La “psicanalisi dei padri” può “curare” le donne?

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di/ Paola Zaretti La psicanalisi dei padri può “curare” le donne? Pubblicato a suo tempo ne Il Paese delle donne

Signore e Signori! E’ mio dovere informarvi che la mia invenzione, la psicoanalisi, è valida soltanto per i signori uomini essendo la teoria sull’Edipo femminile del tutto infondata. (S. Freud)

Come si compie lo sviluppo corrispondente nella bambina? Il nostro materiale diventa qui – incomprensibilmente – molto lacunoso. (S. Freud, Il tramonto del complesso edipico)

Purtroppo possiamo descrivere questo stato di cose solo per quanto riguarda il maschio, ci manca una piena conoscenza dei corrispondenti processi che hanno luogo nella bambina. (Freud, L’organizzazione genitale infantile)

L’Altro come tale – resta…nella teoria freudiana un problema, quello che si esprime nella domanda che Freud ripeteva – Che vuole una donna? (J. Lacan, Ancora)

Ecco alcune risposte secche, le prime tre di Freud, l’ultima di Lacan, al nostro quesito.

Beata onestà, vien da dire, in tempi di povertà e di millanterie psicanalitiche che giovano assai poco a una disciplina in fase agonizzante, sempre più attorcigliata su se stessa, sulla ripetizione asfittica della sua teoria, incapace di rigenerarsi e di stare al passo con i tempi – i tempi delle donne considerate, da sempre, dagli psicanalisti come oggetti da curare – e con le trasformazioni sociali da esse operate attraverso quella rivolta senza sangue avviata negli anni ’70 per dire NO a un’oppressione plurisecolare perpetrata da un sesso nei confronti dell’altro. Eppure, nonostante questa ed altre affermazioni analoghe con cui Freud, prossimo a congedarsi dalla vita, getta la spugna con coraggio e onestà, questa disciplina si è sempre preoccupata e continua a preoccuparsi  delle donne e delle loro “patologie” al punto tale che il messaggio che passa nell’inconscio collettivo e nel sociale, è che la nevrosi, il disagio psichico, siano un marchio esclusivamente femminile. Di questa smisurata e non disinteressata passione “clinica” mostrata dalla psicanalisi, sin dai suoi esordi, nei riguardi delle donne quale oggetto privilegiato di studio, continua a nutrirsi lo sguardo avido di molti psicanalisti, spostatosi, negli ultimi vent’anni, sull’anoressia femminile a fronte di un silenzio catatonico e omertoso sullo psichismo di maschi uxoricidi, di assassini e stupratori che quotidianamente agiscono dentro e fuori le mura domestiche. Le statistiche degli ultimi anni sono agghiaccianti e parlano chiaro. Pare proprio che per alcuni di loro, di formazione lacaniana, – avvezzi a gingillarsi fra Il nome del Padre e il fallo, fra il godimento fallico dell’idiota e il godimento femminile ad di là del fallo, fra il tout e il pas-tout e una madre-femmina orrifica, un coccodrillo dalle fauci spalancate pronta ad inghiottirli – tutto ciò che sta quotidianamente accadendo nella relazione fra i sessi, sia cosa di poco conto. E non si vede d’altronde perché mai questa relazione dovrebbe interessarli dal momento che Lacan con la nota formula Non c’è rapporto sessuale ha teorizzato, con buona pace di tanti, la relazione che non c’è.

