La psicanalisi sfida il femminismo

MARIA MICOZZI

di Paola Zaretti /Una contro tutte. La difesa di papà Lacan

La psicanalisi sfida il femminismo

Con Lacan e il femminismo contemporaneo, pubblicato nel gennaio 2010, Luisella Mambrini, membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, lancia una sfida al femminismo nazionale e internazionale.

I libri sono sempre più importanti per quello che non dicono che per quello che dicono e c’è da sperare che la sfida di Mambrini – di cui è importante cogliere la direzione, il senso e la finalità – sia stata raccolta dalle femministe le cui teorie, sinteticamente riportate, sono sottoposte, uno dopo l’altra, al vaglio severo dell’autrice: Irigary, e poi Lonzi e Muraro, Braidotti e Fusini, per il femminismo italiano, Butler per il femminismo statunitense, Chodorow, Gilligan e Benjamin per la scuola psicanalitica relazionale, Rich, De Lauretis per l’omosessualità femminile, e ancora Kristeva, Cixous, Wittig. Ci sono, insomma, proprio tutte…o quasi e spero proprio, fra quelle citate dall’ autrice, di non averne tralasciata nessuna.

Si tratta forse in questo libro, come il titolo potrebbe/vorrebbe lasciare intendere, di una  promettente e benevola apertura della psicanalisi “lacaniana” nei confronti del pensiero femminista contemporaneo, nazionale e internazionale, o si tratta dell’ennesima lectio “magistralis”, o, per meglio dire, di uno dei tanti disperati tentativi di “spiegazione” della dottrina lacaniana ritualmente riproposti sul mercato italiano in questi anni, nell’intento di trasformare il pensiero del Maestro in un paradigma teorico e valoriale assoluto, di farne, insomma – come il libro sembra suggerire – IL criterio di misura rispetto al quale misurare il valore delle teorie femministe e dei contributi di pensiero di molte donne psicanaliste?

Non è forse già un segnale, non c’è già forse qualcosa di inquietante, di sintomatico  e nella caparbia ostinazione che ha indotto per tanti anni i “lacaniani” a passare tanta, troppa parte del loro tempo a “spiegare”, “per amore di Lacan”, che cosa ha detto veramente Lacan,  sottotismando la capacità di giudizio e l’acume di tante lettrici e lettori restie/i a riconoscere nella teoria dell’adorato Maestro, quell’impeto rivoluzionario che caratterizzerebbe, a loro dire, la grande innovazione sul femminile, sintetizzata dall’autrice nei tre punti che seguono:

La donna non è la madre, La sua essenza non è riconducibile alla castrazione, Il godimento supplementare al di là del fallo.

Ci sarebbe di che argomentare, spazio permettendo, su queste tre “rivoluzioni“, il richiamo alle quali è quanto mai utile a indicare, la rimozione di un problema a monte di ben altra portata, irriducibile a questo o quel singolo aspetto della teoria e deciso, invece, a interrogare la posizione della psicanalisi – nelle sue diverse declinazioni – rispetto a un sistema di pensiero conforme a un quadro storico-filosofico-antropologico-teologico-politico fallologocentrico e ai suoi derivati. La psicanalisi è uno di questi e, malgrado le acrobazie di Lacan e dei suoi discepoli, resta imprigionata, a tutti gli effetti, dentro una visione fallocentrica – come ammesso, d’altronde,  dalla stessa autrice:

Provando a mettere in discussione tale assunto (il primato del fallo), potremmo prendere il seno come simbolo del femminile ma come si può dire delle bambine? Ci sono state epoche in cui forse altri simboli hanno funzionato, simboli femminili. Nella nostra epoca sono ancora presenti ma, cosa che il femminismo fatica a riconoscere, non hanno mai messo in discussione il primato del fallo. Oggi l’ordine simbolico fornisce come simbolo prevalente il fallo per parlare della sessualità ma questo non equivale a una supremazia dell’uomo sulla donna ma corrisponde alla supremazia dell’ordine simbolico per i due sessi.

