Libertà d’aborto tra “negazione” e “concessione”

SILENO

di Paola Zaretti /Libertà d’aborto fra “negazione” e “concessione”

Mi chiedevo, qualche giorno fa, in un post pubblicato nella pagina fb del blog Tabula rasa, accompagnato da una bellissima immagine della Madonna inclinata sul bambino e dall’indicazione di una percorso indirizzato alla “ricerca di nessi”:

E’ possibile ipotizzare l’esistenza di un nesso fra il tabù del materno – il rifiuto dell’esperienza del materno conseguente allo stereotipo patriarcale della maternità come unico destino della donna – e la Legge 194?

E ancora:

Il rifiuto incondizionato della maternità – così come la sua incondizionata accettazione – possono essere entrambe l’esito indesiderabile di un doppio condizionamento ideologico coatto piuttosto che un segno di libertà femminile nel primo caso e di schiavitù nel secondo?

Si pensa e si sostiene che non esista alcuna possibilità di formulare una domanda a cui non sia già stata data,  in anticipo, una risposta e non c’è dubbio che ciò corrisponda, in una qualche misura, o forse sempre, al vero. Vero è, in effetti, che porre una domanda intenzionata a indagare sull’eventuale presenza di nessi, comporta un’individuazione anticipata di tali nessi.  In altre parole, se ci si interroga sulla possibilità di ipotizzare l’esistenza di un nesso fra il tabù del materno – sicuramente presente, in una certa misura, all’interno del femminismo – e la 194,  è perché tale nesso, per una serie di ragioni  debitrici a una modalità di approccio che predilige alla linearità la complessità, si è reso in qualche modo pensabile, suscettibile, insomma, di essere pensato.

Gli interrogativi sopra enunciati e queste brevi considerazioni da riprendere e sviluppare in un prossimo futuro, valgano da sfondo alla querelle di questi giorni in merito alla divisione, all’interno del femminismo, fra “abortiste” e “antiabortiste” o, meglio detto, fra coloro che in occasione della prossima manifestazione dell’8 marzo si sono dichiarate “pro”  o “contro” la 194. Con il rispetto dovuto per chi la pensa diversamente da me, devo dire che questa “chiamata” allo schieramento –  così poco consona al mio approccio verso un argomento tanto delicato – ha mobilitato una certa resistenza a posizionarmi agevolmente dentro una logica alla cui matrice culturale – filosofica e teologica – il femminismo è risalito  da tempo tentandone la decostruzione.

“Non ci posso stare” – mi sono detta. Ruotano infatti,  attorno a questa legge, non poche questioni sollevate a suo tempo da Carla Lonzi, oggi rimosse o volutamente trascurate, che andrebbero perlomeno ricordate e considerate. Non solo, ma c’è, in questo appello alla mobilitazione in difesa della 194, qualcosa che stride fortemente con la noncuranza e l’assenza di iniziative specifiche di analoga portata nei riguardi delle donne che la vita non la rischiano solo potenzialmente ma la perdono realmente ogni giorno che passa. Nel blog Tabula rasa è stato scritto molto in proposito, proprio allo scopo di ri-avviare una discussione critica sul tema dell’aborto in grado di oltrepassare gli angusti confini del “pro” o del “contro”. Lo abbiamo fatto riproponendo alcuni brani di Lonzi che vale la pena ricordare:

«La legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile [..]. La donna suggellerà attraverso uno sdrammatizzato esercizio della sua utilizzazione la cultura sessuale fallocratica».

“La liberalizzazione dell’aborto è diventata, attraverso millenni, la condizione mediante la quale il patriarcato prevede di sanare le sue contraddizioni mantenendo inalterato il suo dominio”.

Se Lonzi ha ragione, si pone, evidentemente e in primo luogo, il problema di capire, per esempio, quale posto e quale significato assegnare, all’interno del contesto da lei descritto, alla parola “autodeterminazione” giacché, in tale contesto, altro non significa se non consentire al patriarcato di risolvere le sue contraddizioni conservando il suo dominio intatto. Se Lonzi ha ragione, la parola “autodeterminazione” andrebbe dunque almeno ripensata trattandosi, oltretutto, di termine abbondantemente in uso nel gergo della cultura patriarcale che di autodeterminazioni e di ontologie individuali, di autocelebrazioni di autonomie e di autarchie, di solipsismi e di autismi, di sovranità e di relazioni mancate, vanta un ricchissimo repertorio di cui le opere di  filosofi e di teologi ampiamente testimoniano. Ma a contrastare la visione semplificata del “pro” e del “contro”, c’è qualcosa di più: c’è che l’autodeterminazione, celebrata attraverso la legalizzazione dell’aborto come una conquista, lungi dal garantire la liberazione della donna, assume agli occhi di Lonzi un significato decisamente  sinistro:

“Cercare di mettere al riparo le nostre vite attraverso una richiesta per la legalizzazione dell’aborto, porta, sotto considerazioni pretestuosamente filantropiche e umanitarie, al nostro suicidio: in modo indiretto viene riconfermata la prevalenza di un sesso su un altro intanto che l’altro sembra andare incontro alla sua liberazione”.

