Il piacere dell’onestà

Tabula Rasa 12

PARLIAMONE…CON ONESTA’

Parliamone, sì, ma parliamone sul serio, possibilmente con onestà, delle “relazioni tra donne” o tra gruppi di donne, parliamo anche delle modalità in cui esse spesso si strutturano e si mostrano in questo luogo virtuale che è fb. Ne vale davvero la pena non fosse che per riconoscere e prendere atto, una buona volta, della fatuità e inconsistenza di slogan fatti di parole in via di consunzione ma soprattutto per contrastare una pratica che trova nella logica della prevaricazione, dei misconoscimenti e dei “primati” il suo nutrimento fallico.

Essere in relazione con delle donne o con dei gruppi di donne –  femministe/i o no -, significa, per noi, promuovere e praticare, anche in situazioni virtuali, una disponibilità all’apertura, essere positivamente mosse da un desiderio di interloquire con altre/i, sia che si tratti di condividere una tesi, sia che si tratti di confutarla. Ci si aspetterebbe, insomma, in base a questi presupposti – e per restare ancorate al terreno concreto di un’esperienza non relazionale recentemente vissuta e purtroppo lontana dai presupposti desiderabili indicati e di cui vogliamo dar conto – che se un gruppo di donne che fanno parte di un blog (Tabula rasa) danno inizio a una riflessione e a un’indagine su una tesi di comune interesse e nient’affatto scontata in ambito femminista – qual è la necessità di una rivisitazione in chiave critica del concetto di autodeterminazione – coloro che sono interessate a quell’approccio critico – al punto da appropriarsene e di farsene, più tardi, ideatrici, – abbiano, quanto meno, un moto di “riconoscimento” (da non confondere con la riconoscenza), nei riguardi dell’esistenza e del lavoro di quelle donne che a quell’approccio hanno dato vita per prime dedicandovi il tempo e la fatica di un certo numero di saggi pubblicati, a suo tempo, nel blog.

E invece no. Le relazioni fra donne non funzionano così – non così, perlomeno, con alcune e in casi come questo. Ora, se è possibile sostenere – come argomento legittimante di un comportamento scorretto – che non c’è nulla che renda tali relazioni tassativamente obbligatorie e che nulla rende d’altronde obbligatorio, da parte di alcune, il riconoscimento di altre, vero è che appropriazioni e misconoscimenti  raccontano di  una storia di relazioni tra donne tristemente generosa che nulla ha a che fare con la “libertà femminile”, e con quel rispetto fra simili che sempre dovrebbe accompagnare il riconoscimento dell’altrui lavoro.

Come funzioni, in fb, quest’altro genere di “libertà”, è presto detto: si ricorre inizialmente a quel trucco che si chiama FINZIONE.  Si adotta la strategia del fare “come se non”, di fingere, insomma, che le donne autrici dei post pubblicati in Tabula rasa contenenti – sulla scia del pensiero di una filosofa femminista italiana, Adriana Cavarero – una critica al concetto di autodeterminazione e all’ontologia individualista  –  non siano mai esistite: cancellazione simbolica, per dire di che si tratta. Il passo successivo consisterà nell’appropriarsi del contenuto del tema trattato nel post (l’autodeterminazione), e nel riproporlo come farina del proprio sacco, come iniziativa propria, evitando, ovviamente e rigorosamente, qualsiasi riferimento all’esistenza delle autrici del post in questione e assumendo come riferimento  –  giusto per rimarcare meglio la distanza fugando così ogni sospetto di appropriazione  – delle fonti straniere, dei blog femministi di diverse nazionalità: statunitensi, inglesi, australiani, canadesi e francesi…in cui  la stessa questione dell’autodeterminazione viene sostanzialmente riproposta da altre in relazione al tema della “libera scelta”.

La lingua parlata  in vicende come queste è l’idioma di una scelta calcolata e di una volontà di negazione – consapevolmente perseguita – della “relazione” con altre. Naturalmente, ricorrere a dei blog stranieri  – inglesi, australiani, canadesi francesi statunitensi e… chi più ne ha più ne metta – per dare consistenza e credibilità a una certa tesi, non avrebbe in sé nulla di sconveniente. Al contrario, avrebbe potuto essere, tale ricorso, un modo intelligente e leale di  cum-laborare  per contribuire insieme e con l’apporto di altre voci straniere, alla critica del concetto di Autodeterminazione  avviata da Tabula rasa. Un blog tutto italiano, molto seguito, ma troppo italiano, forse, per non essere ignorato e misconosciuto e in cui, è bene ricordarlo, la triviale opposizione schematica fra “libertà individuale” e “liberazione collettiva” altrove proposta, risulta essere da tempo superata.