Trascurando il particolare, non irrilevante, che fornire come “spiegazione” a ciò che viene contestato ciò che è oggetto della contestazione, è, metodo-logicamente parlando, un procedimento discutibile, nessun dubbio sussiste sul fatto, invece rilevante, che il primato del fallo – qui considerato un simbolo maschile – non sia mai stato messo in discussione essendo evidente che è questo, proprio questo, il problema scottante, sollevato dal femminismo. Il femminismo inoltre, – ma sarebbe più corretto dire “i femminismi” – sa bene che se c’è qualcosa che impedisce all’ordine simbolico di esercitare la sua supremazia sull’uomo e sulla donna in modo neutro e indifferenziato – come all’autrice piace credere – è proprio il suo impianto fallico: tale supremazia  è strutturale e irriducibile in ragione del fatto che il simbolico dispone di un solo significante maschile  – il fallo – di cui manca l’  equi-valente” femminile,  un significante  di pari valore in grado di rappresentare la donna.  L’ammissione, da parte di Lacan, della mancanza di un significante equi-valente (al fallo) in grado di rappresentare la donna, è quanto basta a smentire la natura neutra e asessuata del fallo testimoniata, nei testi lacaniani, sia dai continui slittamenti organo fra il fallo e l’ organo maschile, sia da un fallo femminile – il fallo materno (mancante) – che dovrebbe bastare a inficiare la tesi di Butler di un legame esistente fra fallo e organo maschile.

Che questa mancanza di significante nel simbolico – questo minus, questo punto di “inconsistenza dell’Altro”, (detto in lacanese), questo “difetto del simbolico che non dice della donna in termini universali”  – si traduca per la donna “in un plus sul piano del godimento” (di un godimento supplementare di cui le donne nulla saprebbero), è la grande trovata della teoria lacaniana in virtù della quale  le violenze sulle donne, le forme di oppressione, le discriminazioni di genere, l’esclusione delle donne dai luoghi che contano – imputabili, seguendo il ragionamento dell’autrice, a quell’ordine simbolico neutro, indifferenziato e privo di supremazie – vengono talmente  misconosciute da trasformare la condizione femminile in una condizione vantaggiosa per la donna.

E’ questa, in sostanza, l’operazione tentata da Lacan:

a)  riconoscere il “difetto del simbolico” e la logica fallica – denunziata dalla posizione femminile – che lo governa, riducendo al tempo stesso gli effetti devastanti che ne derivano sulla vita e sulla salute di donne e uomini.

b) utilizzare l‘alterità della posizione femminile – che rispetto alla logica fallica rappresenta “una vera e propria sovversione” – per costruire, a partire da un simbolico fallico accettato come tale, una teoria sul femminile che se ne discosti  enfatizzandone i vantaggi e sottovalutandone gli effetti negativi per la donna. Per questa via, l’alterità femminile, dovuta alla  mancanza nel simbolico di un significante che rappresenti la donna e che la rende “non-tutta”:

(la) preserva dal momento che il simbolico non potrà mai raggiungerla del tutto; questo margine può allora diventare uno spazio di invenzione consentendole una mobilità e una leggerezza sconosciute.

Peccato che di questa “leggerezza sconosciuta”, di questa fortuna elargita alle donne dall’ordine patriarcale, le donne – che hanno dato vita, irragionevolmente, a quel movimento storico e rivoluzionario che è stato il femminismo – non se ne siano mai accorte…Ciò di cui invece si sono rese perfettamente conto e che non trovano  condivisibile, è l’idea – condivisa invece dalla psicanalisi – di un ordine simbolico inamovibile: non è compito della psicanalisi rifondare il simbolico, non è questo l’ambito della sua “operatività” – conferma l’autrice – che, nello sforzo di definire quale sia questo “ambito”, raggiunge, per la prima volta nel suo libro, – e non me ne  voglia – il vertice della fumosità:

…uno psicanalista conduce un soggetto fino al punto in cui è indeducibile dalla struttura, in un lavoro di sottrazione fatto passo per passo del simbolico per come si è modulato per lui dove vengono via via cancellati i significanti che lo ricoprono. Non sta alla psicanalisi riscrivere il simbolico per il soggetto né tantomeno indicargli la strada di un orizzonte simbolico a venire, sarebbe molto inquietante che lo fosse, ma sicuramente lo psicanalista può mettersi in posizione di causa di destrutturazione del simbolico per un soggetto nel senso di una pluralizzazione dei connettori, della messa in valore del loro carattere di sembiante in modo da causare bricolage, invenzioni inedite che permettano a un soggetto di tenersi in un legame sociale, di sbrogliarsela in modo nuovo con quel reale che gli causa sofferenza.

Difficile ricavare da questo assemblaggio di parole di cui sfugge in molti punti il significato, un messaggio chiaro e convincente sulla funzione della psicanalisi e sulle sue finalità. Sono davvero tanti, troppi i passaggi del testo che sollevano domande e perplessità rispetto ad un lavoro cui vanno comunque riconosciuti lo sforzo e il merito di aver reso finalmente esplicita la posizione-opposizione, sinora oscurata, della psicanalisi – nello specifico della “Scuola lacaniana di psicanalisi” cui l’autrice, consapevolmente o no, ha pensato forse di rendere, alla fine, un ottimo servigio – nei riguardi del  femminismo.

