Da “Una Stanza tutta per noi” Le tre Ghinee (2013)

Dal ciclo di incontri “Una stanza tutta per noi” organizzato presso la Libreria Feltrineli di Padova da Oikos bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza e da Bruna Bianchi Docente di Storia delle donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

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Buona sera a tutte/i e grazie per essere qui. E’ proprio di Virginia che oggi parleremo, di una grande donna e scrittrice del Novecento che dopo aver pubblicato i suoi romanzi più importanti, scrive due Saggi – Una stanza tutta per sé (1929) e Le tre ghinee (1938) – in cui fa il punto sulla condizione delle donne colte e di classe media in un momento in cui il diritto di voto e l’accesso all’istruzione superiore e alle libere professioni era, nel mondo anglo-americano, un fatto acquisito.

Vorrei innanzi tutto ricordare che Woolf è considerata un’anticipatrice di quelli che saranno i contenuti fondamentali del movimento delle donne ma, come vedremo di qui a poco, bisogna diffidare dalle semplificazioni e dagli usi strumentali di un pensiero la cui ricchezza basta a scoraggiarne l’utilizzo. Le Tre ghinee non è un libro di facile lettura, parlarne non è affatto semplice, se non altro per l’incredibile quantità e profondità dei concetti e dei mille fili che in un labirinto di pensieri vanno via via assumendo coloriture e sfumature diverse per riconnettersi, infine, al nucleo centrale, che è, in definitiva, il rifiuto assoluto della guerra. Se si vuole partecipare di persona alla costruzione – al farsi e al divenire – della complessità di un pensiero femminile, alla sua vocazione alla non linearità, sarà sufficiente, per averne percezione immediata, leggere questo libro. Non potendo dar conto, in poco tempo, di tanta densità, mi limiterò a isolare e a trasmettere solo alcuni aspetti, alcuni passaggi di questo pensiero che ho raccolto durante la lettura: un racconto sulla libertà femminile da cui non mancano, fra i tanti ingredienti, quelle “vampate d’ira”, senza le quali Woolf non avrebbe forse mai scritto questo libro o non avrebbe potuto scriverlo, probabilmente, nel modo in cui l’ha fatto: “Le vampate d’ira sono utilissime per il mio libro” – scrive – e c’è da credere che queste vampate abbiano trovato una via di sfogo quando si infuria con Morgan, un amico scrittore che, con algida noncuranza, le comunica l’impossibilità per lei, donna, di essere ammessa alla biblioteca di Londra.

Lo sguardo penetrante di Virginia mette a nudo non solo l’esistenza del conflitto fra i  sessi ma vede in trasparenza la concreta possibilità di una connivenza fra patriarcato e nazifascismo a partire dalla scissione fra pubblico e privato e dalla divisione del mondo degli uomini e delle donne in base a ruoli sociali distinti la cui funzione è di fare da copertura a una realtà più terribile e nascosta: il dominio di un sesso sull’altro. Il ruolo della figura paterna, esaltato e divinizzato dal Patriarcato, è del tutto funzionale all’esercizio di tale dominio e di un’oppressione che noi donne, dice Woolf, pur iniziando a conoscere proprio “dalla soglia della casa paterna”, possiamo comprendere fino in fondo e nei suoi mortiferi risvolti, soltanto una volta divenute consapevoli dell’esistenza di quel “ponte” che unisce, in linea di continuità, “la casa paterna con il mondo della vita pubblica”. Di qui la necessità che le donne sottraggano ammirazione a padri e fratelli che indossano divise da soldati, di qui l’opportunità della nascita di  un College che abbia fra le sue finalità quella di istruire le donne a odiare la guerra (178), mentre storie, biografie e giornali e la stessa istruzione universitaria insegnano ai giovani maschi a far uso della violenza.