Così è andata ma non è tutto. La situazione descritta, non è la prima, né la sola, ad aver attivato la Necessità, da parte di alcune,  di cercare,  a  difesa e supporto di una propria tesi – quasi che mancasse una forza sufficiente a sostenerla – il prestigioso conforto accademico di interlocutori e interlocutrici “esperti/e” stranieri/e. Qualcosa di analogo, si è verificato, infatti, a proposito della prostituzione, per condannare la quale in modo assoluto e categorico, si è pensato di fare riferimento, stavolta, a esperti di nazionalità tedesca, a un Manifesto dei terapeuti tedeschi del trauma contro la prostituzione – da cui è stato tratto un lungo elenco di citazioni sostanzialmente finalizzate a riproporre il vecchio binarismo vittima-carnefice – sottoscritto da una sfilza altrettanto lunga di “esperti”: psicologi, psicoterapeuti, direttori di istituti di storia e di etica della medicina, traumatologi, psichiatri dell’infanzia, presidenti di società tedesche di traumatologia e dissociazione, psicologi del profondo e quant’altro, chiamati a sostegno di una tesi che, scontata e persino condivisibile per molti aspetti, non avrebbe avuto alcun bisogno della benedizione di pomposi apparati  stranieri di matrice istituzionale. Ma tant’è.

Viene allora spontaneo domandarsi da dove nasca il bisogno di scomodare tanta accademica lungimiranza per dire – come se fosse una novità o la scoperta dell’ultima ora – che la prostituzione non è un mestiere come un altro, per dire che è un male, per dire di donne ridotte a oggetti, per dire che è un’esperienza traumatica, per dire che non è una professione, per dire che essa è, in tutti i casi, la continuazione di esperienze violente vissute in passato, per dire che la condizione che la rende possibile è uno stato di alienazione dal proprio corpo, per dire che non è la cosa più naturale del mondo, per dire che la maggioranza delle donne e degli uomini che la esercitano hanno subito nell’infanzia abusi sessuali  o altre forme di violenza.

Per informarci, infine,  che a Berlino i politici si stanno consultando….

Qual è la funzione, il senso di questo messaggio? A  cosa mira e deve servire? A che cosa è finalizzato? Non sono necessarie, per capirlo, competenze psicologiche, psichiatriche o psicanalitiche (che, mancano, peraltro, curiosamente, da quell’elenco): quel messaggio serve a propagandare e a direzionare lo sguardo e l’attenzione di chi legge verso una visione unica, unilaterale, rigida, parziale e pregiudiziale, che fissa i ruoli della prostituta e del cliente in quelli di vittima e carnefice conformemente a quella visione ideologica che Serughetti, nel dar conto del proprio lavoro, a conclusione del suo libro “Uomini che pagano le donne”,  così descrive:

Questo lavoro, in conclusione, è stato motivato dall’esigenza di interrogare i rapporti tra genere e potere nella prostituzione al di fuori delle visioni pregiudiziali che fissano gli attori in gioco nei ruolo – disegnati a priori – di carnefici e vittime, Fin dalla definizione dell’oggetto, ho voluto trattare la prostituzione come una relazione, anziché come l’appropriazione di un oggetto da parte di un soggetto; una relazione che si situa in contesti attraversati da diseguaglianze di genere, economiche e di potere, rispetto a cui gli attori coinvolti trovano possibilità per diversi posizionamenti. Si può infatti sostenere che lo spostamento del focus dalla sex worker al cliente abbia conservato la stessa lente stigmatizzante (patologizzazione/criminalizzante) del passato, e la stessa tendenza a incentrare su uno solo dei soggetti agenti la costruzione della prostituzione come problema sociale, politico, morale.

Lungi dal fare del pensiero e del libro di Serughetti sulla prostituzione  un  Vangelo – sul suo testo stiamo esercitando, come su qualsiasi altro scelto come oggetto del nostro gruppo di studio, un’ analisi critica – resta il fatto che a  interessarci, per la nostra storia  e la nostra formazione – che sono parte integrante della visione di Tabula rasa e ragione della sua stessa fondazione – è  la critica da lei rivolta a quell’”uno solo”, è la “tendenza”, da lei evidenziata “a incentrare” la costruzione della prostituzione “su uno solo dei soggetti agenti”.

Fino a quando non si riconoscerà che questa tendenza, questa patologia dell’Uno, -ovunque e comunque si manifesti – è la trappola tesa alle donne dal patriarcato a garanzia della propria sussistenza, nulla cambierà. L’opposizione binaria, duale, vittima- carnefice nasce nel cuore di un Uno che esclude l’Altra da cui uomini e donne sono governati e diversamente afflitti. Alla necessità di superare il binarismo  patriarcale evitando di porre lo sguardo ora su uno (il carnefice) ora sull’altra (la vittima) ma sempre e comunque “su uno solo dei soggetti agenti”, è stata dedicata la Conversazione Liberata se l’è cercata?

Maria Adami

Leda Bubola

Cinzia Marroccoli

Lorella Molteni

Rossana Schiavo

Paola Zaretti