERO DELLE DONNE (RECALCATI, Repubblica) e da noi  diffuse e condivise in Tabula rasa, vorrei aggiungerne altre che riguardano, in particolare, un frettoloso passaggio in cui l’autore in questione si pronuncia sul ”rifiuto”, da parte della donna, della propria “femminilità” dandone una “lettura” piuttosto confusa e superficiale  che suscita, in chi legge, non poche perplessità:

Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri.

A parte l’identità inizialmente stabilita fra “alterità” e “femminilità” – già criticamente evidenziata da Saraceno – l’oggetto da colpire sembra essere, per l’autore, il “rifiuto” della donna della propria “femminilità”. La “difficoltà” della donna cui infatti si allude, viene fatta derivare da questo rifiuto ed è proprio questo rifiuto “a consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta la uccide”. Ad apparire evidente nel primo dei due enunciati riportati in grassetto, è il nesso di causalità  arbitrariamente stabilito fra il rifiuto della donna della propria femminilità e la violenza maschia che uccide. Come dire che l’origine, la “causa” scatenante della violenza dell’uomo nei riguardi della donna, va messa in conto a questo suo rifiuto che finisce così per assumere, di fatto,  lo stigma di un rifiuto colpevole e colpevolizzante nei riguardi della donna. Se ne deve logicamente dedurre che per evitare umiliazioni, offese, violenze e massacri, basterebbe che le donne, invece che rifiutare la propria femminilità, la accettassero. Ricordo a questo proposito e per inciso, che secondo il dettato della dottrina lacaniana – cui l’ autore si ispira – tale posizione consisterebbe, per la donna, nell’ accettarsi come “oggetto del desiderio dell’uomo”.

Se esiste dunque per le donne, a suo dire, una buona ragione, una ragione Vitale – la propria Sopravvivenza – per non rifiutare la femminilità, ce n’è almeno un’altra, di ragione, per condannare quel rifiuto che, in definitiva, sarebbe semplicemente frutto di un loro errore di valutazione: l’errore di “credere che essere una donna significhi consegnarsi passivamente a un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri”:

La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri

In verità, la “credenza” – impropriamente attribuita alle donne – cui l’autore si riferisce, è una credenza tipicamente e squisitamente maschile. Sono gli uomini infatti, e non le donne, a credere che essere una donna significhi essere un “oggetto” consegnabile a un uomo, sono gli uomini a pensare alla donna quoad matrem, a una donna dunque aderente, in quanto madre, al modello materno sacrificale. Il “rifiuto del femminile” in cui il “nostro” si dibatte, si attorciglia e si confonde sperando di confonderci, ha, come Lonzi ci insegna, ben altre radici e complessità. Ne abbiamo trattato ampiamente http://femminismoinstrada.altervista.org/il-senso-della-femminilita-come-rischio) a partire da lei e dal suo “senso della femminilità” ma su questo  “irriducibile femminile” – che non risponde alle aspettative dell’uomo ma di cui l’uomo crede di sapere mentre “non sa di non sapere” – ascoltiamo anche Putino il cui “senso” del femminile è, come per Lonzi, equidistante dalla servitù e dal potere, dalla posizione di donna oggetto e dalla posizione alienata di donna identificata all’uomo e complice del di lui potere:

Come donna sono in lotta con questi aspetti riuniti di servilità e potere: io non sono simile a quell’uomo che ha prodotto tale discorso, perciò io mi dico in quanto irriducibile del discorso (…). Dell’irriducibile femminile egli non sa di non sapere, tranne qualche eccezione ma, in ogni caso, questo irriducibile non risponde alle sue aspettative; non serve. (A. Putino) 

Le donne sono irriducibili al discorso psicanalitico prodotto dagli psicanalisti i quali, invece di sapere – saggiamente, come insegnava Socrate – di non sapere, non sanno di non sapere ed è per questo che credono di potersi occupare della “cura” delle donne.