Catarsi? La “Luce Diversa” di Carla Lonzi

Fuoco

di Paola Zaretti / Catarsi? La “LUCE DIVERSA” di Carla Lonzi

…Avevo voltato pagina, avevo un fuoco che mi portava lontano, loro erano così fermi, io sola ero in moto, insoddisfatta insaziabile, spericolata…(Lonzi Taci, anzi parla)

Che cos’era esattamente l’autocoscienza per Lonzi? In che cosa consisteva?

Credo che ripensare e andare a fondo su questa pratica – su cui disinformazione, approssimazione e confusione sono piuttosto diffuse – sia essenziale per potersi addentrare in una serie di questioni ad essa inerenti che possono sorgere strada facendo e che facevano dire a Lonzi:

“Certo non è facile, spesso è disperante, ma chi ha detto che sarebbe stato facile e non disperante?”

Lo ha detto e lo dice chi l’ha ridotta ad “aria fritta”…

E per prendere atto che di ben altro che d’aria fritta per lei si trattava, cerchiamo di cogliere nello straordinario brano che segue – in cui – Lonzi  descrive e dà dettagliatamente conto di come si svolga la pratica autocoscienziale da lei introdotta – quali siano le differenze e le affinità fra questa pratica e la pratica analitica.  C’ è qui tutto un mondo da scoprire e  forse, per dirne, un libro non basterebbe. Ritroviamo nel passo che segue lo stesso travaglio, lo stesso sforzo e gli immancabili inciampi che si avvertono in alcuni testi di Freud quando la fatica della speculazione raggiunge i suoi massimi livelli. Il parallelo non è improprio dal momento che è lei stessa a paragonare il suo rapporto con Sara al rapporto di Freud con Fliess, l’amico medico con cui Freud aveva fatto la sua autoanalisi. Ed è in quella “luce diversa”, infine evocata, in cui al termine di un percorso due soggetti si ritrovano – distinti – che Lonzi individua la fine di quel processo infinito che potremmo definire, con  Freud, un’”analisi interminabile”.

“(…) Fatto sta che non si può essere autentici l’uno con l’altro se non si corrono gli stessi rischi e imprevisti e se non si è ugualmente all’oscuro dei meccanismi che muovono il rapporto. Se uno li conosce e l’altro no, si sviluppa un’inautenticità tra i due, e non basta osservare che è dichiarata a priori, perché il malato non sa ugualmente di che si tratta. Nel gruppo invece, l’inferiorizzazione è un dato di partenza che tende a risolversi nei colpi di scena del rapporto, che sono tali anche per chi è stato individuato come analista e non lo è. Quindi sia inferiore che superiore hanno un’unica bussola, l’autenticità, in un viaggio comune in cui, chi ci si è avventurato finora, ha portato attrezzi più consistenti: teorie, interpretazioni basate su miti, analisi dei sogni ecc. Invece in questo viaggio di due altrettanto inesperte e sprovvedute e che solo per strada scoprono in che pericoli si sono cacciate, quando avvengono le reazioni di quella inferiorizzata l’altra non ha niente in mano che le permetta di parare il colpo. In modo che l’inferiorizzazione, come dato soggettivo, si supera prendendo fiducia da quella superiore – inizio del viaggio euforico per entrambe – come dato oggettivo si supera attraverso quello che l’inferiore scopre nella superiore provocando in lei senso di colpa, e perciò depressione e debolezza. A sua volta la superiore, prima accoglie al suo livello, idealmente, la inferiore che da questo gesto di fiducia prende forza, poi precipita nel turbine del senso di colpa fino a sentirsi incomparabilmente al di sotto di chi voleva sollevare, poiché quella la accusa di averla ingannata. La superiore subisce allora, in varie fasi del conflitto, tutto ciò che l’altra le infligge poiché cerca l’approvazione-assoluzione della inferiore per trovare fiducia nella propria autenticità, però in questo modo si scopre dipendente e abbandona il rapporto: la inferiore a sua volta ha una perdita di identità collegata all’abitudine a usufruire dell’approvazione-gratificazione da parte di quella superiore, così anch’essa abbandona il rapporto. La superiore deve ritrovare fiducia nel recupero della propria innocenza, la inferiore deve trovare fiducia nel recupero della propria autonomia. La base per la RIUSCITA di tutto il ciclo si fonda sul riconoscimento reciproco dell’autenticità che deve averla vinta sui dubbi e sulle angosce di fallimento. In questo processo, di cui la fase conclusiva si svolge separatamente, restano coinvolti entrambe i poli del rapporto e si liberano entrambi per quanto riescono a conoscersi l’una con l’altra, a distaccarsi dall’equilibrio delle influenze complementari e a RITROVARSI IN UNA LUCE DIVERSA DOVE SONO DUE SOGGETTI DISTINTI”.

