NON UCCIDERE

Adriana Cavarero

Per il ciclo “Una stanza tutta per noi” organizzato da Oikos-bios (Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza) e da Bruna Bianchi Docente di Storia delle donne all’Università di Venezia

Da un incontro a Padova Libreria Feltrinelli, con ADRIANA CAVARERO sul suo libro NON UCCIDERE.

Presentato da Paola Zaretti

Ho invitato A. Cavarero, Docente di Filosofia politica all’Università di Verona – figura di grande spicco del “pensiero della differenza” a livello nazionale e internazionale e autorevole esponente degli studi su Arendt – a parlarci del suo ultimo libro Non uccidere, scritto in collaborazione con Angelo Scola, Docente di teologia, Patriarca di Venezia dal 2002 e cardinale dal 2003 ma spero che avremo modo di accennare anche ad altri testi meno recenti di capitale importanza.

Il comandamento Non uccidere è un comandamento debole – scrive Adriana – ed è su questa debolezza e sulle sue conseguenze etiche che il suo Saggio si interroga. E’ possibile” – si chiede – sostenere un’etica radicale della non violenza come fa il filosofo ebreo Levinas e pensare al tempo stesso – è il caso di Levinas ma anche di Freud – che “il desiderio di uccidere sia uno degli stimoli primari degli esseri umani”? E’ davvero così o ci sono, al di là di una “versione maschile della storia”, altre narrazioni possibili dell’umano che non incominciano dal fratricidio (Caino) dal parricidio (Edipo) o da stirpi guerriere? E’ questa domanda introduttiva, fondamentale, ad avviare e ad attraversare il Saggio di Cavarero contenuto in questo libro – significativamente intitolato Archeologia dell’omicidio – alla quale Adriana, qui come altrove ma in modo, se possibile, più caparbio e deciso, cerca di rispondere, spinta, come dice, da un “curiosità filosofica”. Una curiosità che la porta a interrogarsi sulle ragioni profonde per le quali il comandamento Non uccidere, a differenza degli altri comandamenti del Decalogo, abbia uno statuto talmente speciale da non sopportare il “mai”, da non tollerare insomma né l’assolutezza né l’incondizionatezza del divieto. Ho ritrovato e riconosciuto, nel passo, nell’andamento e nel finale di questo saggio, a di là delle innovazioni contenute, i medesimi assi teorici di riferimento su cui Adriana si era mossa vent’anni or sono, nel suo Nonostante Platone riedito nel 2009: da un lato il “pensiero della differenza” e l’importanza che questo assume per l’autrice e, dall’altro, la centralità della categoria arendtiana di nascita in contrasto con la categoria di morte quale ci è stata consegnata dalla tradizione filosofica patriarcale a cominciare da Parmenide e, con qualche “gentile” variante, da Platone.

Inizierei, prima di dare la parola alla nostra ospite, con qualche nota biografica ricordando che Adriana Cavarero, si è laureata in Filosofia all’Università di Padova presso la quale ha lavorato fino al 1984 prendendo attivamente parte, nel ’75, assieme a Luisa Muraro, alla fondazione della Libreria delle donne di Milano e, nel 1984, alla Comunità di Diotima da cui si è dimessa nel 1990. Adriana Cavarero è, come J. Butler – con cui condivide il grande merito di aver sottratto il discorso femminista a un orizzonte puramente rivendicazionista – una filosofa radicale (una filosofa o un filosofo o è radicale o, semplicemente non è), ed è questa sua posizione, oltre alla sua dichiarata passione per Hannah Arendt – riconosciuta da lei stessa, come una madre, e “dal principio”, – una delle tante ragioni per le quali l’ho invitata ad essere qui ringraziandola, innanzi tutto, anche a nome e per conto delle donne che fanno parte di Oikos-bios e che lavorano, assieme a me, sui suoi testi da alcuni anni. Mi preme aggiungere che questo invito è frutto di una scelta meditata, di un desiderio mirato e alimentato dal fatto che il suo pensiero, anche per via di molte affinità elettive – l’amore per Arendt, il radicalismo, l’approccio critico alla psicanalisi – riesce sempre a trasmettermi – diversamente da quanto mi capita leggendo alcune filosofe del femminismo italiano – qualcosa di più, qualcosa di prossimo a quella felicità che trasuda non solo dal suo Nonostante Platone  (I ed. 1990, II 2009), “un libro felice”, così altrettanto felicemente da lei stessa definito. Questo qualcosa di più nasce da un che di familiare, heimlich, avrebbe detto Freud, da quella familiarità che Arendt descrive così bene allorché, incalzata da Gunter Gaus a dar conto del significato e del senso del suo scrivere – che consistono per lei in un “cercare di comprendere”  –  afferma di provare un senso di appagamento, di “sentirsi a casa” propria tutte le volte che gli altri comprendono “nello stesso senso” in cui lei ha compreso.