Ciò premesso, veniamo dunque al primo aspetto delle Tre ghinee, che vorrei considerare non senza aver prima ricordato che questo saggio, pubblicato nel ‘38, a 9 anni di distanza da Una stanza, non nasce come un  “fulmine a ciel sereno” ma ne rappresenta piuttosto l’ideale prosecuzione: i temi trattati vertono sull’educazione, le donne, la guerra. L’idea risale a un appunto del ’31 e con il tempo il titolo viene più volte modificato: Professioni per donne, Aprire la porta, Un colpo alla porta, Busso alla porta, Dell’essere disprezzati, Donne, Gli uomini sono così? Guerra, Le due ghinee, diventando definitivo solo nel ’37. Per meglio entrare nella tonalità d’animo dell’autrice, va inoltre ricordato che durante questo lavoro Virginia attraversa un’esperienza tragica, descritta come una alla testa“frattura totale (…) un colpo alla testa ”, per la morte del nipote Julien, figlio dell’amatissima sorella Vanessa. Ma torniamo al primo degli aspetti che vorrei evidenziare. Se ne ha percezione già nelle travagliate vicende del titolo, nell’insistenza sulla porta – termine che evoca il luogo di passaggio, il confine fra un dentro e un fuori, fra apertura e chiusura, fra pubblico eprivato ma emerge in tutta la sua portata in taluni passaggi cruciali del testo in cui si fa netta la sensazione che le Tre ghinee, rappresenti, per Virginia, una creatura del tutto speciale, il Luogo d’elezione in cui dire, finalmente e senza più indugi  – quasi si trattasse di un evento inaugurale, di “una prima volta” – non delle parole, non unaparola sua, ma La sua Parola. Liberamente detta, sciolta dall’altrui consenso, dissenso, giudizio:

E non so dire con quanta insistenza, perseveranza, violenza lo volevo) (…) e ora provo un  senso di quieta compostezza: come avessi detto la mia parola: prendere o lasciare io me ne lavo le mani.

Il “senso di quieta compostezza” raggiunto – che segue e pone fine a un’indicibile fatica: insistenza, perseveranza, violenza del desiderio e della volontà – nel mentre evoca l’antichissima e ben nota metafora del travaglio del parto che nella cultura greca segna la nascita di ogni produzione artistica, annuncia, nel contempo, l’esito felice di quell’atto di autorizzazione soggettiva che procede da Sé e che libera una volta per tutte, la parola autentica di un soggetto dalle catene della censura, della ripetizione mimetica della parola dell’altro, dalla parola che l’altro si aspetta. Woolf – che il marito Leonard, considerava, fraintendendola, “l’animale meno politico mai comparso sulla terra da quando Aristotele aveva inventato la definizione” – abbandona qui ogni remora, ogni misura, nell’offrirci la sua visione filosofica e poetica, etica e politica del mondo, del conflitto fra i sessi, del pensiero delle donne nella politica spalancando le porte, con grande anticipo sui tempi, a quella politica delle donne riassunta nello slogan “il personale è politico”. Il secondo aspetto che vorrei evidenziare, ha il bagliore del fuoco – che, a seconda del contesto, brucia e illumina, consuma e rinnova, produce morte e genera vita. Un fuoco che arde nelle parole di Virginia, nel perorare la sua causa a proposito della destinazione della prima ghinea da concedere alla tesoriera onoraria per la ricostruzione di un college femminile che rappresenta, secondo lei, la sola alternativa alla casa paterna e la via d’uscita dall’oppressione e dalle indicibili sofferenze inferte alle donne dall’educazione patriarcale:

