Sonata a Kreutzer: Il matrimonio è peggio della guerra…

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Dal ciclo “Una Stanza tutta per noi” organizzato da Oikos-bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza e da Bruna Bianchi Docente di Storia delle donne presso Ca’ Foscari di Venezia presso Libreria Feltrinelli di Padova

L’uomo è colpito dai terremoti, dalle epidemie, dagli orrori delle malattie, da tutti i tormenti dell’anima, ma in tutti i tempi la tragedia più dolorosa per lui è stata e sarà la tragedia dell’alcova. (L. Tolstoj)

Il matrimonio è peggio della guerra…La diagnosi di Tolstoj su ciò che viene solitamente chiamato “amore”, ci raggiunge, spietata, senza appello, dalle pagine della Sonata, per bocca di Pozdnysev, un uomo dai grigi capelli e dagli occhi scintillanti che con sarcastico disprezzo racconta a un compagno di viaggio l’uccisione di sua moglie:

L’affinità spirituale! La comunanza d’ideali! (…). Ma in tal caso, scusatemi la volgarità, che ragione c’è di andare a letto? L’amore? No, non esiste ed è proprio da quell’amore che io sono stato indotto a fare quel che ho fatto.

Sono le parole – intercalate da uno strano verso – che Pozdnysev, il personaggio principale del romanzo, rivolge, durante un monologo quasi teatrale, al suo interlocutore mentre il suo racconto-confessione dell’assassinio della moglie Sofia si snoda. Un assassinio avvenuto, come dirà, con armi diverse da un coltello, “molto prima” rispetto alla data fatidica del  5 ottobre.  E ancora:

La cosa più esecrabile è il fatto che si dà per scontato che l’amore sia qualcosa di ideale e di elevato, mentre in realtà esso è qualcosa di abietto, di maialesco, qualcosa di cui c’è da vergognarsi perfino a parlarne.

Non siamo poi così lontani dai Contributi alla psicologia della vita amorosa (1910) di Freud e dalla “degradazione della vita amorosa” da lui descritta, attribuibile alla conservazione di mete sessuali perverse, il cui mancato appagamento viene sentito come una non indifferente perdita di piacere, e il cui appagamento appare invece possibile soltanto con un oggetto sessuale degradato e spregiatoIn questa visione tragica e senza speranza di quell’istituto privo di fondamento che è il matrimonio – una “camera da letto” in cui “l’amore carnale” si consuma – nulla di più di una “copertura” delle dottrine ecclesiastiche per giustificare l’incapacità all’astinenza, “che cosa resta dell’amore, del rapporto di coppia e del matrimonio nella concezione ascetica del “secondo Tolstoj”?si chiede Gianlorenzo Pacini traduttore della Sonata uscita nel centenario della pubblicazione dell’opera di Lev Tolstoj. Pacini, nella sua introduzione, non è tenero con Tolstoj-Pozdnysev alla cui concezione ascetica “non possiamo credere” – dice – per via di una mancata “rigenerazione spirituale” che sempre accompagna un pentimento autentico. Ricordo, per inciso, che la visione ascetica di Tolstoj fu uno dei bersagli della critica di Nietzsche ne La genealogia della morale. “Nel vero amore è l’anima che abbraccia il corpo” scriveva il filosofo, in altra occasione, enunciando così il suo NO alla scissione anima-corpo coltivata dalla filosofia dell’Occidente da Platone in avanti.

Vorrei ricordare, prima di proporvi la mia lettura della Sonata, una frase di Salvatore Natoli, letta e riletta e affissa sui muri di Via Roma durante l’Evento Donne in strada, che si conclude così: “Il dolore pretende l’invenzione”. Ecco, credo che tutta la grande opera di Tolstoj – come quella di ogni grande artista e nonostante la sua demolizione senza appello dell’arte, in vista di “un’arte dell’avvenire” – sia la realizzazione compiuta di questa invenzione. Un’invenzione forse non cercata, forse neppure voluta ma certamente pretesa dal dolore che ha accompagnato la sua vita. Potremmo chiederci perché il dolore dovrebbe pretendere, esigere da noi qualcosa come “un’invenzione”, che cosa gli dia diritto a una tale pretesa, se non il fatto che il dolore sa bene che senza di essa, neppure l’uomo e la donna più forti hanno mezzi per resistergli, per non morirne. Perché non pensare allora a questa invenzione, come all’esito felice di quell’attitudine a “non fare resistenza al Male” raccomandata dal Vangelo e più volte citata da Tolstoj nei suoi scritti, e non vedere in questa attitudine a lasciarsi attraversare dal Male senza opporgli resistenza, l’insondabile segreto di ogni arte? Non è forse di questa rinuncia a resistere al Male che Tolstoj ci parla quando scrive:

Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, ricominciare da capo e buttare via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente.