Non che abbia avuto torto nell’affermarlo, sia chiaro, non che non sia rigorosamente vero che a mancare, nella relazione fra i sessi, è proprio la relazione – che non va confusa con l’atto sessuale – ma ciò su cui si tratta di indagare sono le ragioni profonde di un dis-ordine simbolico monosessuato e strutturato in modo tale da escludere al proprio interno la rappresentabilità di uno dei due sessi e, con essa, la possibilità stessa della relazione, la cui esistenza esige, necessariamente, la presenza di almeno due termini:

L’ordine simbolico patriarcale si fonda su una logica assai singolare che, a dispetto del fatto che gli esseri umani appartengono all’uno o all’altro sesso, assume il sesso maschile come paradigma dell’intero genere umano (…). Nell’ordine simbolico patriarcale, la differenza sessuale non viene perciò intesa come una differenza che divide gli esseri umani in uomini e donne, bensì come una differenza che fa differire le donne dagli uomini. Visto che sugli uomini – anzi sull’Uomo che tende a sostanziarli in un concetto universale – si modella l’essere umano per eccellenza, il differire delle donne dagli uomini diventa una differenza che corrisponde a una mancanza o inferiorità.  (Cavarero-Restaino, Le filosofie femministe)

L’interrogativo contenuto nel titolo di questo incontro La psicanalisi del padri può curare le donne? suona dunque come un campanello d’allarme per chi, peccando d’ingenuità, crede che una teoria e una pratica inventate da uomini sulle donne e sulla loro sessualità possa essere davvero all’altezza di “curare” le donne, di comprendere fino in fondo che cosa significhi nascere donna, vivere in un corpo di donna, accogliere qualcuno/a all’interno del proprio corpo abitando, da escluse, un luogo costruito a misura d’uomo. Tale è, infatti, indiscutibilmente, l’ordine simbolico maschile in cui viviamo – un luogo di inappartenenza per le donne, evocato dalla bellissima figura femminile ritratta in un quadro di Maria Micozzi intitolato L’inappartenente e dalle parole di Angela Putino che voglio qui riportare:

Come donna sono in lotta con questi aspetti riuniti di servilità e potere: io non sono simile a quell’uomo che ha prodotto tale discorso, perciò io mi dico in quanto irriducibile del discorso (…). Dell’irriducibile femminile egli non sa di non sapere, tranne qualche eccezione ma, in ogni caso, questo irriducibile non risponde alle sue aspettative; non serve. (A. Putino)

Siamo dunque di fronte a un discorso dominato dal primato assoluto di un solo simbolo – il fallo – a rappresentare due sessi e a un Luogo così alieno dal riconoscimento di metà del genere umano, che Virginia Woolf, ne Le tre ghinee, pensa bene di fondarne un altro cui dà il nome di La Società delle Estranee a indicare l’abissale distanza ed estraneità delle donne ai modelli di comportamento virili, guerrafondai, ai cerimoniali ossessivi, alle gerarchie e alle medaglie al valore che caratterizzano i luoghi del maschile – esercito, chiesa, università, politica – che di tale ordinamento sono alcune delle tangibili emanazioni. Ed eccone la descrizione, esemplare:

Eccoli, i nostri fratelli che sono stati educati nelle scuole private e nelle due università; salgono quelle scalinate, entrano e escono da quelle porte, ascendono a quei pulpiti, pronunciano orazioni, impartiscono lezioni (…). E’ sempre uno spettacolo solenne, un corteo, come la carovana del Sultano che attraversa il deserto. Bisnonni, nonni, padri, zii, tutti hanno percorso quelle strade, con la toga indosso, con la parrucca in testa, alcuni con fasce e nastri sul petto (…). Uno era vescovo. Un altro giudice. Uno era ammiraglio. Un altro generale. Uno era professore all’ Università. Un altro era medico (…). E’ uno spettacolo solenne questo corteo (…). Abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? (…). E, soprattutto, dove ci conduce il corteo degli uomini colti? (…). Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? (…).  Dove, in breve, ci conduce il corteo degli uomini colti?

