L’Ospite

Materno 11In attesa di incidere sulla nostra Tabula rasa il titolo di uno Spazio che vorremmo dedicare al materno – STATO INTERESSANTE –  pubblichiamo in anteprima  “L’OSPITE”, il testo in cui Emanuela narra la sua difficile  esperienza di madre di una figlia autistica. A rendere la condizione di vita di Emanuela meno tragica e insopportabile, c’è, accanto alla Madre, oltre la madre, al di là della madre che lei è, la  presenza della  Donna. Il tema del rapporto fra la madre e la donna –  che assume nel particolare contesto di vita di Emanuela una luce tutta speciale – verrà ripreso e da lei sviluppato in un prossimo articolo.

STATO INTERESSANTE
di Emanuela Borrelli /L’Ospite

Alma è stata concepita il 16 aprile 1987. In quel periodo vivevo ancora a Roma, la città dove sono nata e ho vissuto fino all’età di trent’anni e dove ho iniziato a lavorare molto giovane (non avevo ancora 18 anni), frequentando continuamente, corsi, scuole serali,  sostenendo un’analisi personale durata sei anni, contemporaneamente alla formazione in psicoterapia presso un istituto privato, iscrivendomi alla facoltà di psicologia presso l’università La Sapienza. Con il padre di Alma ci eravamo conosciuti in Grecia nell’estate dell’86, proprio quando con l’uomo con cui stavo da otto anni avevamo finalmente deciso di andare a vivere insieme.  Invece fu l’inizio di un’altra storia che sembrava impossibile: lui milanese che viveva e lavorava a Milano e io romana che vivevo e lavoravo a Roma; un andirivieni di viaggi in treno e costosissime bollette telefoniche, per questo si decise di comune accordo che il mese di maggio dell’87 sarebbe stato il termine ultimo per trasferirsi lui a Roma, io a Milano, altrimenti la nostra storia avrebbe avuto un fine. Invece a concludersi fu il rapporto di lavoro con Buffetti a causa del mio rifiuto di un trasferimento a Pomezia. E così, dopo più di dieci anni di lavoro, fui licenziata e non sapevo nemmeno di essere già incinta. Ogni volta che ripenso a quell’anno, l’87, mi sembra di aver vissuto due vite: una prima e una dopo a determinare due dimensioni esistenziali, due vissuti, completamente diversi e separati. Il mio vivere nel milanese ebbe inizio aspettando la nascita di Alma. Per la prima volta disoccupata e dipendente economicamente da un uomo. Un piccolo ospedale  a Ponte dell’Olio, rinomato per il metodo naturale ispirato a Leboyer, era il posto che scelsi per il parto.  Tutto filò liscio come l’olio, proprio come il ponte, e dopo un lungo travaglio durato tutta la notte, Alma nacque senza difficoltà il 9 febbraio 1988 alle 9.10 di mattina. Fu suo padre a tagliare il cordone ombelicale.  Ero diventata madre di una bambina che allattavo al seno, era sana, cresceva benissimo diventando sempre più bella. Quello che preoccupava erano certi modi particolari di piangere insistentemente, senza un comprensibile motivo, il dormire poco la notte richiedendo la mia vicinanza e quella di suo padre. L’ossessione per il seno cui sembrava proprio non voler rinunciare e quel suo guardare  di lato, oppure un punto del soffitto vicino alla luce. A due anni e mezzo la prima diagnosi: tratti autistici. Percepivo me stessa come catapultata in una dimensione fuori dal comune, cui non ero minimamente preparata. L’autismo di mia figlia ė stata una diagnosi che mi ha portata altrove, dove non sarei mai voluta stare. Riprendevo a sfogliare i libri di  Melanie Klain, di Winnicott, per capire e cercare una spiegazione logica, comprensibile, accettabile…. Ma che razza d’informazioni avevo avuto sull’autismo  se nulla di quello che leggevo e rileggevo, nessuna teoria, corrispondeva a ciò che vivevo e avevo davanti: una bambina che era mia figlia, voluta e amata, non sorda, non muta, non cieca; che udiva  ma non parlava e sembrava non vedere, non sentire, non capire…oppure ero io che non capivo lei? Alma non imparava spontaneamente e sembrava non interessata a quello che altri bambini ritenevano interessante.  Dalle visite specialistiche, accertamenti diagnostici, risonanza magnetica, non risulta nessuna anomalia. Ma allora? Che significava… Una neuropsichiatra della clinica universitaria di Bologna, durante uno dei numerosi ricoveri per accertamenti,  mi disse che l’autismo è definito un handicap criptogenetico… Come dire che bisognava tornare a scavare… ma in quale cripta? Guardandola addormentata la mia mente tornava prepotentemente a quei silenzi severi, insopportabili e opprimenti di mio padre. Non capivo mai cosa gli passava per la testa e quello che trasmettevano quei silenzi era solo severità e chiusura.  Avevo 17 anni quando lui ebbe un infarto proprio mentre parlavamo insieme,  soli, lui e io, una volta tanto serenamente. Anche da mia figlia arrivava uno strano silenzio: l’impossibilità di comunicare. La sua mente sembrava funzionare diversamente: come se avesse avuto altre forme di pensiero e di percezione della realtà che per me erano sconosciute. Mi sentivo dannatamente fragile, stupida, impotente, persa… arrabbiata. Alma aveva e ha tutt’ora una resistenza fisica impressionante e ai suoi malesseri non  seguono comportamenti prevedibili. Lei sembra comunicare con tutta se stessa espressa attraverso il suo  corpo: stando ore e ore in piedi, spingendomi dove vuole lei, oppure aggrappandosi a me fisicamente, cercando di graffiarmi, di strapparmi i capelli e spingermi come a dimostrare quello che la fa stare male. Ricordo quando  aveva 12 anni che stette più di dieci giorni senza dormire mai di notte e pochissimo di giorno.  Non potevo aiutarla, comprenderla e nessuno era in grado d’intervenire,  spiegare  o fare qualcosa di sensato: una terapia riconosciuta come valida per l’autismo sembrava non esistere e Alma non rispondeva positivamente nemmeno a quegli interventi educativo-comportamentali attivati in Italia da esperti.  