A orientare la lettura in tal senso e a darne conto, è la parola “scontro” – utilizzata dall’autrice nell’alludere alle difficoltà incontrate nel suo lavoro, realizzato – come pare intuibile dalla formulazione generica e impersonale di seguito riportata – assieme e malgrado altri.

Nell’affrontare il presente lavoro – scrive alla fine del suo libro – ci si è scontrati in prima battuta con la critica avanzata da vari ambiti del sapere sulla opportunità di mettere al lavoro il femminismo oggi (…) considerato debole come movimento politico e di elaborazione teorica (…) un oggetto di modernariato (senza) chance di sopravvivenza in considerazione dell’indifferenziato sessuale, che nel discorso contemporaneo rende un po’ obsolete le categorie uomo-donna.

Una scelta ardita, dunque, che ha forse richiesto l’abbattimento di qualche muro e il superamento di probabili resistenze anche se, a dire il vero, più che “mettere al lavoro il femminismo”, – che con qualche testa di donna mozzata è al lavoro da almeno un paio di secoli – sarebbe utile e auspicabile, soprattutto da parte delle psicanaliste donne, mettere al lavoro la psicanalisi, interrogarla sul “genere” di formazione impartita all’interno di Scuole fondate da uomini, sulle ragioni del totale disimpegno e disinteresse “clinico” dimostrato dagli psicanalisti nei riguardi della “normalità” delle patologie maschili che fanno quotidianamente stragi di donne, sulla loro assenza dalla scena politica e sociale rispetto al tema della violenza e sulle loro sospette passioni per le “patologie” femminili su cui, a cominciare da Freud, si sono costruite non poche fortune.

Il femminismo si è sempre interessato alla psicanalisi –  in alcuni casi persino troppo, forse, a leggere l’autrice che non manca di rivendicare, in alcuni passaggi, un sapere “clinico” non solo rispetto alle filosofe che di “clinica” non se ne intendono, ma anche rispetto alle sue colleghe psicanaliste che, come lei ma diversamente da lei (Irigaray, Kristeva, Benjamin), di “clinica” dovrebbero saperne qualcosa! O no? La psicanalisi ha sempre guardato con sospetto, ha spesso disprezzato e temuto il femminismo come la peste e le “scuole” di psicanalisi, fondate quasi esclusivamente da maschi e improntate a una formazione unisex, hanno fatto il possibile per oscurare, se non ostacolare, in misura e in forme diverse, velate o manifeste, la conoscenza degli importanti contributi teorici prodotti, soprattutto negli ultimi trent’anni, da alcune femmniste.

Benvenga dunque, da questo punto di vista, il contributo di una donna che, al di là della consueta lettura scolastica di Freud e Lacan riproposta nella prima parte del libro, mostra di essersi documentata, fatte salve alcune omissioni, sui contributi teorici delle maggiori rappresentanti del femminismo nazionale e internazionale facenti rispettivamente capo alle correnti dell’ essenzialismo e costruttivismo. Una tonalità dispiaciuta per la mancata comprensione, da parte delle donne, della rivoluzione apportata da Lacan e il desiderio di avviare, attraverso il suo libro, “un incontro più felice” con il femminismo, sembrano accompagnare la fatica dell’autrice benché lo stile e le argomentazioni scelte per inaugurare questo dia-logo, lascino sussistere qualche dubbio circa la sua possibilità di riuscita.

Occorre riconoscere, sia pure a malincuore, che il femminismo contemporaneo non sembra avere colto la rivoluzione operata da Lacan nei confronti della femminilità rispetto a tutta l’elaborazione che l’ha preceduto (…). Dispiace che non si sia prodotto ancora un incontro più felice assieme alla scommessa che il presente testo possa quantomeno concorrere a dipanare qualche malinteso. (L. Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo).

 Sarebbe certamente un passo avanti, eppure si ha l’impressione che a spingere Mambrini a impegnarsi con tanta diligenza sul rapporto fra Lacan e il femminismo contemporaneo, sia qualcosa di più motivante di un desiderio di incontro:

 Ma perché il femminismo e Lacan? Per molto tempo il solo nome di Lacan era capace di destare sospetti in ambito femminista (…) ma oggi che il nome di Lacan non è più coperto da interdizione ma che anzi risuona negli scritti di molte teoriche femministe assurgendo, in qualche caso, a interlocutore, rimane l’interrogativo su che cosa della sua elaborazione sia veramente recepito e messo al lavoro. La rivoluzione operata da Lacan rispetto a Freud nei confronti della femminilità (…) è stato davvero colto?