“Abbiamo voglia di unirci a quel corteo?”, si chiede Virginia, dal momento che saremo costrette, in tal caso, a “indossare certe uniformi”, e a portare attorno al collo la scritta “per Dio e per l’Imperatore”? O Per Lacan – aggiungerei, dato il contesto, e avendo in mente il titolo di un libro scritto da un suo allievo per immortalare il Maestro. Le donne nascono, crescono e vivono, dunque, dentro una Casa costruita dall’Uomo, la sola che vanti uno statuto simbolico riconosciuto e hanno due possibilità: abitarla uni-formandosi, indossando cioè le uni-formi maschili o disertarla costruendone un’altra, più rispondente ai loro bisogni e desideri. Inutile dire che la prima delle due vie è la via più semplice – si fa per dire – ed è la via imboccata dall’ “isteria” che lungi dall’essere una “malattia” in senso clinico-psichiatrico, è l’effetto di un “errore” –  per dirla con la teologa Ina Praetorius – di una sofferenza, dico io, che affligge  il pensiero occidentale che da Platone a Hegel, ha pensato di costruire un mondo amputato della metà del genere umano.

Le donne non sono malate, sono, piuttosto – ed è questo a far problema –  inaddomesticabili  per “essenza”:

Questa forza, questo inaddomesticato, è per la donna accosto alla sua più intima essenza, lei ne sente la vibrazione e, pur scoprendovi una felicità non individuale, è così fusa ad esso da accorgersi di sé come unica vivente in cui questa intensità si esalta. L’uomo ha voluto che l’inaddomesticato si sottomettesse, perciò lo ha visto come un indistinto: ha letto, in quanto non si addomestica, un divenire folle, sfrenato, che necessitava di assumere, per poter assumere una forma, una colpevolezza (…). Quando una donna accetta per sé una finalità offerta dal di fuori, l’equilibrio è ceduto, trapassa: non si vede equilibrio che nella legge che piega. Lei stessa, svuotata di sé, cade in un oscuro e cupo indistinto, quello in cui la voleva la legge esterna per giustificare la sua imposizione (…). Noi, d’altra parte, riusciamo a vedere solo tenendoci saldamente al nostro frammento inaddomesticato. Senza questo asteroide sotto i piedi non c’è punto di avvistamento. Avvistare è fare corpo, ma contemporaneamente è tenersi fuori dai corpi, è fare contesto, ma stando fuori dai contesti. Per trovar radici occorre sradicarsi. C’è una mira in questa forza guerriera di inaddomesticamento che non riesce a farci sostare in nessun asteroide. Essa ci volge, chiede che le nostre teste abbiano capacità di farsi rivolgere a un aperto. Questo non è il vuoto in cui galleggiano piccoli pianeti confusi o balbettanti, è la visione di un mondo di differenza, non agglomerato di diversità, ma cosmo: insospettato, sorprendente avvicinarsi, affiancarsi, relazionarsi. Questo cosmo non sarà visibile secondo cosmologie appartenenti ai sistemi della legge. (Putino)

Di qui l’esortazione di Putino di “Non addomesticarsi alla confessione”. E i confessionali – ricorda – “sono molti: quelli morali, quelli psicanalitici, quelli filosofici (…)”. L’ Assurda condizione della donna nel mondo, che ho definito tragica, viene ben illustrata anche da Stefano Segre:

da parte del maschio – scrive – non c’è nessuna spinta diretta, che parta da lui stesso “medesimo” a mettersi in crisi, in discussione (…). Il bisogno non c’è perché c’è identità fra lui e il mondo circostante: realizzarsi in esso vuol dire infatti realizzare se stesso. Esattamente il contrario di quello che accade per la donna, per la quale realizzare se stessa nel mondo che la circonda vuol dire negarsi come donna, trasformarsi in maschio.

