Metterci la faccia, metterci il Nome

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di Paola Zaretti / Metterci la FACCIA, metterci il NOME

Credo sia opportuno affrontare seriamente – potrei anche dire “clinicamente” se a impedirmelo non fosse la mia scarsa affezione all’uso di un termine medico – la coazione di alcune persone a costruire, attraverso dei falsi profili di sé, dei falsi sé.

Quando parliamo di COAZIONE non ci riferiamo a un fatto sporadico – benché  neppure la sporadicità toglierebbe all’uso di un falso sé il rilievo non trascurabile che comunque gli compete – ma di un gesto, di un atto compulsivamente ripetuto nel tempo e di cui è impossibile, per un soggetto, fare a meno, liberarsi. Stiamo parlando, insomma, di qualcosa che è dell’ordine di una Schiavitù in cui il solo a farla da padrone è il Sintomo.

Ma che cosa spinge una persona a darsi da fare, a occupare parte del suo tempo a creare dei falsi profili di sé? Qual è, quali  sono le motivazioni che la/o inducono a farlo? Quali le ragioni per ingannare l’altro/a – giacché di questo, in definitiva, si tratta – facendogli credere di essere un altro/un’altra da quello/a che è? Quali i vantaggi che crede di poterne ricavare?

Si tratta semplicemente, in questo inganno, di un gesto moralmente deplorevole liquidabile come falsità, ipocrisia, ignavia, vigliaccheria o c’è forse in questa coazione qualcosa d’altro, qualcosa di più importante che riguarda la sfera della patologia? Inutile ribadire, ancora una volta, che nella distinzione fra normalità e patologia non si tratta di differenza qualitativa ma quantitativa e che l’uso sistematico di falsi profili riguarda la seconda.

Il fatto poi che chi fa uso di falsi profili abbia una naturale tendenza a banalizzare, a ridimensionare e a considerare tale pratica con infantile furberia e superficialità assegnandole persino un carattere di divertente-divertita “normalità”, non solo non sposta di una virgola  il problema ma lo rende, se mai, più acuto e inquietante. Infatti, a subire, in questi casi, un’incrinatura e un malfunzionamento, è proprio la facoltà del giudizio ed è in forza di tale incrinatura malfunzionante che l’uso di un falso nome può essere considerato, da chi se ne serve, roba di “normale” amministrazione cosicchè dalla sua valenza negativa – e dalla colpa che potrebbe derivargliene – il soggetto ne esce immune.

Che cos’è un nome? E’ “un significante che rappresenta un soggetto per un altro significante”. E’ evidente che chi utilizza nomi diversi non si fa rappresentare soltanto da quel significante che è il suo nome e che lo rappresenta ma da tanti nomi che utilizza per compiere azioni altrimenti impossibili. Eppure c’è almeno una cosa che gli risulterà impossibile: fuggire, attraverso altri nomi da sé e dall’ infelicità che questo maldestro tentativo di fuga finirà presto o tardi per rivelargli.

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