Ecco, è nel solco di questo genere di affinità dovuta al potere generante e ri-generante della scrittura, che i pensieri di Adriana hanno incrociato i miei come note a me familiari. E non è poco in un momento in cui i discorsi attualmente in scena sulla violenza e sulla guerra sembrano fabbricati per meglio ostruirne l’origine, la radice. Pensare, per Adriana, come per Butler, è pensare, qui come altrove, la radice della violenza come ben ci ricorda: Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale che è il titolo di un Seminario tenuto presso il Centro di S. Apollinare di Fiesole pubblicato nel 2007. Una seconda ragione del mio interesse per il suo pensiero, è l’appassionante dialogo a distanza con la filosofa statunitense Judith Butler – il cui pensiero in Italia è stato reso noto grazie a lei – riportato in Differenza e relazione a cura di Lorenzo Bernini e Olivia Guaraldo. Un dialogo che, nonostante una certa differenza teorica ed epistemologica dovuta alla diverse correnti femministe cui queste due pensatrici fanno  riferimento, mostra tuttavia delle sensibili convergenze sia sul tema della vulnerabilità cui come esseri umani  siamo esposti – ricordo a questo proposito Vite precarie di Butler pubblicato dopo il disastro dell’11 Settembre 2001 e Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme di Cavarero sia per quanto riguarda l’ affinità etica e politica che lega il pensiero di queste due pensatrici. Una terza ragione, infine – quella che interroga e scava più a fondo nel versante psicanalitico della mia formazione, quella che, più di altre, incrocia e incalza la mia riflessione soprattutto in ordine alle differenti posizioni assunte da Cavarero e da Butler nei riguardi della psicanalisi – è l’approccio decisamente critico (che Adriana condivide con Arendt), ribadito anche in Non uccidere, nei riguardi di una concezione naturalistica della violenza sostenuta, psicanalisi inclusa, dalle moderne scienze sociali. Cavarero, come Arendt, mette giustamente in questione la “plausibilità stessa di una “natura umana” intesa in termini oggettivi a-storici e modellata unicamente sull’uomo come paradigma astratto e universale. (Cfr. Bernini, Guaraldo, Differenza e relazione, p. 123). Di qui la sua preferenza per l’uso della categoria filosofica arendtiana di “condizione umana” piuttosto che della categoria psicanalitica “natura umana” e la critica rivolta alle moderne scienze sociali:

Le moderne scienze sociali, per stare alla tesi arendtiana – scrive – fanno però un passo ulteriore: la guerra, come la violenza è da loro ascritta non solo a “un insopprimibile istinto di aggressione, ma anche  a un “segreto desiderio di morte della specie umana”. Sono dunque Freud e la psicanalisi a venire  inevitabilmente in primo piano”. (Orrorismo, Il piacere del guerriero).

La sua critica colpisce dunque al cuore l’assioma di un’origine naturale, pulsionale della violenza e, con esso, il concetto freudiano di pulsione di morte e gli impulsi distruttivi che “non di rado” – aggiunge – per “il loro risvolto orrorista” “a la Bataille”, finirebbero per acquistare per le scienze sociali “lo statuto di principi noti, indiscutibili ed evidenti”. E’ su questo aspetto che il confronto con Butler si fa serrato, sfiorando, talvolta, una polemica, a mio avviso, quanto mai feconda: il pericolo paventato da Cavarero è che “l’istanza metafisica di una natura umana”, violenta e distruttiva, “uguale per tutti” venga ribadita e statuita. Ebbene, sta proprio qui, nel rifiuto di questo egualitarismo generalizzato e indifferenziato e nel rimando a un’esigenza teorica di differenziazione, un primo elemento che la distingue da Butler che nonostante la sua presa di distanza dal naturalismo e la sottolineatura dell”estraneità” di un certo tipo di psicanalisi a tale concezione, è tuttavia più decisa ad accettare di radicare la violenza, il desiderio di uccidere nella sfera delle pulsioni.

Accettare la posizione di Butler significa, per Adriana, non solo rinunciare definitivamente a pensare “a delle filosofie dell’umano che non ne postulino la naturale aggressività”, ma rinunciare anche ad affermare una natura umana non UNA – maschile singolare, astratta e universale – ma Molteplice e Differente, liberando così dalla “naturalità” di tali impulsi distruttivi “coloro che non condividono né la volontà di uccidere, né, tantomeno, quella di farsi uccidere”, come, per esempio, le vittime civili straziate dalle guerre e addebitando, piuttosto, l’insopprimibilità di tali impulsi distruttivi  alla figura del “guerriero”, la sola figura paradigmatica cui il piacere  della carneficina, la mattanza, il godimento e l’eccitazione ben si addice e conforma. La pulsione di morte, dunque, non essendo un principio uni-versale indiscutibile, non può nemmeno essere indiscriminatamente attribuita alla “natura” del genere umano, formato, com’è, questo genere, non dall’Uomo, non dalla Donna ma da una pluralità di uomini e donne. Ma, d’altro canto, una volta negata l’esistenza di una pulsione aggressiva – obietta Butler – diventa impossibile spiegare “quei comportamenti “umani” che cercano di negare e distruggere questa condizione umana. Dobbiamo dunque ammettere, secondo Butler, che se “l’ umano può rivoltarsi contro l’umanità”, “lo fa perché trova insopportabile la sua stessa condizione umana”, dobbiamo ammettere che sia all’opera qualcosa dell’ordine di una pulsione distruttiva, di una pulsione di morte. Si ha l’impressione, leggendo questo dialogo, di trovarsi in un vicolo cieco, in un circolo vizioso senza d’uscita.

Eppure così non può essere perché proprio quell’ordine simbolico patriarcale e androcentrico instaurato sulla cancellazione della Madre, quell’ordine che ha assunto – sintomaticamente – scrive Adriana – come suo paradigma fondante la morte anziché la nascita, non solo non è del tutto sgombro da quel “desiderio di morte della specie umana” teorizzato da Freud, ma tale desiderio, nella sua declinazione maschile, è talmente presente in alcuni dei suoi testi, da essere oggetto di un’indagine rigorosa – filosofica, etica e politica – che, a partire dalla centralità della categoria arendtiana di nascita, spazia a tutto campo su una tradizione filosofica abitata e ossessivamente governata dal primato della morte sulla vita rovesciandone la prospettiva. E nasce allora la domanda: se dalla costruzione di un ordine simbolico patriarcale e androcentrico fondato sulla categoria della morte invece che su quella della nascita, eliminiamo l’azione di una pulsione distruttiva, che cosa sta a fondamento della costruzione di tale ordine? Un’ angoscia di morte – di sparizione – dice Adriana, che, a cominciare da Parmenide, pervade la metafisica occidentale che vede in tutto ciò che diviene e si trasforma – e dunque nella vita stessa – il pericolo di un ritorno al niente. “Un niente” – scrive – di cui l’umano non sopporta il concetto”.

Ecco, credo che distinguere e connettere l’angoscia di morte – che partecipa sia del registro psicanalitico della “natura” che di quello filosofico di “condizione umana” – dalla pulsione di morte  che da questa angoscia viene attivata nel tentativo  dell’uomo di rimediare all’orrore della propria finitudine, sia utile per comprendere come proprio questa angoscia di morte abbia dato luogo alla costruzione di un sistema di pensiero che solo negando la centralità ontologica della categoria della nascita, ha potuto fronteggiare la paura della morte: chi non nasce non muore, infatti. Ma distinguere, nella costruzione del simbolico occidentale, l’angoscia di morte dalla pulsione di morte intesa come spinta a uccidere non basta: è necessario domandarsi se questa angoscia riguardi l'”umano” in modo indifferenziato o se sia plausibile ipotizzare, nei due generi,  una diversa disponibilità all’accettazione della finitudine a partire da un diverso modo, di uomini e donne, di rapportarsi alla nascita e alla vita. Come si rapporta l’uomo alla vita e alla morte? Come si rapporta la donna alla vita e alla morte? Le parole che Giuseppe rivolge alla sua sposa, alla vergine Maria, sono, a questo proposito illuminanti:

E già, un uomo che ne sa lui? Miriàm (Maria), gli uomini sono bravi a fare qualche mestiere e a chiacchierare, ma sono persi davanti alla nascita e alla morte. Sono cose che non capiscono. Ci vogliono le donne al momento della schiusa e all’ora di chiusura. (Erri De Luca, In nome della Madre)

La pulsione di morte, la voglia di uccidere non ha nulla di naturale, è vero, essa è l’effetto di questa angoscia: si uccide per accumulare vita, ricorda S. Natoli – quella vita aggiungo io che, se pur vivi, non si ha il coraggio di vivere.  Ma la vita che se pur vivi non si ha, la vita che se pur vivi non può essere vissuta, è, propriamente parlando, la vita di coloro che sono affetti da quel genere di nevrosi, un tempo tipicamente maschile, che si chiama nevrosi ossessiva. Quando Cavarero scrive: “Vivere è soprattutto nascere e poi, solo alla fine anche morire” o scrive, con Arendt, che “l’esercizio della filosofia è un’anticipazione della morte”, descrive con precisione davvero impressionante, l”infelice condizione individuale dell’ossessivo che, per non morire, evita di nascere e di vivere passando la vita a “fare il morto” essendo la colpa di esistere la sua unica vera colpa.

Ecco, direi, per concludere, che l’aspetto più interessante che ho potuto ricavare dall’ analisi e dall’esito dell’indagine filosofica condotta da Adriana sulla centralità della morte nella filosofia occidentale – che è anche il tema del suo Non uccidere – coincide in modo stupefacente e a dir poco inquietante con una diagnostica riguardante questo genere di sofferenza che si sta oggi diffondendo anche fra le donne. Questa strana coincidenza che intreccia due percorsi diversi – filosofico e psicanalitico – suggerisce, forse, di raccogliere l’invito di Freud di andare oltre lo studio delle nevrosi individuali, per indagare sulle nevrosi della civiltà, o come direbbe Adriana, sul processo di civilizzazione.  Ed è qui che la psicanalisi – chiamata giustamente in causa da Cavarero e invitata a rinunciare “alle sue pretese cliniche”, potrebbe ancora dare il suo contributo. E’ qui, forse, che psicanalisi e filosofia possono incontrarsi ma ciò comporta l’apertura della psicanalisi verso nuovi orizzonti teorici, verso una radicale revisione della sua “dottrina” sulla pulsione di morte a partire da un’angoscia di morte diversamente declinata nei due sessi.

Non è forse a questa differente declinazione ciò cui allude Cavarero nel ricordare, in Non uccidere le parole di Derridà?

In secoli e secoli di guerre e di costumi, cappelli, uniformi, tonache, e guerrieri, colonnelli, generali, partigiani, strateghi,, e politici, professori, teorici del politico, teologi, invano cercherete la figura di una donna.

 

Adriana Cavarero