Eppure, malgrado Lonzi e le tante femministe di vecchia e nuova generazione che pure sembrano ispirarsi al suo pensiero, gli appelli alla difesa della 194 hanno finito per fare del principio dell’”intoccabilità” un vero e proprio dogma, disincentivando e scoraggiando così ogni possibilità di discussione.  Era questo il contesto in cui nasceva la domanda posta in Nemesis 194, http://femminismoinstrada.altervista.org/nemesi-194/, se sia davvero la vita delle donne che si vuole difendere con questa legge o se si tratti di un’affermazione di contropotere praticato dalle donne contro un potere maschio troppo a lungo subito, con il risultato di conservarlo intatto. Avere o non avere figli è un gesto di libertà insindacabile degno di rispetto ma che l’aborto possa essere immaginato e istituito come mezzo di contraccezione, il femminismo, almeno “ufficialmente” non l’ha mai sostenuto mentre si ha l’impressione, da certe  parole d’ordine e da certi commenti che circolano in fb,  che la linea di tendenza sia proprio questa.

Sono tornata sull’argomento già trattato in Nemesis 194 e successivamente ne Il silenzio della nascita e la vocazione maschile per la morte, http://femminismoinstrada.altervista.org/il-silenzio-sulla-nascita-e-la-vocazione maschile-per-la-morte, mossa unicamente dall’esigenza di precisare la mia posizione di “estraneità” in merito alla ”chiamata” e dal desiderio di dire apertamente ciò che, a questo riguardo, mi sta veramente a cuore: l’aver vissuto quegli appelli con imbarazzo e disagio, soprattutto per via degli equivoci fuorvianti cui una scelta meditata di “estraneità” può aver dato luogo. Va da sé che le cose sarebbero andate diversamente se a sollecitarmi con i loro post, non fossero state le tante donne amiche che stimo e apprezzo personalmente e politicamente e con le quali ho avuto ed ho tuttora, in molte occasioni, il piacere di condividere – prima ancora che una visione politica – una comune visione della Vita. Non ho dunque ragione di nascondere che, sollecitata a posizionarmi sulla 194, l’impulso primo, il più immediato, è stato quello di “schierarmi” a favore della difesa di questa legge.

A ridestarsi e a ri-vivere, in quel primo impulso, era qualcosa d’antico…qualcosa d’altri tempi che, anche a tanti anni di distanza, ho potuto riconoscere, così come ho potuto riconoscere quell’ impulso “secondo”, non meno imperioso di un tempo, che mi suggeriva di astenermi dal farlo. Ebbene, fu  proprio così, che allora – con il medesimo sentire di oggi, con lo stesso conflitto interiore fra sentimenti contrari e con un’incapacità di accordarmi pacificamente con me stessa – sostenni e votai quella legge, persuasa com’ero che mai e poi mai mi sarei messa nelle condizioni di doverne usufruire motivata da ragioni che nulla hanno a che fare né con una difesa a oltranza della vita, né con l’idea di un primato della madre sulla donna, né con ricette moralistiche, né, tantomeno, con credenze da cui un ateismo dichiarato e praticato, da sempre mi esonera.

Più semplicemente, considero il corpo in generale, con la sua fragilità, sensibilità e vulnerabilità, qualcosa da proteggere dalla violenza e dalla cinica e brutale indifferenza della “scienza” nei suoi riguardi. Tutto può essere un corpo, fuorché carne e teatro su cui esercitarsi a soddisfare le proprie pulsioni sadiche a fini non sempre e non propriamente “scientifici”. Analogamente considero ciò che corpo non è ma che pure è, al corpo, intimamente connesso e che chiamiamo “psiche”. Sono queste e non altre le ragioni per le quali considero l’aborto un gesto di inaudita violenza sui nostri corpi di donne con gli effetti psichici, a volte disastrosi, che ne conseguono, una violenza dunque, salvo casi eccezionali, da evitare di infliggere a se stesse.

Se saperlo, per chi legge, sia importante o meno, è cosa che non spetta a me decidere, ciò che invece mi spetta, è la possibilità/libertà di dire che in tutta la vicenda del “pro” e del “contro”, la sola cosa a contare davvero per me e a decidere della mia posizione, non è il primato dell’”amore materno”, ma l’amore di sé, per sé che ciascuna si deve e che Lonzi ha saputo condensare in queste righe:

“Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà che rimandi a tempo imprecisatamente lontano il momento in cui essa si chieda se risale alla cultura, cioè al dominio dell’uomo, o all’anatomia, cioè al destino naturale, il fatto che essa rimane incinta”.

Negazione e concessione dunque, ma la seconda, la concessione – con il rinvio a tempo indeterminato di una Domanda inaggirabile – non è di certo, fra le due, la meno insidiosa.