La sua mente funzionava diversamente e tutti quei “geni” che avevano scritto di autismo mi rimbalzavano in testa con le loro teorie che invece di aiutare a capire generavano altri dubbi, insicurezza, confusione e inutili quanto costose  psicoterapie secondo cui bisognava stendere la madre sul lettino per curare il figlio autistico. Purtroppo alcuni testi, ancora oggi, come La fortezza vuota e teorie sull’autismo come quella della “madre frigorifero” (Bruno Bettelheim) o della “madre coccodrilla” (Lacan) sono ancora in circolazione e pretendono di formare  studenti universitari sull’autismo. Più cercavo di capire l’autismo per capire mia figlia, più mi rendevo conto che non ci capiva niente nessuno, non solo io che potevo essere emotivamente condizionata.  Sul mercato erano e sono disponibili teorie di tutti i tipi, ma solo i genitori  mi sembravano consapevoli e sensati, impegnati a trovare soluzioni concrete e realistiche per rendere l’autismo del figlio un handicap considerato e trattato in modo adeguato. Era l’8 marzo del ’95, Alma aveva sette anni, quando nacque suo fratello. Ricordo quella bambina, quando tornai a casa col fratellino, aprirmi subito il cappotto per vedere se avevo ancora o no il pancione, poi dirigersi verso la culla cercando di entrarci dentro anche lei. Rimasi impressionata da questo comportamento: Alma era consapevole di tutto e non aveva bisogno delle parole per spiegare quello che sentiva. Mentre allattavo il piccolo al seno, lei mi stava vicina e partecipe, dandomi continui baci e dimostrando affetto, a modo suo, ma anche il bisogno di non essere messa da parte.  Avevo avuto un altro figlio, cosciente del fatto che sarebbe cresciuto in una famiglia speciale e pertanto bisognava allenarlo cercando di proteggerlo. I bambini hanno una meravigliosa disponibilità di adattamento e a sei mesi  Dario iniziava il suo programma di svezzamento: ricordo che gli misi in mano un cucchiaino e la pappa,  ma subito  Alma richiamava la mia attenzione e dovevo darle retta. Così vidi quel bambino che da solo cercava di mangiare riuscendo a cavarsela benissimo, tant’è che in seguito dimostrava di gradire il fare esperienza da solo, richiedendo un minimo di sostegno. Da allora ogni tanto gli racconto, ancora oggi che ha quasi 19 anni: tu ti sei svezzato da solo e sei stato bravissimo. Infatti da piccolo la sua ambizione era fare il “cucinista”. Dario e Alma si sono integrati perfettamente. Il piccolo riusciva a fare cose incredibili con la sorella, tipo inserirle il dito in bocca per guardarle dentro e lei se lo lasciava fare tranquillamente, quando con noi genitori era tutto un problema e non si riusciva nemmeno a pulirle i denti.
Alma ha quasi 26 anni,  è ancora non verbale e si sono aggiunti molti problemi,  tra questi dei comportamenti talvolta insostenibili anche per la forza fisica con cui li esprime. Soprattutto nei miei confronti sembra voler dimostrare tutto il suo disagio, quello che lei sente e che non può comunicare in altro modo. Giorni fa ho scritto una nota in facebook definendo i genitori di persone con autismo ricercatori, aggiungendo incalliti. Si cerca sempre, anche di notte quando si dorme, un modo per far stare bene i propri figli speciali e anche noi genitori abbiamo tanto bisogno di migliorare la qualità della vita esposta a uno stress indescrivibile. L’autismo di mia figlia ha dato una scossa violenta non solo alla madre, ma anche alla donna che ero. Credo sia stata la donna più che la madre a trovare il modo e la forza per non soccombere: ho pensato molto seriamente che quella era la mia vita,  la mia storia e non potevo permettermi di perdere tempo a desiderarne un’altra che non esisteva. Dovevo starci dentro e affrontarla, se possibile a testa alta, proprio come una sfida. Lo dovevo  fare soprattutto per me stessa, perché se non potevo sostenere quella condizione, non potevo nemmeno fare nulla per mia figlia che doveva  crescere, essere educata e vivere in base alla sua condizione reale e non ideale. La madre si sarebbe persa se la donna non fosse stata in grado di stabilire una sua ragione di vita propria, anche in quella dimensione e la permanenza in una condizione di simbiosi madre-figlia avrebbe causato solo paralisi, chiusura, morte. Dovevo e volevo essere comunque felice di qualcosa, non sapevo bene di cosa ma sentivo profondamente che non volevo rassegnarmi alla depressione, al lutto, alla perdita di uno stato mentale libero da etichettature… Quando Alma aveva 8 mesi ricevetti una strana telefonata: una persona mi chiedeva un colloquio per una psicoterapia. Era stata indirizzata a me da Roma, perché una sua conoscente frequentava l’IPA e era in analisi da quella che era stata la mia psicoterapeuta. In quel momento, al telefono, dovevo decidere se potevo e se desideravo essere e considerarmi una psicoterapeuta. Accettai quest’altra sfida e ripresi in mano la mia formazione: stavolta in una scuola milanese, con uno psicoanalista uomo e un gruppo di supervisione che frequentavo regolarmente, spendendo più di quello che guadagnavo. Oltre alla supervisione  ho seguito un percorso di gruppo e individuale con un’analisi personale, stavolta freudiana ortodossa, che prima non avevo sperimentato: le sedute sul classico lettino. Credo sia stato questo percorso, durato altri sei anni,  a darmi la giusta forza per conoscere i miei limiti reali, ma soprattutto le risorse dettate proprio da quella condizione straordinaria. Rimasta incinta del secondo figlio  ho sentito che quella della psicoanalisi non era una strada che potevo continuare a percorrere perché richiedeva ulteriori formazioni e studi che non erano per me possibili, diciamo che non sentivo il desiderio e così si concluse anche quell’esperienza.
Quando lasciammo quel reparto maternità a Ponte dell’Olio ci dettero un foglietto con una scritta che appariva anche in un grande quadro appeso all’ingresso della sala parto: “I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della vita stessa. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e non vi appartengono benché viviate insieme. Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro, poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare. Cercherete d’imitarli, ma non potrete farli simili a voi, poiché la vita procede e non s’attarda su ieri. Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccate lontano.” di Gibran Kahlil Gibran
Queste parole sono rimaste impresse nella mia mente, perché non riesco e non posso permettermi d’immaginare mia figlia Alma come una freccia, certamente viva, da scoccare lontano.