Sarebbe troppo lungo commentare questo incredibile passaggio ma c’è un punto essenziale che possiamo evidenziare ed è l’assenza – dichiarata a priori, almeno in teoria – di una disparità all’interno della relazione descritta e un gioco di possibili alternanze e di intercambiabilità nella posizione di due donne: la posizione dell’inferiorizzata e quella della superiorizzata, un gioco, un processo che si conclude e si risolve al sopraggiungere improvviso di “una luce diversa” – dice Lonzi  –  in cui sono due soggetti distinti miracolosamente appaiono in tutta la loro visibilità. Qui non abbiamo una che rispetto all’esperienza vissuta ne sa di più e una che ne sa di meno, qui non c’è, come nell’analisi, quel soggetto supposto sapere che è l’analista, ci sono due donne ugualmente “inesperte e sprovvedute” ma provviste di una “bussola” comune – l’autenticità – che non risparmia tuttavia loro la consapevolezza dei pericoli in cui si sono cacciate. Su questa dimensione di pericolo si potrebbe avviare una riflessione che ci porterebbe ad una lettura critica della pratica autocoscenziale di Lonzi. Fare autocoscienza, insomma, non era una passeggiata visto che dopo quell’esperienza e dopo la pratica dell’inconscio che ne voleva essere la prosecuzione, moltissime donne si sono rivolte alla psicanalisi dei Padri andando così a nutrire il loro sapere e a rimpolpare le loro fortune che in quegli anni d’oro furono cospicue. Ma c’è un brano di Lonzi, bellissimo, in cui ad illuminare le sue parole è proprio quella luce diversa  che le appare al termine del suo percorso autoanalitico di liberazione, un percorso cui ogni donna dovrebbe approdare alla fine di un’analisi condotta contro ogni forma di integrazione:

“Liberata dall’idea di dover portare la mia barca in un porto, liberata dal bisogno di giustificarmi e giustificare la vita ai miei occhi, liberata dalla speranza che qualcosa cambi, che migliori, che sia la vera vita, liberata dal ruolo materno femminile, liberata dal sospetto di avere creduto per mancanza di fede o per stupidità, liberata dal volere dimostrare che “è possibile” essendo donna, liberata dall’avere qualcosa da salvare, liberata dall’idea che dipenda da me, liberata dalla paura di non potere tornare indietro, liberata dal terrore di “vedere com’è e non poterlo dire”, liberata dall’attaccamento al dire, liberata dall’interdetto al fare, liberata dall’ipotesi che ci sia una strada, liberata dallo smacco di non potere mantenere, liberata dal negare che è stato tutto invano, liberata dall’ottimismo, liberata dal disfattismo, liberata dal confronto, dallo svantaggio, dalle profezie, liberata dall’inutile orgoglio, liberata dall’inutile vergogna”. (C. Lonzi, Taci, anzi parla)

Nessun commento potrebbe essere all’altezza di questo brano. Ma a interrogarci e a commuoverci, fra tutte le liberazioni nominate nell’incessante gioco di confluenza dei contrari, ce n’è almeno una che ci lascia senza fiato: la liberazione dall’”inutile vergogna”, una condizione di sofferenza vissuta che spesso incontriamo nel Diario. Di quale aspetto di se stessa, di che cosa, Carla Lonzi si era dovuta vergognare per desiderarne la liberazione? C’è una sola parola che mi frulla in testa e che i Greci chiamavano Hybris.