Devo mandargli questi quattrini oppure no? E se glieli mando quali condizioni devo porre? Devo dirgli di ricostruire il college tale e quale era? O di ricostruirlo su basi diverse? Oppure è giusto che gli dica di comperarsi stracci e benzina e una scatola di fiammiferi svedesi e di dar fuoco una volta per tutte all’intero edificio? (…). Neppure una ghinea del denaro guadagnato con il nostro lavoro sarà destinata alla ricostruzione del college sulle stesse basi di prima; alla stessa stregua è escluso che se ne possa spendere una per ricostruirlo su basi nuove. Di conseguenza la nostra ghinea verrà annotata sotto la voce “Stracci, Benzina. Fiammiferi”. E le verrà spedita accompagnata dal seguente biglietto: “Prenda questa ghinea e la usi per radere al suolo l’intera costruzione. Dia fuoco alle vecchie ipocrisie. Che il bagliore dell’edificio in fiamme faccia fuggire gli usignoli atterriti e invermigli i salici. E le figlie degli uomini colti danzino attorno al grande falò, gettando di continuo bracciate di foglie morte sulle fiamme, mentre le loro  madri sporgendosi dalle finestre più alte, gridano, “Che bruci! Che bruci! Non sappiamo che farcene di questa istruzione.

Qual è dunque il college desiderabile, immaginato da Virginia per un’educazione diversa che insegni alle donne a odiare la guerra contro cui l’intero percorso del libro si snoda? E’ un college sperimentale, è un college avventuroso, povero, in cui si insegnerà non l’arte di dominare, non l’arte di governare o di uccidere, di accumulare terra e capitale, ma, fra le altre discipline, “l’arte dei rapporti umani”, l’arte di “far lavorare insieme la mente e il corpo” e “di scoprire da quali nuove combinazioni possono nascere unità”. E’ questo “insieme” di mente e corpo, é questa unità che nasce da differenti combinazioni, a darci la fisionomia di che cosa debba essere, per Virginia, un college nuovo, un college che non richieda spese generali in cerimonie, uniformi, stipendi e in cui

si impara perché è bello imparare; dove l’esibizionismo è abolito; dove non ci sono diplomi dove non si tengono conferenze né prediche, dove le vecchie avvelenate vanità che generano competitività e invidia…(59)

Sono queste le condizioni poste per l’assegnazione della prima ghinea alla tesoriera che aveva chiesto un contributo per la prevenzione della guerra. Il terzo aspetto importante, è la critica pronunciata da Virginia – una Virginia “diagnostica” che non disdegna affatto il ricorso alla psicologia e alla nozione di inconscio, una Virginia decisa, aspra, e al tempo stesso in bilico fra ironia e sarcasmo – in merito all’ossessione per i riti e i cerimoniali che caratterizzano, da sempre, i luoghi del maschile, “il corteo dei figli degli uomini colti”:

Eccoli, i nostri fratelli che sono stati educati nelle scuole private e nelle due università; salgono quelle scalinate, entrano e escono da quelle porte, ascendono a quei pulpiti, pronunciano orazioni, impartiscono lezioni (…). E’ sempre uno spettacolo solenne, un corteo, come la carovana del Sultano che attraversa il deserto. Bisnonni, nonni, padri, zii, tutti hanno percorso quelle strade, con la toga indosso, con la parrucca in testa, alcuni con fasce e nastri sul petto (…). Uno era vescovo. Un altro giudice. Uno era ammiraglio. Un altro generale. Uno era professore all’Università. Un altro era medico (…). E’ uno spettacolo solenne questo corteo (…). Abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo degli uomini colti? (…). Come la spenderemo quella moneta? Pensare, pensare, dobbiamo (…). Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo degli uomini colti?..