E’ un breve ma significativo passaggio che ci dice della lunga e tormentata vita di Tolstoj – un outsider, senza dubbio, paragonato da Proust a “un Dio sereno” – segnata da gravi perdite a cominciare dall’infanzia: orfano a due anni di madre e a sette di entrambe i genitori e privato poi, come padre, di 5 figli su tredici. Eppure, il tempo dell’ infanzia, viene da lui ricordato come un “primo tempo (…) meraviglioso, innocente (…) durato fino a 14 anni”. Seguono vent’anni di depravazioni, dissolutezze e vanità e, successivamente, un periodo di 18 anni di vita familiare in cui benessere, successo letterario, egoismo, ebbero la meglio fino al momento della “conversione” testimoniata da Le Confessioni (1882). Lev aveva allora cinquantaquattro anni. L’idea di scrivere un racconto su La sonata a Kreutzer di Beethoven – che ha inizio nel 1887 – gli venne, stando ad alcune ricostruzioni, in seguito all’ascolto di questo pezzo musicale durante un concerto anche se per cogliere il motivo ispiratore dell’opera conviene affidarsi a quanto dichiarato dall’autore nei suoi Diari:

(…) il sentimento della mia Sonata a Kreutzer appartiene a una donna (…) che mi scrisse una lettera straordinaria per il suo contenuto, che trattava dello stato di soggezione della donna asservita alle esigenze sessuali del suo partner.

Il riconoscimento della posizione di schiavitù della donna e il richiamo esplicito al suo asservimento alle esigenze sessuali del suo partner, è un tema che allerta la nostra attenzione sulla fondatezza o meno dell’ accusa di misoginia mossagli dal suo amico Gor’kij e sul giudizio inclemente della moglie Sofia nell’indicare nella “cattiveria” l’ingrediente essenziale che nutre la scrittura della Sonata. Credo però che anziché prender subito partito pro o contro la misoginia di Tolstoj, sia per noi più interessante considerare l’ impossibile della relazione uomo-donna che attraversa le pagine della Sonata, all’interno di una cornice più ampia in cui lo stesso Tolstoj del resto la colloca: dentro quell’ordine simbolico patriarcale di cui le singole relazioni individuali fra i sessi, inclusa quella dei due personaggi del romanzo, sono soltanto il riflesso. Quando Tolstoj scrive:

La depravazione, l’autentica dissolutezza consiste proprio nell’escludere qualsiasi rapporto morale nei confronti di una donna con cui si intrattiene un rapporto fisico

la sua denunzia colpisce al cuore un sistema di pensiero, un modello pedagogico-ideologico di virilità che, complice la scienza del tempo, incoraggiava lui e giovani del suo tempo all’uso depravato del corpo delle donne e, indirettamente, un paradigma culturale fondato sull’assioma del primato virile di un soggetto unico e maschile in evidente contrasto con un’etica della relazione. Non solo, ma ciò che da tale paradigma pedagogico viene inevitabilmente incentivata, è la ben nota rappresentazione di un femminile scisso fra verginità e prostituzione, fra sessualità e procreazione – una scissione che incontriamo in diversi punti di questo racconto. E’ importante rilevare che proprio a questo incoraggiamento dei maschi alla prostituzione – sostenuto dall’idea della medicina che il vizio fa bene alla salute – che Tolstoj, divenuto un “puttaniere” di professione, imputa “l’origine della sua rovina”:

Anch’io divenni un puttaniere e tale sono restato, ed è stata proprio questa l’origine della mia rovina.

A essere prese di mira dalla critica di Tolstoj sono dunque la cultura e l’educazione del suo tempo impartite a uomini e donne. Sentiamo come si pronuncia a proposito delle donne:

Oggi si parla molto di un nuovo genere di educazione per la donna. Sono tutte sciocchezze; l’educazione che viene oggi impartita alle donne è esattamente quella che esse devono necessariamente ricevere, dato il comune concetto in cui la donna, al di là di ogni finzione, viene effettivamente tenuta dalla società. E del resto l’educazione delle donne dovrà sempre per forza corrispondere alla considerazione in cui la tengono gli uomini (…) Wein, Weib und Gesang (vino donne e canto) (…) la considerazione che hanno di lei è sempre la stessa: la donna è un oggetto di piacere e il suo corpo è uno strumento per ottenere piacere (…). E la stessa cosa accade per l’emancipazione della donna (…). E allora dichiarano libera la donna, le riconoscono ogni diritto parificandola in questo agli uomini ma continuano pur sempre a considerarla un oggetto di piacere e la educano in modo conforme a ciò (…). E così lei continua ad essere una schiava umiliata e l’uomo a essere un corruttore e un proprietario di schiave.