2 risposte a “L’Ospite

  1. “L’autismo di mia figlia ha dato una scossa violenta non solo alla madre, ma anche alla donna che ero. Credo sia stata la donna più che la madre a trovare il modo e la forza per non soccombere: ho pensato molto seriamente che quella era la mia vita, la mia storia e non potevo permettermi di perdere tempo a desiderarne un’altra che non esisteva. Dovevo starci dentro e affrontarla, se possibile a testa alta, proprio come una sfida…La madre si sarebbe persa se la donna non fosse stata in grado di stabilire una sua ragione di vita propria, anche in quella dimensione e la permanenza in una condizione di simbiosi madre figlia avrebbe causato solo paralisi, chiusura, morte”.
    Spero che Emanuela possa tornare, prima o poi, su questo punto – la donna come risorsa e “medicamento” a un dolore materno altrimenti mortale.

  2. Qualche giorno fa, una delle fondatrici del blog, Emanuela Borrelli, ha avuto la magnifica idea di titolare un prossimo spazio dedicato al materno: “Stato interessante”. Il titolo, che qualcuna ha definito “geniale”, ha avuto un notevole impatto, un misto di imprevisto e di sorpresa sulle persone che partecipano al gruppo di Autocoscienza online, abituate a definire quella particolare condizione femminile con i termini solitamente utilizzati a tale scopo”, “maternità”. E allora mi sono chiesta: Che cosa fa del materno uno “stato interessante?” Perché si usa questa espressione? Interessante – ovvero che suscita interesse, si, ma per chi? Bisogna forse interrogare la radice etimologica della parola “interessante”: “inter-esse”, “essere fra”, per venirne a capo? Bisogna forse essere presa fra la madre e la donna? E’ così che Emanuela sembra aver vissuto il suo “inter-esse”, il suo stato interessante, il suo essere fra la donna e la madre nel raccontare la sua storia di madre di una bimba – ora una giovane donna – autistica.

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