Ma, soprattutto: “abbiamo voglia di unirci a quel corteo”, si chiede, dal momento che esercitare le professioni degli uomini e fare quattrini, come loro, ci costringerà a “indossare certe uniformi”, a professare la loro “lealtà verso certe cose” e a portare attorno al collo la scritta “per Dio e per l’Imperatore “come l’indirizzo sul collare di un cane”? (101). Non è forse necessaria, per conformarsi a queste regole, la perdita di ogni sensibilità, l’atrofizzazione del “senso dell’umano?”:

La vista si atrofizza. Non ha tempo di guardare i quadri. L’udito si atrofizza. Non ha tempo di ascoltare la musica. Il linguaggio si atrofizza. Non ha tempo di dedicare alla conversazione. (103)

La diagnosi sull’atrofia che abita i Luoghi del maschile non potrebbe essere più conforme al vero. Come potremmo dunque, noi donne, intraprendere quelle professioni senza cessare di rimanere “esseri umani civili che vogliono evitare le guerre? (107). La posizione di Virginia, lo si vede bene, è già un passo oltre l’emancipazionismo egualitarista – che ha storicamente caratterizzato la prima fase del femminismo – ma è anche un’anticipazione di quella che sarà, più tardi, la sua terza fase, the third wayMa ciò che nella domanda: “Dove ci porta il corteo degli uomini?” ritorna, amplificata – come accade, del resto, in Una stanza tutta per sé – è  la descrizione di quella condizione femminile che la volta scorsa, parlando di Etty Hillesum, ho definito tragica, descritta da Woolf come una scelta impossibile, schizofrenica, fra due mali, fra Scilla e Cariddi:

Dietro di noi sta il sistema patriarcale; le pareti domestiche con il loro nulla, la loro immoralità, la loro ipocrisia, il loro servilismo. Dinnanzi a noi si apre il mondo della vita pubblica, con la sua possessività, la sua invidia, la sua aggressività, la sua avidità. L’uno ci tiene prigioniere come schiave nell’harem; l’altro ci obbliga, come bruchi, l’uno in fila all’altro, a fare il girotondo attorno all’albero sacro della proprietà privata. La nostra è una scelta fra due mali. L’uno peggiore dell’altro. Non faremmo meglio a buttarci da questo ponte giù nel fiume; a rinunciare alla partita; a dichiarare che la vita umana è un errore, e a farla finita?

Lei lo sconsiglia, naturalmente, ma sappiamo che sarà proprio un fiume il luogo scelto per la sua fine. Ci sarebbe, in verità, – nella risposta dell’oracolo – una via d’uscita per intraprendere le libere professioni restando al tempo stesso esseri umani i che dicono NO alle guerre. E’ la via indicata dalle quattro “grandi maestre delle figlie degli uomini”: la povertà (vivere con quanto basta), la castità (rifiutarsi di vendere il proprio cervello per denaro), la derisione (rifiuto di fare pubblicità al merito preferendo alla fama l’oscurità e la disapprovazione), la libertà da legami di fedeltà (liberazione da orgogli di patria e di religione, di università, di scuola, di famiglia, di sesso). Sono queste le condizioni cui è legata la concessione della seconda ghinea a un’associazione che aiuta le figlie degli uomini colti a trovare lavoro nelle libere professioni. Ma la gestione di tali professioni dovrà essere affidata a donne in grado di trasformarle portando “in esse il loro modo di essere e di sentire che essendo diverso da quello degli uomini, li aiuterà a schierarsi contro la guerra”. E sarà proprio in vista di questo progetto trasformativo che la seconda ghinea verrà assegnata e utilizzata non già per bruciare ma per installare una “luminaria” con cui circondare l’intero edificio di un nuovo splendore:

Risplendano tutte le finestre. Che le figlie delle donne incolte intreccino una danza intorno alla nuova casa, la casa povera, la casa che dà su un vicolo dove passa l’autobus e si sente il grido dei venditori ambulanti; che cantino tutte insieme: “Basta con le guerre! Basta con la tirannide!” E le loro madri rideranno felici nella tomba: “Per questo abbiamo sopportato insulti e disprezzo! Illuminate le finestre della nuova casa, figlie! Che risplendano! (p. 117)

Il quarto aspetto – un condensato, a mio parere, del messaggio forse più significativo rivolto alle donne – riguarda la risposta negativa all’invito di un Avvocato di diventare membri della sua associazione interessata alla salvaguardia della pace e di firmare un documento in difesa della cultura e della libertà di pensiero. La risposta all’avvocato è secca:

L’unico modo in cui possiamo aiutarvi a difendere la cultura e la libertà di pensiero è difendendo la nostra cultura e la nostra libertà di pensiero. (p.123)

Ma che cos’è una cultura femminile, che cos’è una libertà di pensiero non imparentata con “l’adulterio del cervello” e con la prostituzione, se non una cultura che nasce dal pensiero della Differenza? Di qui il nome dell’Associazione – la Società delle Estranee – che funzionerà senza capi, senza gerarchie, burocrazie, giuramenti, cerimoniali, rigurgiti patriottici e orgogli nazionali e onorificenze e fedeltà perché per l’estranea – che non ha patria – la sua patria è il mondo. Le Estranee, amanti della bellezza in tutte le sue forme, faranno invece volentieri a meno di quella bellezza “imposta”, “irreggimentata”, delle cerimonie con i loro “nastrini”, “medaglie”, “distintivi”, “toghe” e “cappucci. Ma la società delle Estranee non è “solo un seguito di parole a cantare le lodi di un sesso”, è un corpo “senza nome” che esiste e agisce” anche se “non ha ancora trovato un posto nella Storia e nelle biografie. La sua azione si esplica attraverso la pratica dell’astensione, della sottrazione, della passività attiva, affamando i patriarchi – dirò con una formula mia: dal rifiuto di rammendare una calza a favore della guerra, all’assentarsi dalla Chiesa delle figlie degli uomini colti. Una pratica di Passività attiva, dunque, unita a un altro aspetto essenziale: la clandestinità. Ed è qui, a questo punto del testo che fa il suo ingresso la Paura, la paura delle donne – nel doppio senso di genitivo soggettivo e oggettivo e la rabbia – la rabbia degli uomini. Ma che cos’è questa paura? Da dove nasce?

Esistono due buone ragioni per cercare di analizzare la nostra paura e la vostra rabbia; primo perché quella paura e quella rabbia impediscono una vera libertà tra le pareti domestiche; secondo, perché possono contribuire concretamente a provocare le guerre. (172)

Al fondo della rabbia maschile c’è una “fissazione infantile”, una malattia dei padri ammorbati da questa fissazione: padri che si oppongono al matrimonio della figlia, padri che si oppongono al suo desiderio di autonomia. Ma

la domanda più insistente e più difficile che il nostro silenzio ricopre – che soddisfazione potrà mai dare il dominio al dominatore? (171)

E’ una domanda capitale alla quale, ciascuno/a di noi potrebbe provare a rispondere. Ebbene, prima di concludere, vorrei tornare ancora una volta, alla  nostra Virginia “piromane” ricollegandomi a quanto detto all’inizio e all’invito a diffidare dalle semplificazioni e dall’uso parziale, preconfezionato del suo pensiero. A suggerirci di raccogliere questo invito, c’è un’immagine: l’immagine di un gesto che sorprende, che forse non ci saremmo aspettate/i, un gesto consumato attraverso una cerimonia sì, ma del tutto “nuova”, finalizzata alla distruzione di “una vecchia parola, “infetta” e “corrotta”…”femminista”, una volta che il diritto di guadagnarsi da vivere è stato conquistato:

Scriviamola a grandi lettere nere su un foglio protocollo; quindi con un gesto solenne appicchiamo il fuoco. Guardate come brucia! Lingue di luce danzano sulla terra! (…). La parola femminista è distrutta; l’aria è ritornata pura e cosa vediamo attraverso quest’aria chiara? Uomini e donne che lavorano insieme per la medesima causa (…). Le figlie e i figli degli uomini colti oggi lottano uniti. Si tratta di un fatto così esaltante (…) che se questa ghinea potesse essere moltiplicata un milione di volte, il milione di ghinee sarebbe tutto per voi…(139-140)