Identità per l’uno, dunque, con il mondo circostante, con l’ordine simbolico, incompatibilità e necessità, per l’altra, di operare su di sé una metamorfosi trasformandosi in maschio: ecco le due rispettive posizioni che danno conto da un lato del disinteresse dell’uomo a mettersi in discussione e, dall’altro, di quella autonegazione e alienazione della donna che tanta parte ha nelle diverse declinazioni della sofferenza femminile: isteria, anoressia, bulimia attacchi di panico e depressioni, determinate, in larga misura dal fatto di doversi quotidianamente adattare al gioco maschile di due identità schizofreniche:

Una è quella che le dichiara uomini a tutti gli effetti giuridici e si aspetta perciò che si comportino come gli uomini. L’altra è quella che le dichiara donne a tutti gli effetti pratici e simbolici e si aspetta perciò che si comportino come le  donne. Esse devono pertanto scegliere se “far carriera” nel mondo dei poteri, uniformandosi a un paradigma di comportamento competitivo modellato sull’identità maschile, oppure se aderire al naturale ruolo femminile nel mondo domestico. Spesso, come si sa, fanno l’una e l’altra cosa, subendo i reciproci svantaggi causati da entrambe le posizioni. (Cavarero, Le filosofie femministe)

Occorre precisare che questo processo di trasformazione della donna in uomo – che nella vulgata psicanalitica, viene liquidato come “isteria” – non è un processo naturale, ma una necessità strutturale derivante da un simbolico il cui carattere, come ben rilevato da Irigaray  è rigorosamente omosessuale, non in senso necessariamente erotico – precisa Cavarero -, “ma nel senso che l’unico protagonista di quest’ordine ha un solo sesso”.  Di qui l’assurda posizione della donna e la domanda cruciale e quanto mai fondata, posta dall’isteria:

“Sono un uomo o una donna?” Perché una donna dovrebbe porsi una simile domanda?

Ora, per tornare all’interrogativo posto dal titolo La psicanalisi dei padri può curare le donne? – interrogativo qui limitato a un solo genere ma che riguarda, in modo non meno rilevante, l’universo maschile – dobbiamo innanzi tutto chiederci se e in che misura la teoria psicanalitica – considerata nelle sue diverse varianti di Scuola: freudiana, lacaniana, junghiana o altro ancora – e le varie teorie e pratiche psicologiche e psicoterapiche cognitiviste e comportamentiste diffuse sul mercato, si collochino dentro o fuori dal sistema di pensiero androfallocentrico di cui la nostra “cultura” è permeata. La questione – si comprende – è di capitale importanza: come potrebbe una disciplina incapace di mettere radicalmente in discussione i fondamenti di un sistema di pensiero che ha costruito un mondo amputato della metà del genere umano e dunque incapace di riconoscere l’esistenza di una relazione fra i sessi, autoproclamarsi agente di cura di uomini e donne e delle loro difficili relazioni quando è proprio all’interno di quel sistema che la relazione viene negata? In altre parole, è possibile utilizzare un sistema di oppressione per uscire dall’oppressione? Non sono forse il mito della virilità e della forza, la guerra, la furia di possesso, di conquista e di potere, la prevaricazione e la violenza esercitata dall’uomo sulla donna gli effetti prevedibili e tangibili di un ordine simbolico costruito su quel primato maschile del pene-fallo che trova in Freud uno sei suoi sostenitori?

Per entrambe i sessi c’è un solo genitale degno di essere preso in considerazione, quello maschile: non siamo dunque in presenza di un primato dei genitali ma di un primato del fallo. (Freud, L’organizzazione genitale infantile)

E non ha forse ragione, Judith Butler – critica anche nei riguardi di Lacan e di una teoria che nonostante gli sforzi dei suoi seguaci resta all’interno del sistema di pensiero fallocentrico – a domandarsi:

Dobbiamo accettare la priorità del fallo senza mettere in discussione l’investimento narcisistico attraverso il quale un organo, una parte corporea, è stato elevato/eretto a principio strutturante e centralizzante il mondo?