Ma c’è di più, c’è una sorprendente lungimiranza nel riconoscere nella sofferenza femminile, in particolare nell’isteria – ai cui attacchi sua moglie Sofia era soggetta, il marchio di quella cultura da cui l’ ordine simbolico è impregnato. Ai teorici della storia, della pedagogia, della sociologia, della teologia, del diritto e della medicina Tolstoj, nei suoi scritti non narrativi considerati “minori”, non risparmia l’accusa di non aver denunziato le storture imposte da un sistema che è all’origine delle malattie più diffuse. Mi sembrano tre, oltre a un marito e a una moglie, i protagonisti di questo racconto: la gelosia, la musica, – “lo strumento più raffinato per eccitare la lascivia dei sensi” – il dubbio radicale circa l’effettivo tradimento della moglie che accompagna il lettore fino alla fine. Ma c’e anche l’odio. Li incontriamo ripercorrendo alcuni passaggi nodali del monologo di Pozdnysev, a cominciare dalla sua luna di miele con Sofia durante la quale all’aria di noia e disincanto che sin dai primissimi giorni si respira, si alternano scoppi d’ira improvvisi che si ripeteranno, sempre più ravvicinati, nel tempo:

Provavo continuamente soltanto un senso di schifo, di vergogna, di tedio. Ma ben presto la situazione diventò addirittura tormentosa (…). Un giorno, mi pare che fosse il terzo o quarto giorno, trovai mia moglie molto melanconica; le chiesi che cosa avesse, presi ad abbracciarla – il che, secondo me, era ciò di meglio che essa potesse desiderare – ma lei invece si liberò e scoppiò a piangere (…). Probabilmente i suoi nervi spossati le suggerivano la verità sulla natura disgustosa del nostro rapporto (…). A un certo punto mi disse che vedeva bene che io non l’amavo. La rimproverai dicendole che faceva i capricci, ed ecco che improvvisamente il suo volto mutò completamente espressione (…). La guardai bene in faccia e vidi che tutto il suo volto esprimeva la più completa freddezza e addirittura ostilità e odio nei miei confronti. L’impressione che mi restò di quel primo litigio fu terribile. Io lo definisco un litigio ma, in realtà fu semplicemente la scoperta del profondissimo abisso che ci divideva. L’innamoramento si era esaurito in seguito alla soddisfazione dei sensi, e noi eravamo rimasti uno di fronte all’altra nel nostro reale reciproco rapporto, e cioè nel rapporto di due egoisti completamente estranei l’uno all’altra (…).

Sino a quando, in un continuo alternarsi di ostilità la cui soluzione viene affidata a ondate di sensualità improvvise  “o, come si suol dire, di amore”, il rapporto, sempre più logoro, di Pozdnysev con la moglie  si avvia verso la disfatta:

Che ora è? E’ ora di dormire. Che c’è oggi a pranzo? Dove si va? Che c’è scritto oggi sui giornali? Bisogna chiamare il dottore; Masa ha mal di gola. (75).

E’ l’inizio della fine, il momento dell’approssimarsi, nel racconto, dell’esplosione di un odio – troppo a lungo rappreso – allo stato puro: quello che, senza più freni, non intende privarsi neppure del piacere sadico della denigrazione che accompagna la disintegrazione dell’oggetto d’amore:

Quanto a me posso dire che certe volte sentivo ribollirmi dentro un terribile odio contro di lei! Certe volte la guardavo osservando come versava il tè, come dondolava una gamba, come sollevava il cucchiaino alle labbra, vi soffiava sopra spandendo il tè e poi lo succhiava dal cucchiaino stesso, e solo e proprio per questo la odiavo ferocemente (…). (p. 76). Allora non mi rendevo conto del fatto che questi periodi di rabbia contro di lei nascevano in me a intervalli assolutamente regolari, in corrispondenza con quello che noi chiamavamo amore. Un periodo d’amore equivaleva a un periodo di liti coniugali; un energico periodo d’amore equivaleva a un lungo periodo di guerra(…). Ma noi allora non capivamo che quel cosiddetto amore e quell’ ostilità erano in sostanza uno stesso sentimento animalesco, che però si presentava in aspetti diversi. Vivere in tal modo sarebbe stato terribile se noi avessimo compreso la nostra situazione, ma noi invece non la vedevamo e non la capivamo. In questo appunto sta sia la salvezza che il castigo dell’uomo: nel fatto che, quando vive male, egli può sempre stordirsi per non vedere tutta la miseria della sua condizione. E così facevamo anche noi (…). Così vivevamo, perennemente avvolti in una specie di nebbia che c’impediva di vedere la nostra reale situazione, e se non fosse successo quel ch’è successo, certo io avrei continuato a vivere così fino alla vecchiaia(…). Certo non avrei mai scorto l’ abisso d’infelicità e il pantano di disgustosa menzogna in cui mi dibattevo. Eravamo due forzati legati alla stessa catena, che si odiano ferocemente e si avvelenano la vita a vicenda, facendo tuttavia ogni sforzo per non rendersene conto.  (pp. 76-77)

E’ il momento dello svelamento della verità – la grande passione di Tolstoj – e non è difficile ritrovare quel nesso fra la verità e la morte, che abbiamo ascoltato, nel nostro incontro precedente, dalle parole di Firdaus, la prostituta di Benin City condannata a morte. Ma “il lampo che squarcia la nebbia” – direbbe Michelstaedter – che fa uscire Pozdnysev dall’ubriacatura e dallo “stordimento” e che gli permette di vedere “l’abisso d’infelicità” e di spezzare finalmente la catena in cui si trova imprigionato, si accende per lui solo una volta compiuto l’ultimo atto della tragedia: “se non fosse successo quel ch’è successo” – dirà – riferendosi  all’assassinio di sua moglie. Era questo lo stato della relazione fra Pozdnysev sua moglie “quando spuntò fuori quell’uomo”, Truchacevsky, il musicista arrivato da Mosca  che Pozdnyev, in preda a un “impulso quasi fatale” e spinto da una “certa forza (…) contraria alla sua volontà”, non solo non fece nulla per allontanare dalla sua casa, ma fece di tutto per avvicinarvelo invitandolo, una sera, a suonare con sua moglie. Di lì il tormento della gelosia prende corpo e la furia, domata, si trasforma in una particolare affabilità di Pozdsnyev nei riguardi dell’intruso:

Eseguirono la Sonata a Kreutzer di Beethoven (…). Oh, è qualcosa di terribile quella sonata iniziale …. Del resto, la musica in generale è una cosa tremenda. Ma che cos’è poi?… Cos’è la musica? Che effetto ha su di noi?…Essa non ha l’effetto di elevare l’animo, e nemmeno di abbatterlo, bensì quello di eccitarlo…Su di me l’esecuzione di quel pezzo ebbe un effetto terribile: fu come se mi si scoprissero sentimenti nuovi, che mi pareva di non aver mai conosciuto, come se mi si svelassero nuove possibilità di cui fino ad allora non avevo avuto sentore. Fu come se una voce mi parlasse nell’intimo e mi dicesse: ecco com’è che si deve vivere e pensare e non come vivevi e pensavi prima! Non potevo assolutamente rendermi conto in che consistesse quella novità che mi si era rivelata, ma la semplice coscienza di questa nuova condizione spirituale mi dava molta gioia. Tutte le persone che avevo lì intorno, compreso lui e mia moglie, mi apparivano adesso in tutt’altra luce (…). Da quel momento mi sentii leggero e di ottimo umore (…). Mia moglie, poi, non l’avevo mai vista così bella come quella sera: quegli occhi scintillanti, quell’espressione severa e così ricca di significato mentre sonava e più tardi quell’estremo rilassamento di tutta la persona, quel sorriso incerto, che esprimeva allo stesso tempo pena e beatitudine (..). Io osservai tutto ciò, ma non vi attribuii nessun particolare significato; pensai soltanto che anche lei provasse quel che provavo io, che anche a lei, come a me, si fossero improvvisamente rivelati, come se riemergessero dal fondo della coscienza, dei sentimenti nuovi e mai sperimentati. (102)

Nella musica, la sola magia in cui, dimentichi di se stessi, della propria situazione concreta ci si lascia trasportare in un Luogo diverso, in cui si riesce a sentire ciò che più non si sente, a capire ciò che non si comprende, a fare cose che non si possono fare, lui ritrova, per un attimo, lei. Ma è la quiete prima della tempesta: “Il furibondo mostro della gelosia” e lo scatenamento del delirio di possesso si erano già annunciati, in verità, quando, agli occhi di Pozdnysev, Sofija cessa di essere solo una madre per diventare una donna desiderante:

(…) la cosa terribile era che io mi attribuivo un pieno e indiscutibile diritto sul corpo di lei, come se si fosse trattato del mio proprio corpo, e allo stesso tempo sentivo che  io non ero in grado di dominare quel corpo, che esso non era mio e che lei invece poteva disporre di esso come le pareva meglio (…).