Lavorare insieme per una medesima causa: è questa dunque l’ultima parola di Woolf capace di declinare insieme unità e differenza. Un ultimo cenno, infine, al rapporto autrice-opera toccato da Rampello nel suo libro Il canto del mondo reale. Virginia Woolf La vita nella scrittura in cui vengono presi di mira molti studi femministi degli ultimi trent’anni, per lo più anglosassoni e francesi, che attraverso una lettura di Woolf in chiave psicanalitica, tenderebbero a schiacciare l’opera dell’autrice sulla vita (le molestie subite nell’infanzia, la morte precoce della madre, un padre e un marito cattivi, la sua follia). Bisogna guardarsi, secondo Rampello, dal tradurre la vita nell’opera e viceversa o dallo spiegare l’una con l’altra trattandosi, in realtà, di un “respiro affine di organismi diversi”. Sulla lettura che Rampello ci offre di Virginia – “una mossa inedita e stupefacente in grado di mostrare una pratica di lettura” di cui non si conoscono precedenti – interviene, con una recensione entusiasta, Annarosa Buttarelli – riconoscente a Rampello, fra le tante cose, per aver “aperto un varco nella tradizione critica” femminista, per aver strappato via:

l’amata scrittrice dalla sua fama di donna soprattutto tragicamente segnata della fine per suicidio, e anche dall’inizio, da una vita ferita da alcune notevoli sventure e il suo affascinante mistero…(Buttarelli)

e per averle restituito “il sentiero luminoso di una donna geniale che canta continuamente la vita…” (Ibid.), di una donna gioiosa e capace, nonostante e a dispetto delle tragedie del vivere, di intessere feconde relazioni con gli altri, di mostrare tutto il suo radioso splendore. Una donna che canta la vita, dunque, e non la morte, è la Virginia che, strappata dalla fama di donna suicida e dall’immagine di “vittima esemplare”, ri-nasce dalle pagine di Rampello. E del resto, una donna che viaggiava molto, che stampava da sé i suoi libri, una zia divertente che inventava giochi, come avrebbe potuto essere triste, depressa infelice? (p.14)

Questa  visione radiosa della Virginia di Rampello “del tutto contrastante” con la Virginia luttuosa, infelice, mancante suggerita dall’interpretazione di Nadia Fusini – ma anche con la Virginia di Maurice Blanchot il cui coraggio risulterebbe oscurato dal “senso di fallimento tragico” (11) – mostra, a mio parere, il suo limite nella misura in cui si scontra con una verità e realtà di fatto che ci mostra che a togliersi la vita – come del resto la stessa Rampello riconosce a proposito del suicidio della poetessa tedesca Karoline Gunderrode di cui ci parla Christa Wolf in una biografia – sono proprio coloro che la vita la cantano, coloro che appassionatamente la amano. Le opere di Carl Michelstaedter, suicida, brillano per questo canto alla Vita e mostrano abbondantemente che chi si uccide non si separa dalla vita ma dalla non-vita.

Il suicidio ingombra – si sa. Ingombra, in Woolf come in Weil, e a mettersi in moto, in questi casi, consapevolmente o no, è l’opera della censura, l’oscuramento di quel gesto scelto da una donna con lo stile che le è proprio, un gesto  che decide del tempo, del luogo e del modo della propria fine, un gesto che tuttavia non può essere scisso né dalla sua vita, né dalla sua arte. Voglio concludere ricordando, a questo proposito, una frase di Nietzsche contenuta ne La Gaia Scienza:

I grandi Maestri si fanno riconoscere dal fatto che così nel grande come nel piccolo sanno trovare in un modo perfetto la fine sia questa la fine di una melodia o di un pensiero, sia quella dei cinque atti di una tragedia o di un affare di Stato.  (Nietzsche, La Gaia Scienza, p. 162-163)