Di come la Regola dell’Uni-forme schiaccia la Differenza

Demone

di Paola Zaretti/Di come la Regola dell’Uni-forme schiaccia la differenza che si sottrae alla Regola dell’Uno

“Comunque è evidente che fra donne non si combina niente perché nessuna sente il fascino di investire in imprese esclusivamente femminili: non scatta il piacere di costruire qualcosa insieme, di faticare e entusiasmarsi nella reciprocità perché da sempre il vero successo di sé la donna lo pone nel riconoscimento maschile, quindi tende a collaborare con l’uomo e non con un’altra che poi ha il suo stesso problema irrisolto.” (Lonzi, Diario)

Se vogliamo avere un quadro preciso di questa mancata collaborazione fra donne cui allude Lonzi e capire fino in fondo qual è il nodo irrisolto che affligge le loro relazioni, se vogliamo vedere concretamente all’opera una delle infinite declinazioni attraverso le quali la regola dell’Uni-forme, del “tutte uguali”, si insinua, s’impone ed agisce re-attivamente e repressivamente sulla “differenza” – sull’eccezione che si sottrae alla regola – una preziosa opportunità ci viene offerta dall’analisi  di alcuni recenti fenomeni  la cui intellegibilità facilita la messa a fuoco di una condizione che da sempre governa le relazioni tra donne, lontanissime, ancora, da una soluzione.

Mi riferisco alla manifestazione promossa il 10 ottobre a Milano su iniziativa di alcune donne, e a quanto si è verificato in seguito alla diffusione in fb di tale iniziativa con cui altre donne venivano insistentemente sollecitate a partecipare e a dare la loro adesione.

Che cosa si è verificato in seguito a quell’appello? Quali sono state le reazioni più comuni a quella “chiamata” collettiva, alla “mossa” inaugurata da alcune donne che, per il solo fatto di essersi differenziate da altre in qualità di promotrici dell’iniziativa, hanno finito per assumere inevitabilmente, nell’immaginario collettivo, una posizione egemone all’interno dell’iniziativa? Che cosa c’è nell’atto di differenziarsi, di così disdicevole, di così insopportabile,  da produrre così spesso, come risposta, una reazione di rifiuto e di opposizione? E come può, un tale rifiuto, essere compatibile con una teoria e una pratica femminista che non perdono occasione di esaltare, a parole, la Differenza assumendo la “relazione di Differenza” come un punto cardine, un dogma della politica delle donne? E’ possibile  che di tale contraddizione manchi ogni consapevolezza?

Ebbene, si è verificato ciò che puntualmente accade quando una donna, autorizzandosi da sé a fare qualcosa, a intraprendere, insomma, come in questo caso, una qualche iniziativa da proporre ad altre, viene a trovarsi, di fatto, nella posizione di un soggetto desiderante.  Ma poichè trovarsi in questa posizione genera da parte di altre donne una resistenza che prende spesso la forma dell’opposizione, bisogna allora capire che cosa c’è, nell’atto di autorizzarsi da sé di una donna, che non va, che cosa fa sì che questo gesto inneschi, da parte di altre, dei meccanismi  “castranti”.  Bisogna capire perché l’ atto dell’autorizzarsi viene considerato da altre un atto di Hybris, un “peccato” di Spudoratezza, un “osare” che deve essere ridimensionato, punito e, infine, dis-fatto. Come e per quali vie avvenga il processo di dis-facimento che ne segue, è presto detto: è sufficiente un gesto di sottrazione-sabotaggio all’appello diffuso dalle promotrici, corredato, ovviamente, da una varietà di motivazioni – in parte plausibili e in parte visibilmente pretestuose – a sostegno delle ragioni della propria sottrazione e alla presa di distanza dall’iniziativa.

Inutile dire che, come sempre capita in questi casi, la situazione venutasi a creare dopo l’annuncio della Manifestazione – seguito da un alto numero di risposte critiche e contrarie – è la classica condizione di stallo e di paralisi che si genera ogni qualvolta il meccanismo mortifero e mortificante della logica oppositiva – in cui nulla se non l’opposizione stessa può vivere – entra prepotentemente in azione spaccando e…assicurandosi così – come di fatto è avvenuto – la “vittoria” finale.

Come opera, infatti, questo meccanismo mortifero? Dividendo, separando e contrapponendo le promotrici della manifestazione alle altre donne “invitate” a partecipare all’iniziativa. Il risultato? Il fallimento della manifestazione che, ridotta a un numero decisamente esiguo di persone, pone qualche interrogativo in ordine alle responsabilità che non possono essere  attribuite  a una parte – alle promotrici dell’iniziativa – o all’altra – a coloro che per svariati motivi si sono sottratte. Se impostassimo la questione in questi termini, cadremmo noi stesse vittime, a nostra volta, di quel diabolico meccanismo (duale e oppositivo) cui la responsabilità del fallimento va imputata.

E dunque? E’ possibile imputare a un “meccanismo” una qualche responsabilità? E se le cose stanno così, come se ne esce? Se ne esce individuandolo, riconoscendolo, evidenziandone il disfunzionamento, evitando, in tal modo, di diventarne prede inconsapevoli. Detto altrimenti, ciò significa che per uscire dalla diavoleria di quel diabolico meccanismo, c’è un solo modo: non entrarvi.

E’ stata questa la mia scelta, non facile, presa, con un “Grazie no” in occasione dello schieramento venutosi a creare pro o contro quella Manifestazione. Una decisione dettata dal rifiuto di essere inghiottita e fagocitata da un logica (binaria, duale)  che non mi appartiene e che da sempre combatto, anima e corpo, ben consapevole dei rischi che tale posizione comporta: il rischio di passare per una che, rifiutando di attribuire alla donna sempre e solo il ruolo di vittima, starebbe dalla parte del carnefice (!!!) o per una che, rimettendo in discussione la 194, a partire  dalla domanda radicale formulata da Lonzi: “per il piacere di chi sono rimasta incinta? “Per il piacere di chi abortisco?” sarebbe disinteressata alla vita delle donne e, magari, favorevole agli obiettori (!!!!)

Le favole si lasciano scrivere e le bugie, come ho già avuto occasione di dire, hanno le gambe corte. Per questo, proseguirò, più persuasa che mai e con chi vorrà, per una strada la cui d’uscita, benchè ancora lontana, si lascia intravedere. E’ la via che attraverso un costante lavoro di abbattimento, di distruzione e di decostruzione delle dinamiche falliche che condizionano pesantemente le relazioni tra donne, mira alla costruzione di relazioni sane, reali e, perché no, persino felici, al di fuori di tali dinamiche.

Questo desidero e mi aspetto. Niente di più. Niente di meno.