Che il Nome del Padre Lacan, interdetto, non venga nominato dalle femministe, passi, ma che lo si nomini abusivamente, senza averne recepito pienamente l’insegnamento e senza aver compreso l’aspetto rivoluzionario del suo pensiero, è quasi insopportabile. Ma ciò che risulta insopportabile, senza quasi, è che le femministe della corrente italiana del “pensiero della differenza” possano scordarsi – ci ricorda, con una mossa rivendicativo-appropriativa l’autrice di Lacan e il femminismo contemporaneo, –  del loro debito nei confronti di autrici di “formazione psicoanalitica lacaniana” (Irigary, Cixous, Kristeva). Rivendicazione davvero curiosa se si pensa che la “formazione psicanalitica lacaniana” di queste autrici è così discutibilmente e problematicamente “lacaniana”, che a informarci della “distanza” di Kristeva e di Cixous dalla “teorizzazione di Lacan” è, non senza  una dovizia di particolari talvolta inclementi, l’autrice stessa.

Quanto poi a Irigary, ambigua e a doppio taglio appare l’insistenza sulla sua “formazione psicoanalitica lacaniana” e sull’influsso  che tale formazione avrebbe esercitato sul femminismo italiano: le filosofe femministe italiane, non “hanno tratto ispirazione da autrici di formazione psicoanalitica lacaniana”, ma  si sono riconosciute e restano debitrici a Irigaray per quel “pensiero della differenza” cui Irigary ha dato vita pagando di persona con l’espulsione dall’Ecole freudienne  “per mancata fedeltà a un solo discorso”.

Non c’è un solo cenno nel libro di Mambrini…nemmeno una parola sullo scandalo di questa espulsione che basterebbe, da sola, a ridimensionare certe velleità rivoluzionarie. Niente, non una riflessione ma omissione e nessuna interrogazione soprattutto, – come da una psicanalista forse ci si aspetterebbe – sulle ragioni per le quali il “pensiero della differenza”, il pensiero fondante una nuova teoria elaborata da una psicanalista donna (Irigaray) che ha messo radicalmente in discussione la” formazione psicoanalitica lacaniana”, non sia stato considerato, studiato, condiviso, ripreso e rielaborato in Italia, da parte di psicanaliste di scuola lacaniana. Perché? Non si tratta ancora, una volta di troppo, di un primato della genealogia paterna derivante da quel simbolico neutro e indifferenziato senza supremazie? Sono tante le domande sollevate da un libro il cui andamento appare segnato da alcune linee di tendenza su cui vale la pena  riflettere:

a) una tendenza ad assumere quale criterio di misura del valore dei contributi teorici di tante donne – teoriche del femminismo, filosofe-psicanaliste, filosofe-femministe – la loro conformità o difformità alle teorie di Freud e di Lacan:

“Non troviamo niente di tutto questo in Freud e Lacan”.

“La via che prospetta Lacan non è quella di farsi Una, come ipotizza Irigaray (…)”.

“In questo modo si può dire che Jessica Benjamin annulla il complesso di mascolinità e, conseguentemente, l’isteria nella versione freudiana”.

“Inoltre quel che Lacan e Freud hanno considerato e che risulta ignorato dalla scuola relazionale (…)”.

“Se per Kristeva la sublimazione rimane inscritta nella dialettica edipica (…) non è così per Lacan (…)”.

“Ma quel che  segna davvero una distanza (di Kristeva) con la teorizzazione di Lacan (…)”.

“Tutto questo dunque non ha niente a che fare con l’ipotesi di Kristeva (…)”.

 b) una tendenza a ricercare nel discorso dell’altra donna una dipendenza-debito da Lacan finalizzata a una riaffermazione del primato paterno:

Con la sessuazione Lacan rompe il significato tradizionale del genere che trova un appoggio sull’anatomia (…) dunque si può dire che Lacan apre di fatto la via ai gender studies”.

Non può non colpire la coincidenza di questa strategia politica (di Wittig) con quella delle Preziose, a cui Lacan allude in Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile.

Sicuramente la questione del limite che Braidotti introduce (…) è oggi centrale (…). Lacan ci ha dato molti insegnamenti sul limite (…).

Non si può non notare di sfuggita come Kristeva rivolgendosi al testo di Colette per sostenere tale tesi sfiori un riferimento di Lacan nel Seminario VII (…).