Dovremmo forse accettare quel principio strutturante e centralizzante il mondo che faceva dire a Freud:

La mascolinità riunisce in sé le caratteristiche del soggetto, dell’attività e del possesso del pene, la femminilità si assume quelle dell’oggetto e della passività. (Freud, L’organizzazione genitale infantile)

Sono questi alcuni interrogativi preliminari a ogni possibile discussione sull’argomento a meno che non si voglia continuare a rimuovere il problema di fondo riproponendo formule trite e ritrite finalizzate alla conquista di un pubblico considerato tanto più manipolabile quanto meno provvisto degli strumenti necessari a valutare criticamente i saperi supposti messi in campo. Prima di procedere, prima di definire se la psicanalisi e altre pratiche affini stanno dentro o fuori da quest’ordine simbolico androcentrico e discriminante nei riguardi delle donne, è opportuno almeno ricordare alcuni dei fondamenti di tale ordine, alcuni dei suoi meccanismi di funzionamento per dar conto della misura macroscopica della sua estensione e pervasività. Per fornirne qualche squarcio – il minimo esigibile in questo contesto – utilizzerò alcuni passaggi luminosi messi a punto da Cavarero, la filosofa che abbiamo avuto il piacere di ospitare durante il primo dei nostri  incontri e che considero la migliore in assoluto in Italia, per il rigore e la lucidità che contraddistinguono i suoi scritti sull’argomento:

Talmente palese, esteso e pervasivo è il fenomeno dell’ordine gerarchico patriarcale, che l’indagine su di esso consente alla prospettiva femminista di spaziare a tutto campo. I diversi aspetti dell’androcentrismo si prestano infatti a un’analisi dettagliata, qualsiasi sia l’epoca e la disciplina prescelta. A seconda delle varie discipline, si possono così agevolmente puntualizzare gli effetti del sistema fallogocentrico e  chiarire il funzionamento dei suoi meccanismi. 

Una di queste discipline – sottolinea Cavarero – riguarda, per esempio, il campo del diritto in cui “la lettera del diritto è smentita dalla realtà”, in cui “il principio di uguaglianza” è incoerente “nell’aspetto formale che contraddice la sua originaria logica esclusiva mediante una tardiva inclusione”. In effetti, la lettera del testo costituzionale, invece che dire: “tutti i cittadini sono uguali senza differenza di sesso” , dovrebbe dire – visto  e considerato che i cittadini sono uomini – “tutti gli uomini sono uguali senza differenza di sesso”. “E” – prosegue Cavarero – “visto che non conta la differenza di sesso, dunque anche le donne sono uomini”. Una delle discipline cui la filosofa allude, è proprio la psicanalisi in cui le impronte del fallocentrismo sono ben riconoscibili nella teoria come nella pratica e nella formazione unisex impartita all’interno delle istituzioni tradizionali. Queste impronte si fanno riconoscere dal fatto di assumere il sesso maschile come paradigma dell’intero genere umano, dalla presenza di un’economia binaria fondata sulla logica del medesimo (Irigaray), dal primato assegnato al fallo anche quando si cerca maldestramente di distinguerlo dall’organo maschile  con cui viene invece spesso  identificato. A proposito dell’economia binaria che governa l’ordine patriarcale e che procede per opposizioni, dualismi e gerarchie, Cavarero ci ricorda che tale economia non è il luogo di autorappresentazione dei due sessi del genere umano ma il luogo di autorappresentazione del sesso maschile in cui l’uomo rappresenta sia se stesso che la donna posizionandola come Altro dall’uomo e per l’uomo. La formula lacaniana “La donna è per se stessa l’Altro che è per l’uomo” ben riassume questa posizione.

Con quest’ultimo riferimento a Lacan possiamo entrare meglio in argomento avendo rappresentato Lacan, per una certa parte del  femminismo nostrano, un punto di riferimento alternativo a Freud e al freudismo. Si è pensato, insomma – e c’è chi ancora lo pensa – che la teoria lacaniana sul femminile abbia operato, rispetto alla visione freudiana, una vera e propria rivoluzione dimenticando la cacciata di Luce Irigaray dall’Ecole freudienne fondata da Lacan, “per mancata fedeltà a un solo discorso”. A parte il fatto che a definirsi “freudiano” è stato lo stesso Lacan, viene da chiedersi perché delle donne, con anni di pratica femminista e interessate, negli anni 70-80 alla promozione e alla diffusione in Italia  del pensiero della differenza di Irigary  – che ha mostrato e contestato l’impianto sostanzialmente fallocentrico della teoria lacaniana – abbiano contribuito a dare spazi  di parola a certi suoi seguaci che sulla sofferenza delle donne hanno costruito la loro fortuna. La teoria lacaniana, infatti, come si può facilmente evincere dalle parole di una lacaniana “ortodossa”, non è affatto meno fallocentrica di quella freudiana ma si è astutamente limitata a valorizzare e positivizzare la “mancanza fallica” della donna convertendola in un “valore aggiunto”. E tuttavia, come giustamente rilevato da Colette Soler – una psicanalista francese che ha preso a suo tempo le distanze dalla scuola di Lacan – “essere il fallo” per l’uomo, anziché “averlo”, significa per la donna essere, ancora una volta, per un altro, invece che in sé, significa mantenere:

una definizione dell’essere femminile che passa per la mediazione obbligata dell’altro sesso. (Soler).

“Essere il fallo” per l’uomo, “essere l’oggetto del desiderio dell’uomo”, “essere il sintomo” dell’uomo: sono queste le formule lacaniane che definiscono la posizione della donna. Ma vediamo più da vicino come l’impianto fallocentrico della psicanalisi viene  confermato – e fideisticamente accettato –  da una psicanalista lacaniana ortodossa:

Provando a mettere in discussione tale assunto (il primato del fallo), potremmo prendere il seno come simbolo del femminile ma come si può dire delle bambine? Ci sono state epoche in cui forse altri simboli hanno funzionato, simboli femminili. Nella nostra epoca sono ancora presenti ma, cosa che il femminismo fatica a riconoscere, non hanno mai messo in discussione il primato del fallo. Oggi l’ordine simbolico fornisce come simbolo prevalente il fallo per parlare della sessualità ma questo non equivale a una supremazia dell’uomo sulla donna ma corrisponde alla supremazia dell’ordine simbolico per i due sessi.

Il primato del fallo come simbolo prevalente viene dunque ribadito mentre la supremazia di un sesso sull’altro che inevitabilmente ne deriva, viene negata giocando la carta dell’indifferenziazione e del pareggio fra uomini e donne dovuta alla supremazia dell’ordine simbolico su entrambe. Ma le donne pensanti, siano esse femministe o filosofe o altro ancora, sanno bene che la pretesa qui avanzata – secondo cui il primato simbolico di un solo simbolo maschile non implicherebbe alcuna supremazia dell’uomo sulla donna – è  insostenibile. Tale supremazia esiste infatti, proprio in ragione del fatto che il simbolico dispone di un solo significante maschile  – il fallo – di cui manca l’ “equi-valente” femminile, vale a dire un significante  di pari valore in grado di rappresentare la donna. L’ammissione, da parte di Lacan, della mancanza di un significante equi-valente (al fallo) in grado di rappresentare la donna, è quanto basta a smentire la natura neutra e asessuata del fallo testimoniata peraltro, nei testi lacaniani, sia dai continui slittamenti fra il fallo e l’ organo maschile. Che poi si giunga a teorizzare che questo “difetto del simbolico che non dice della donna in termini universali” comporta per la donna “un plus sul piano del godimento” (di cui le donne nulla saprebbero), è la grande trovata teorica in virtù della quale  le violenze sulle donne, le forme di oppressione, le discriminazioni di genere, l’esclusione delle donne dai luoghi che contano – imputabili, seguendo il ragionamento dell’autrice, a quell’ordine simbolico neutro, indifferenziato e privo di supremazie – vengono talmente misconosciute da trasformare la condizione femminile in una condizione vantaggiosa per la donna.

E’ questa, in sostanza, l’operazione compiuta da Lacan:

a) riconoscere il “difetto del simbolico” e la logica fallica che lo governa minimizzandone gli effetti devastanti che ne derivano sulla vita e sulla salute di donne e uomini;

b) utilizzare l‘alterità della posizione femminile – dichiarandola portatrice di una vera  e propria “sovversione” rispetto alla logica fallica” – per costruire una teoria sul femminile che ne enfatizzi i vantaggi azzerandone gli scotti.

Così, per questa via, l’alterità femminile, dovuta alla mancanza nel simbolico di un significante che rappresenti la donna:

(la) preserva dal momento che il simbolico non potrà mai raggiungerla del tutto; questo margine può allora diventare uno spazio di invenzione consentendole una mobilità e una leggerezza sconosciute.

Peccato che di questa “leggerezza sconosciuta”, di questa fortuna elargita alle donne dall’ordine patriarcale, le donne – che hanno dato vita, irragionevolmente, a quel movimento storico e rivoluzionario che è stato il femminismo – non se ne siano mai accorte…Ciò di cui invece si sono rese perfettamente conto e che non trovano condivisibile, è l’idea – condivisa invece dalla psicanalisi – di un ordine simbolico inamovibile: non è compito della psicanalisi rifondare il simbolico, non è questo l’ambito della sua “operatività” – scrive la no stra lacaniana – che, nell’immane sforzo e nell’imbarazzo di definire quale sia questo “ambito”, raggiunge  il culmine della fumosità:

Non sta alla psicanalisi riscrivere il simbolico per il soggetto (…) ma sicuramente lo psicanalista può mettersi in posizione di causa di destrutturazione del simbolico per un soggetto nel senso di una pluralizzazione dei connettori, della messa in valore del loro carattere di sembiante in modo da causare bricolage, invenzioni inedite che permettano a un soggetto di tenersi in un legame sociale, di sbrogliarsela in modo nuovo con quel reale che gli causa sofferenza. (Mambrini)

Difficile ricavare da questo assemblaggio imbarazzante di parole senza senso, un messaggio convincente e di qualche utilità sulla funzione della psicanalisi e sulle sue finalità. Penso che più che “mettere al lavoro il femminismo”, e considerarlo un “oggetto di modernariato senza chance di sopravvivenza”, sarebbe utile e auspicabile mettere al lavoro la psicanalisi, interrogarla sul “genere” di formazione impartita all’interno di Scuole fondate da uomini, sulle ragioni del totale disimpegno e disinteresse mostrato dagli psicanalisti nei riguardi della “normalità” delle patologie maschili che fanno quotidianamente stragi di donne. Mentre il femminismo – con tutti i rilievi critici  che si possono avanzare al riguardo – si è sempre interessato alla psicanalisi, questa disciplina ha sempre disprezzato e temuto il femminismo come la peste e le “scuole” di psicanalisi, fondate quasi esclusivamente da maschi, hanno fatto il possibile per oscurare, se non ostacolare, in misura e in forme velate o manifeste, la conoscenza dei contributi teorici femministi. Ma oggi che la psicanalisi è in crisi, oggi che le donne servono più che mai, si vanno profilando all’orizzonte vari tentativi, da parte di alcuni psicanalisti, di colonizzazione di territori sino ad ora trascurati per descrivere i quali non trovo di meglio che ricordare queste parole di Angela Putino:

Il dominio s’intreccia esemplarmente a pratiche da lui distanti riportandole alla sua regione e colonizzandole secondo un rapporto di proprietà. La vera efficacia di un dominio è poter raggiungere luoghi a lui lontani e attraverso una colonizzazione dei termini, arrivare a quella delle esperienze, cioè rendere efficace qualunque diverso disporsi perché ha già addomesticato le parole con cui questo diverso si porge…Cogliere l’organizzarsi del dominio e il suo diffondersi molecolare se significa da una parte rendere percepibile l’infiltrazione, è dall’altra rendere omaggio a questa potenza intrusiva che finisce per essere dappertutto non essendo più da nessuna parte.  (Putino, Cosmo)