E poteva farlo  grazie alla complicità

di quei mascalzoni dei dottori (che) le proibirono di aver figli (… ). Era rifiorita in lei una bellezza provocante, che turbava gli uomini (…). Era come una cavalla ben riposata e ben pasciuta che sia stata attaccata al carro senza le briglie (…). Tutto questo io lo sentivo benissimo e ne avevo paura (…). Lei era come se fosse uscita da uno stato di ubriachezza, era tornata in sé, si era guardata intorno e aveva visto che intorno a lei c’era tutto un mondo con le sue gioie. (79-80)

La paura, eccola: la paura della perdita di dominio totale sul desiderio della donna e sul suo corpo ridotto a proprietà:

volevo (…) che lei non desiderasse ciò che doveva desiderare.

E lei? Ma chi era lei? Lei era un mistero e sempre lo era stata… 

Così, con questi pensieri, Pozdnysev, dopo essersi allontanato da casa per qualche giorno, tormentato dall’orribile ricordo di un’occhiata e di un “mezzo sorriso” che i due si erano scambiati, quella sera, al termine della Sonata, viene assalito dal dubbio e, torturato dalla sua ossessione, decide improvvisamente di far ritorno a casa:

Forse non mi ha detto lei stessa che per lei è umiliante già il solo pensiero che io possa essere geloso di lui? Ma lei mente, non fa che mentire, continuamente! Esclamavo, e l’immaginazione continuava a tormentarmi (…). Soffrivo orribilmente, e la massima sofferenza stava nel non sapere, nell’essere in preda al dubbio, nell’intima divisione del mio animo, nel non sapere se dovevo odiarla o amarla. Le mie sofferenze erano così forti che a un certo punto mi venne l’idea, che mi parve molto allettante, di scendere sulla strada ferrata, stendermi sui binari e così farla finita. (108-109).

Giunto a casa, Pozdnysev scopre che è successo davvero ciò che prima era solo frutto della sua immaginazione: lui, il musicista è lì, a casa sua, in sua assenza, con sua moglie, a un’ora tarda e fugato ogni dubbio, si appresta ad agire:

Sapevo soltanto che ormai tutto era finito che non ci poteva essere nessun dubbio sulla sua colpevolezza (…). Prima avevo ancora delle esitazioni (…) ma ora ogni esitazione era scomparsa (…). (113)

Mi  accostai alla porta facendo meno rumore che potevo, e quindi l’aprii di colpo. Ricordo ancora l’espressione dei loro volti. Me la ricordo perché quella loro espressione mi procurò una gioia straziante: era l’espressione del terrore, ed era proprio quella che volevo leggere sui loro visi. (116)

Ed è nel bel mezzo del terrore che una nota tragicomica – un particolare che  uno scrittore tragico come Tolstoj non avrebbe mai potuto trascurare, ci fa sorridere: la ridicolaggine cui Pozdnysev sarebbe andato incontro nel rincorrere l’amante della moglie in calzini: “non volevo essere ridicolo, volevo essere terribile!”

Cominciai a capire solo quando la vidi nella fossa (…). Un singhiozzo gli spezzò la voce, ma lui si dominò e riprese subito a dire in fretta: “Soltanto allora, solo quando vidi il suo volto privo di vita, compresi veramente quello che avevo fatto. Capii che io, proprio io l’avevo uccisa, era opera mia il fatto che lei, che prima era viva, calda animata, ora invece se ne stava lì immobile, fredda, come di cera e che questo non si poteva mai più in nessun modo rimediare. (124)

Avvertiamo ancora, nel tocco magistrale di queste ultime battute, l’ossessione del dubbio che si fa certezza solo attraverso la morte -“Io proprio io”, “era opera mia”, “lei che prima era viva” –  anche se neppure la morte, che nulla concede all’incertezza, potrà eliminare il dubbio di Pozdnysev sul tradimento di sua moglie: ad esser certa è la morte di Sofia, non il dubbio di chi resta.