Ora la Scuola relazionale con l’enfasi sulla relazione, sulla cura, non dice cose diverse da quella di Lacan (…).

 c) la rivendicazione “clinica” utilizzata come strumento di delegittimazione del discorso dell’altra donna:

(…) Si individua in lei (Butler) un interesse ad autoproclamarsi essa stessa psicoanalista”.

Certo che indicare tale tabù (nei confronti dell’omosessualità) come precedente e fondante quello dell’Edipo, farne un postulato, rappresenta, a mio parere, la punta massima a cui può giungere una prospettiva come quella degli studi sul gender che prescinde completamente dalla clinica e dimentica qualcosa di fondamentale e cioè che la teoria della psicoanalisi deriva dalla clinica, non la precede.

Questa ipotesi non è suffragata da alcuna osservazione clinica rinvenibile nel commento di Freud (…)”.

 d) la tendenza alla svalutazione:

Di tutto questo Butler  non sembra sapere nulla, ferma alla conoscenza peraltro parziale di Lacan.

Ma il fraintendimento più forte di Butler sta nel modo di intendere l’ambito di operatività della psicoanalisi.

Kristeva misconosce che in Lacan (…).

La femminilità in Kristeva non è in avanti, nella dimensione dell’al di là del fallo, ma indietro (…).

Sono tutti interrogativi che Wittig non si pone (…).

Quel che Irigaray dunque misconosce (…).

Ma più ancora Irigaray misconosce (…).

(…) Non si è colta da parte delle teoriche femministe la lezione di Lacan sulla natura di sembiante del Padre (…).

Tutto questo  dunque non ha niente a che fare con l’ipotesi di Kristeva (…).

 e) La tendenza – fedele alla logica del divide et impera – a un uso della contrapposizione fra teorie femministe, finalizzato a riaffermare il primato della teoria lacaniana:

 La critica che Butler rivolge a Irigaray è la stessa che rivolge a Lacan.

La cosa che colpisce è che Irigary (…) finisce, in determinate letture, soprattutto dal versante dei gender studies (…) con l’essere travolta dalle stesse critiche che muove a Lacan (…).

Per le studiose del gender il femminismo è dunque per certi aspetti una contraddizione in termini.

Sono questi solo alcuni dei moltissimi esempi, disseminati un po’ ovunque in questo testo, che ci orientano sulla sua finalità. Ce n’è davvero per tutte…E non si tratta, nelle osservazioni sin qui sollevate, di una messa in discussione del legittimo diritto di un’autrice alla critica del pensiero femminista – per alcuni aspetti persino condivisibile – né di uno “schieramento” in favore del femminismo rispetto al quale lo sguardo critico di chi scrive non è mai mancato. Si tratta di riconoscere e di prendere le distanze da posizioni imparentate con i presupposti fondanti di un “pensiero unico” e dalle derive totalitarie cui delle “formazioni” psicanalitiche impostate a partire da un tale pensiero possono portare.  Non esiste la teoria, esiste una pluralità di teorie segnate dalle nostre pulsioni, non esiste la “clinica” a prescindere dalla nostra interpretazione, come ampiamente mostrato dall’esistenza di teorie diverse formulate da pensatrici diverse il cui valore “clinico” non può essere misurato e tantomeno inficiato a partire dal loro grado di conformità o meno alla teoria di Lacan.

Capita, a volte, che un’idea e il progetto che ne segue per darle corpo e consistenza, si riveli veramente per ciò che era e voleva essere sin dal suo nascere, solo retroattivamente, in apres coup, solo una volta che questa idea sia giunta a piena maturazione. Quando, nel 2006, è nata Oikos bios, Una Casa per tutti/e e per nessuno/a denominata Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza, la funzione e la finalità di questo Luogo erano già inscritti nel suo DNA, in cui la ricerca di nessi fra filosofia, psicanalisi e femminismo erano già tutti all’opera. Si trattava infatti, per coloro che parteciparono alla nascita di questo Luogo, di ripensare, a partire da una serie di esperienze, i criteri di “formazione” degli/delle psicanalisti/e e, più in generale, di altri operatori e operatrici della “salute” (psicologi/ghe,  educatori, educatrici) su basi radicalmente nuove.

Ringrazio dunque l’autrice per aver scritto un libro che mi ha persuasa, una volta di più, sulla necessità di proseguire la strada intrapresa nella speranza che altri Luoghi di formazione, alternativi alle “Scuole” tradizionali esistenti, possano  nascere, crescere e diffondersi in altre città.

Paola Zaretti   Oikos-bios  Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza