La “clinica” della Differenza

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di/ Paola Zaretti La “clinica” della Differenza

Su richiesta di alcune amiche pubblico il V capitolo dal Seminario La Clinica della Differenza svoltosi a Padova nel 2006  e dedicato a La sessualità femminile in Freud e Lacan

Cambio d’oggetto,  cambio di zona erogena, eterosessualità normativa

Abbiamo avuto modo di constatare, la volta scorsa, la quantità di questioni teoriche che si addensano attorno a quell`evento, in apparenza semplice, di cui si tratta nell’Edipo femminile: il “cambio d’oggetto”. Credo non siano molti gli aspetti della teoria ad aver impegnato Freud così a fondo, costringendolo a delle acrobazie tanto faticose e, sino ad un certo punto, per lui stesso impreviste. L`idea che, mutatis mutandis, il complesso edipico femminile fosse semplicemente il rovescio di quello maschile, precipita nei suoi testi cosi rovinosamente, da legittimare la domanda se sia davvero ancora possibile e teoricamente pertinente utilizzare l’espressione Edipo femminile. C’è, infatti, in questo Edipo, qualcosa di più, qualcosa che non torna: in effetti, ammesso che si voglia mantenere il legame fra la figura paterna e la funzione della Legge proibitiva dell’incesto, questa figura assolverebbe al tempo stesso alla funzione di agente, di soggetto della Legge, e oggetto incestuoso su cui la Legge verrebbe esercitata; se invece si vuole evitare questa sovrapposizione – del tutto insostenibile – due sono le vie che si profilano: o il soggetto incestuoso diventa la madre mentre il padre assolve alla sua funzione legale di separazione (madre-figlia, in questo caso) o, se l`oggetto incestuoso resta il padre, sarebbe ragionevole pensare che la funzione della Legge, spetti alla madre.

Sono questi ma non solo questi, gli elementi minimi su cui meditare per poter parlare, a buon diritto, di un Edipo femminile. Devo dire, con un velo di divertita perfidia, che durante la messa a punto del Seminario scorso, ero piuttosto soddisfatta nell’assistere al progressivo ma inesorabile invischiarsi di Freud nella trama sempre più spessa di una costruzione teorica le cui difficoltà vanno imputate in larga misura a quel momento particolare dello sviluppo sessuale femminile da lui indicato come fase fallica. Quella fase, attorno alla quale Lacan si interroga domandandosi cosa mai “potesse imporre a Freud l’evidente paradosso della sua posizione” (Lacan, La significazione del fallo, pag. 685) che “installa la donna nell’ignoranza primaria del suo sesso” (Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, pag. 725). Ce lo chiediamo anche noi, perché si tratta di una domanda essenziale. Ci chiediamo se ci sia stato per Freud un tornaconto – forse non proprio teorico, considerata la complicanza che la teorizzazione della fase fallica ha sul cambio d’oggetto – nel postulare questa ignoranza della donna sul proprio sesso e quale fosse, eventualmente questo tornaconto. Ci chiediamo se il postulato di questa “ignoranza” sia qualcosa di diverso da un progetto di abolizione della differenza sessuale teorizzata in una prima fase dello sviluppo femminile, al solo scopo di meglio negarla in una fase seconda. Ci chiediamo, ancora, quale senso possa avere l’affermazione secondo cui la bimba sarebbe, sino a un certo stadio del suo sviluppo, “in tutto e per tutto un “ometto”, se non quello di eliminare in un primo tempo la differenza del femminile per assegnarle, in un secondo tempo, lo statuto di non valore, coltivando così, all’interno della teoria analitica, la “malattia” storica del primato fallico antropocentrico. Su questo punto dissentiamo decisamente da Lacan quando, facendo allusione critica alla querelle della Horney sul fallo – la cui posizione fu liquidata da Freud come “femminista” – pretende di scollare la relazione dell’uomo con il significante e dunque anche con il fallo – da una posizione “culturalista”. (Cfr. Lacan, La significazione del fallo, pag. 686).

E’ sulla polarità attivo-passivo e sulla difficoltà della loro articolazione, che siamo oggi impegnate/i. Riprendiamo dal punto in cui ci eravamo lasciate. Eravamo rimaste, la volta scorsa, al differente esito dell`Edipo nel bambino e nella bambina. Avevamo detto, seguendo Freud, che se nel primo caso il complesso edipico si dissolve a causa del complesso di castrazione, nel secondo caso esso, proprio grazie alla castrazione, si evolve. In realtà, se è vero per Freud che il complesso di castrazione “opera sempre conformemente al proprio contenuto”, limitando la virilità del pene nell’uomo e la virilità della clitoride nella donna, gli effetti di questa “limitazione” differiscono radicalmente per l’uno e per l’altro sesso: mentre il bimbo attraverso l’Edipo rinunciando all`organo assume il fallo come significante del desiderio, per la bimba la “soluzione” edipica rischia di essere, a detta dello stesso Freud, una “catastrofe”. L`andamento estremamente faticoso rilevato nel testo del ‘25, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi, finalizzato al raggiungimento dell’”obiettivo padre”, assume i contorni di una vera e propria forzatura, percepibilissima nella sua formulazione, in un passaggio successivo del ‘31:

Solo un terzo sviluppo, invero assai tortuoso, sboccia nella normale strutturazione finale della femminilità ove il padre è assunto come oggetto ed è pertanto trovata la forma femminile del complesso edipico. (Freud, Sessualità femminile, pag. 67)

Non c’è dubbio: Freud ha finalmente trovato ciò che cercava: la forma femminile del complesso d`Edipo. È davvero forte l’impressione trasmessa da queste battute finali, in cui ci sembra di sentirlo tirare un sospiro di sollievo. E ha ragione di farlo, essendo riuscito in questo scritto, a rinviare, almeno momentaneamente, l’ostacolo più insidioso per la teoria: l’articolazione del nesso fra cambio d’oggetto e cambio di zona erogena cui l’abbandono dell’onanismo fallico aveva già predisposto il terreno. Questo ostacolo – il più difficile da domare – continuerà a incalzarlo senza tregua fino al ‘32 spingendolo, come vedremo fra poco, ad ulteriori acrobazie teoriche segnate da movimenti sconnessi di andata e ritorno in cui errori, correzioni, contraddizioni e reintroduzioni di concetti sinora assenti (libido, pulsione) e ripetute variazioni su tema: “tendenze passive”, “tendenze libidiche con meta passiva, “spinte pulsionali passive”, e, infine, “tendenze con mete passive” – ci danno la misura dell’impasse in cui Freud si dibatte. Ciò e dovuto al fatto che l’abolizione dell’attività clitoridea e soprattutto il ricorso alla nozione di “passività”, lo mettono di fronte ad una contraddizione insanabile – la passività della pulsione – dalla quale gli sarà difficilissimo districarsi.

Ha inizio da qui, senza dubbio, la parte più impegnativa di questa nostra ricerca. Seguiamo un primo passaggio importante del testo del ‘31, Sessualità femminile in cui il problema dell’articolazione del nesso fra cambio d’oggetto e cambio di zona erogena viene enunciato per la prima volta in modo esplicito:

Da molto tempo abbiamo compreso che lo sviluppo della sessualità femminile è reso più complicato dalla necessità di rinunciare alla zona genitale originariamente direttiva, la clitoride, per una nuova zona, la vagina. Ora, un secondo mutamento dello stesso tipo (la permuta dell’originario oggetto materno con il padre) ci appare non meno caratteristico e significativo per lo sviluppo della donna. In qual modo queste due necessità siano interconnesse, non ci è del tutto chiaro. (Freud, Sessualítà femminile, pag.63)

Chiarire l’interconnessione fra cambio d’oggetto e cambio di zona erogena eliminando la clitoride in favore della vagina: ecco l’intento principale dello scritto del ‘31 in vista del quale la nozione di bisessualità, sinora latitante, ricompare improvvisamente rivalutata. Viene spontaneo chiedersi quale sia la ragione di questa imprevista rivalutazione e a quale strategia teorica si debba la ricomparsa di una nozione trascurata nel ’25 su cui Freud aveva peraltro mantenuto a lungo non poche riserve data l’incompatibilità fra la teoria di Fliess sulla bisessualità e la sua tesi del primato del fallo per entrambe i sessi. La risposta è semplice: in questa fase particolare, in cui egli sta mettendo a punto la sua teoria sulla sessualità femminile in base alla quale la clitoride – “maschile” e “attiva” nella fase fallica – deve essere sostituita dalla vagina – “femminile” e “passiva” – in funzione del cambio d’oggetto, la teoria della bisessualità gli offre una soluzione, al momento, di tutto rispetto. Seguiamo questo passaggio:

In primo luogo è incontestabile che la bisessualità, di cui abbiamo asserito la presenza nella disposizione di tutti gli esseri umani, si presenta con chiarezza molto maggiore nella donna che non nell`uomo. L`uomo ha un’unica zona sessuale direttiva, un organo sessuale, mentre la donna ne possiede due: la vagina, propriamente femminile, e la clitoride, analoga al membro maschile (…). La vita sessuale femminile si divide normalmente in due fasi di cui la prima ha carattere maschile; solo la seconda è quella specificatamente femminile. Nello sviluppo della femmina vi è come un processo di trapasso da una fase all’altra (..). Un’ulteriore complicazione sorge dal fatto che la funzione della «virile» clitoride continua nella successiva vita sessuale femminile in una forma molto mutevole, e certo non ancora compresa in modo soddisfacente. Ma alla fine dello sviluppo l’uomo padre deve essere divenuto per la femmina, il nuovo oggetto d’amore, vale a dire che alla trasformazione della bimba deve corrispondere un mutamento nel senso dell’oggetto. (Ibid. pag. 66)

Si direbbe, invero, il contrario. Si direbbe che ad un mutamento nel senso dell’oggetto debba corrispondere la trasformazione della bimba. Come si può constatare, a far problema, ad essere ancora una volta d’intralcio, è sempre la fase fallica, è sempre la clitoride a causa della sua incompatibilità con il cambio d’oggetto. Ma con la nozione di bisessualità, “maschile” e “femminile” (clitoride e vagina) possono finalmente coesistere – come Freud sembra qui suggerire – in due tempi distinti e distanti benché “la funzione della virile clitoride” con le sue scorribande nella sfera riservata al femminile, continui a rappresentare per Freud una minaccia. Nel procedere del testo troviamo riproposto, per un certo tratto, quel doppio movimento contraddittorio già incontrato nel ’25: a costruzioni sempre più articolate necessarie a fondare il cambio d`oggetto si avvicendano passaggi mirati alla svalutazione dell’oggetto paterno in favore della madre e del ruolo importante da lei occupato nella fase preedipica. Questo doppio movimento, questa oscillazione in cui Edipo e preedipo si intrecciano, è un segnale in più dell’incertezza in cui, malgrado gli aggiustamenti, versa la teoria freudiana. La polarità attivo-passivo è un diabolico dilemma e il distacco dall`oggetto materno, assieme alle molteplici ragioni, elencate in dettaglio, da cui dipende, costituiscono gran parte del seguito del testo in cui una complicanza prevedibile ma sinora miracolosamente schivata, inizia a farsi strada. Si tratta dell’emergere della polarità attivo-passivo, sin qui rimasta velata sullo sfondo ed ora introdotta e del suo rapporto con la polarità maschile-femminile.

Il distacco dalla madre è un passo importantissimo nello sviluppo della bambina, è più di un semplice cambiamento dell’oggetto (…). A mano che esso procede si può osservare un netto eclissarsi degli impulsi sessuali attivi e un accrescersi di quelli passivi (…). Spesso col distacco dalla madre cessa anche la masturbazione clitoridea, e abbastanza sovente, con la rimozione della mascolinità finora posseduta dalla bimba, vengono compromesse durevolmente gran parte delle sue aspirazioni sessuali in generale. Il trapasso all’oggetto paterno si attua con l`aiuto delle tendenze passive, ammesso che esse siano sopravvissute alla catastrofe, (Ibid., pag. 77)

Troviamo qui ribadita, per l’ennesima volta, la necessità che l’attività fallica – “mascolina” – venga “tolta di mezzo” per essere sostituita dalle “tendenze passive”. Ma il passaggio decisivo di questo brano riguarda l’introduzione della polarità attivo-passivo per le implicanze teoriche che il concetto di passività comporta in relazione al concetto di pulsione qui evocato dal termine “tendenze” e ripreso successivamente in termini espliciti. Freud, come d’abitudine ogni volta che la sua teoria mostra delle crepe, si prepara – e ci prepara – gradualmente a quelle che saranno le difficoltà di poco precedenti il suo volo teorico finale. Come intendere, in effetti, questo termine “tendenze passive” grazie alle quali si attuerebbe il trapasso all’oggetto paterno? Una tendenza, una pulsione (Trieb, come Freud la chiamerà di li a poco), può essere passiva? E il cambio d’oggetto, una volta eliminati del tutto gli impulsi sessuali attivi, può essere attuato con il concorso di una pulsione esclusivamente passiva?

Ecco lo scoglio, prevedibile, che Freud, una volta perseguito il sogno di abolire l’attività fallica, si trova di fronte. Non si tratta più di affermare genericamente il cambio d’oggetto, non si tratta più  di sostenere che la bimba, desiderando un bimbo dal padre, lo assume quale oggetto, si tratta di definire la natura di questo desiderio, la natura delle pulsioni con cui avviene il “trapasso” all’oggetto padre. Tocchiamo qui il punto più delicato e complesso di tutta la questione, il vero nodo che Freud dovrà risolvere e che può essere cosi semplificato: il cambio d’oggetto esige due condizioni egualmente imprescindibili ma al tempo stesso opposte e incompatibili fra loro. Le due condizioni di cui si tratta sono l’eliminazione dell’attività fallica e, al tempo stesso, la sua conservazione (almeno parziale). L’eliminazione, in ragione del fatto che la bimba non può rivolgersi al padre da una posizione maschile, la conservazione, in quanto la totale eliminazione dell’elemento attivo, comporterebbe, nel rivolgersi della bimba all`oggetto paterno, la presenza di una pulsione passiva che è una contraddizione in termini. Incontreremo fra poco i passaggi cruciali in cui questa necessita di eliminare ad ogni costo ciò che deve essere ad ogni costo conservato, si manifesterà in tutta la sua chiarezza.

Prima di avanzare ulteriormente nella nostra indagine, dobbiamo approfondire il contenuto di questo brano segnalando una questione teorica (vecchia e nuova al tempo stesso) che Freud sta per affrontare e il cui tortuoso sviluppo diventerà percepibilissimo nello scritto del ‘32. Si tratta di ridefinire i termini del rapporto fra la polarità attivo-passivo e la polarità maschile-femminile, definizione che lo mette di fronte alla difficoltà appena segnalata: l’abbandono della clitoride-maschile in favore della vagina-femminile, comportando l’eclissarsi degli impulsi attivi in favore di quelli passivi, fa sì che queste due polarità finiscano per coincidere con il risultato paradossale che il “trapasso” all`oggetto paterno si attua attraverso l’aiuto – dice Freud – delle tendenze passive. Ciò significa che il percorso freudiano, ormai prossimo al traguardo, deve misurarsi con una difficoltà insita nelle stesse premesse iniziali: l’abolizione dell’attività fallica in favore della vagina – necessaria al cambio d’oggetto – perseguita da Freud con un’ostinazione pari alla sua arbitrarietà – ha finito per trasformare il desiderio – se vogliamo la pulsione, la «forza» propriamente parlando, che spinge la bimba verso il padre –  in un desiderio passivo.

Questo, in sintesi, l’esito paradossale di un’operazione che Freud non può accettare per almeno due buone ragioni:

a) perché “il carattere di esercitare una spinta è una proprietà generale delle pulsioni”, perché “ogni pulsione è un frammento di attività” ma soprattutto perché “quando si parla di pulsioni passive, ciò significare altro che pulsioni aventi una meta passiva” (Freud, Pulsioni e loro destini, pag. 18)

b) perché almeno nelle intenzioni, (contraddette, è evidente, nella teoria sul femminile), Freud non ha mai considerato del tutto assimilabili la polarità attivo- passivo e la polarità maschile-femminile prendendo le distanze da un’ approssimazione che, d`altronde, qualsiasi persona di buon senso avrebbe condiviso.

Va però precisato che questo intento, spesso dichiarato, ha sempre subito delle oscillazioni non prive di ambiguità. Cosi, per esempio, se nei Tre Saggi leggiamo che nella fase sadico-anale l’antagonismo che domina la sessualità si limita alla polarità attivo-passivo non potendo ancora essere chiamato maschile e femminile, in una nota del ‘14, aggiuntiva al terzo dei Tre Saggi, si apprende che la libido è definita maschile, perché la pulsione è sempre attiva…(Freud, Tre saggi, pag. 525). Cosi in Pulsioni e loro destini (1915) si ribadisce che il saldarsi dell’attività con il maschile e della passività con il femminile non è un principio assoluto (cfr. pag. 29) ma si afferma, nel contempo, che l’antitesi attivo-passivo viene in seguito a confondersi con quella di maschile e femminile, la quale, preliminarmente, non ha alcuna importanza psicologica. Affermazione a dir poco incauta che non sfugge alla lucidità di lrigaray la quale si chiede legittimamente come sia possibile che la similitudine fra maschio e femmina, così caratteristica nella fase sadico-anale, si trovi successivamente dicotomizzata fra un maschile tutto da una parte e un femminile tutto dall’altra facendo si che le pulsioni presenti nella bimba in quella fase scompaiano nel nulla.

Ascoltiamo Freud in una sintesi illuminante operata nel ‘23 a proposito del rapporto fra le due polarità descritte:

Le trasformazioni che subisce durante lo sviluppo sessuale infantile la ben nota polarità tra i sessi non sono irrilevanti: val dunque la pena di tenerle presenti. Una prima antitesi viene introdotta con la scelta oggettuale, che ovviamente presuppone un soggetto c un oggetto. Nello stadio del organizzazione pregenitale sadico-anale non si può ancora parlare di maschio e femmina, l’antitesi dominante è quella tra attività e passività. Nello stadio seguente di cui siamo venuti ora a conoscenza, quello dello stadio dell’organizzazione genitale infantile, c’è bensì una mascolinità, ma non una femminilità; i termini dell’antitesi sono il possesso di un genitale maschile da un lato e l`esser evirati dall’altro. Solo quando, nella pubertà, lo sviluppo sessuale è concluso, la polarità tra i sessi si identificherà col maschile da una parte e il femminile dall’altra. La mascolinità riunisce in se le caratteristiche del soggetto, dell’attività e del possesso del pene, la femminilità si assume quelle dell`oggetto e della passività, La vagina e vista ora come la dimora del pene. (L ‘organizzazione genitale infantile, pag. 567)

Troviamo qui ricongiunte le due polarità in termini, questa volta, inequivocabili. Siamo nel ‘23 e sino al ‘31 la polarità maschile-femminile, di cui clitoride e vagina fungono da rispettive rappresentanti somatiche, non interverrà a perturbare il percorso freudiano complicandolo ulteriormente. Ma quando questo accade, quando Freud, una volta abolita l`attività fallica, è costretto a dar conto della natura delle tendenze con cui si attua il trapasso all’oggetto paterno definendole “passive” – come risulta dallo scritto del ’31 – la contraddizione sinora evitata si fa manifesta: la pulsione che spinge la bimba verso il padre, verso il cambio d’oggetto, si caratterizzerebbe come una pulsione passiva. Freud, inutile dirlo, se ne rende conto con una tale chiarezza, da sbarazzarsi di colpo, di ogni riferimento alla fase fallica – ormai inutilizzabile perché troppo compromessa ed inquinata dalla sua connotazione maschile – per  mettere al primo posto, dandole carattere prioritario, il concetto di libido che, liberata dalla zavorra dell’attributo maschile, gli dà l’illusione di poter prendere – come si dice e due piccioni con una fava:

Abbiamo visto all`opera le medesime forze libidiche che ritroviamo nel maschio e siamo giunti alla persuasione che per un certo tempo tali forze battano la medesima strada nei due sessi e pervengano ai medesimi risultati. In un secondo tempo (nella bambina), fattori biologici fanno deviare queste forze dalle loro mete iniziali e dirigono anche le tendenze attive, mascoline sotto ogni profilo, sulle vie della femminilità. Poichè non possiamo prescindere dall’idea che l’eccitamento sessuale risalga all’azione di determinate sostanze chimiche, vien subito da congetturare che la biochimica debba un giorno fornirci una sostanza la cui presenza susciti l’eccitamento sessuale maschile, e un’altra che susciti quello femminile(..).. La psicanalisi ci insegna che è sufficiente il concetto di una libido unica, la quale peraltro aspira a mete (vale a dire maniere di soddisfacimento) attive e passive. In questa contrapposizione, soprattutto nell`esistenza di tendenze libidiche con mete passive, è racchiuso il resto del problema. (Freud, Sessualítà femminile, pag. 77)

Trascurando il ricorso di Freud alla biologia, un’ancora di salvataggio che compare immancabilmente ogni qualvolta si trova si trova a corto di argomentazioni, la parte  decisiva di questo brano per cogliere l`evoluzione del percorso freudiano e che cattura maggiormente la nostra attenzione, è quella conclusiva. Freud, come ho appena rilevato, grazie al ricorso del concetto di una libido unica, ormai spoglia dell’attributo maschile (l’omissione è rilevantissima) e grazie a un’importante correzione apportata rispetto al brano precedente – l’ attribuzione della passività alla meta della pulsione e non alla pulsione stessa – compie un movimento che restituisce al desiderio, alla pulsione con cui la bimba si rivolge al padre, quella caratteristica di attività che ne costituisce la prerogativa irrinunciabile coniugandola con la passività ora rigorosamente circoscritta alla meta. Detto in termini più chiari, se il ricorso al concetto di libido ha per Freud il vantaggio, rispetto alla fase fallica, di eliminare l’ingombro del maschile che contrasta con il cambio d’oggetto, la riduzione della passività alla meta della pulsione, gli permette di mantenere attiva la spinta con cui la bimba si rivolge al padre. L`ostacolo sembra dunque momentaneamente superato: l’ondata di passività sembra aver risparmiato la componente attiva della pulsione investendone soltanto la meta conformemente alla tesi sostenuta nel ‘15.

Eppure, a giudicare da quel che segue, è evidente che la soluzione trovata lascia Freud insoddisfatto. Occorre molto di più, è necessario sgombrare il campo teorico, una volta per tutte, da quell’ambiguità che coniuga, troppo semplicisticamente, il maschile con l`attività e il femminile con la passività, e occorre farlo attraverso un’operazione chirurgica davvero risolutiva. Ad introdurci a questo rinnovato tentativo d’articolazione teorica fra le due polarità, è lo scritto del `32, contenuto nella Seconda serie di lezioni della Introduzione alla psicanalisi, 1’ultimo che prenderemo in considerazione. A che pro questo tentativo, viene da chiedersi, visto che la soluzione così faticosamente trovata non è poi cosi male? E perché per la donna, proprio per la donna, la formulazione “mete passive” sarebbe più adeguata? Tabula-Rasa-1.jpg

Qual è l’intento di Freud? Prossime ormai, al termine di questo estenuante percorso, noi crediamo di saperlo: l’operazione qui introdotta mira a un`inversione di tendenza, a una rivalutazione decisamente più esplicita della posizione attiva della donna che con l’abolizione della clitoride e il cambio di zona erogena era stata cancellata. Non solo, ma è necessario apportare una correzione alla passività della meta relativizzandola quanto più possibile:

Si potrebbe pensare di caratterizzare psicologicamente la femminilità con la preferenza per mete passive, il che, naturalmente, non è la stessa cosa della passività; per realizzare una meta passiva può essere necessaria una grande dose di attività. (Freud, Introduzione alla psicanalisi, nuova serie di lezioni, pag. 222)

Viene qui nuovamente affermata la necessità di mantenere vivo ed operante nella teoria quel principio di attività in precedenza sacrificato (e con quale accanimento!) al cambio d’oggetto, senza il quale il rivolgersi della bimba al padre sarebbe insostenibile. Siamo tuttavia ancora distanti dalla meta che Freud intende raggiungere. Il passo successivo infatti – che segna un palese arretramento e quasi un rovesciamento delle affermazioni precedenti – si presenta come un concentrato davvero raro di movimenti sconnessi di andata e di ritorno, di ritrattazioni e ripensamenti che sembrano preludere ad una capitolazione finale senza uscita:

Con l’abbandono della masturbazione clitoridea si rinuncia parzialmente all’ attività. La passività prende ora il sopravvento e la svolta verso il padre viene compiuta con l`aiuto di spinte pulsionali passive. Capirete che, nello sviluppo, un simile passo che toglie di mezzo l’attività fallica spiana il terreno alla femminilità(..), la situazione femminile è però affermata solo quando il desiderio del pene viene sostituito da quello del bambino. (Ibid, pag. 234)

ll livello di confusione che precipita in questo passaggio – in cui Freud ci esorta a capire ciò che sa bene essere del tutto infondato – è davvero estremo. ll principio di attività, parzialmente reintrodotto in un primo momento, viene “tolto di mezzo” qualche riga più sotto; ad essere passive non sono più le “tendenze” né la “meta” ma le “spinte pulsionali”. (Cfr. Pulsioni e loro destini, pag.l8). Senza contare l’utilizzo del termine «aiuto» quasi a ridimensionare il campo della passività nelle spinte pulsionali bilanciandolo con il principio d’attività ormai irrinunciabile. E che dire, infine, del proseguio del brano che ho tralasciato di citare, dei “fenomeni residui” del primitivo periodo mascolino che turberebbero il dispiegarsi della femminilità? (Cfr. lbid., pag. 237). Freud tratta e ritratta e, dopo aver ritrattato, ritratta ancora, ormai incapace di raccapezzarsi ma sul punto di gettare la spugna, al culmine delle sue peripezie, eccolo annunciare, con un viraggio da Maestro, lo scioglimento di un nodo irrisolto che gli permetterà di pacificarsi, finalmente, con la sua teoria. Qual è questo nodo? E quale il modo in cui Freud lo risolve? E poi, si tratta davvero di uno scioglimento? Sentiamo:

Noi abbiamo chiamato libido la forza motrice della vita sessuale. La vita sessuale è dominata dalla polarità maschile-femminile; viene quindi spontaneo esaminare il rapporto della libido con questa coppia di opposti. Non sarebbe sorprendente se risultasse che a ciascuna sessualità è assegnata la sua particolare libido, cosi che un genere di libido perseguirebbe le mete della vita sessuale maschile e un altro le mete di quella femminile. Ma nulla si simile accade. Vi è una libido sola, la quale viene messa al servizio tanto della funzione sessuale maschile quanto di quella femminile. Alla libido in sé non possiamo attribuire alcun sesso; se, seguendo la convenzionale equiparazione fra attività e mascolinita, preferiamo chiamarla “maschile”, non dobbiamo però dimenticare che essa rappresenta anche tendenze con mete passive. E, d’altra parte, qualificare la libido come “femminile” mancherebbe di qualsiasi giustificazione. (lbid., pag. 237).

Che dire? Se non che la soluzione proposta da Freud nel suo volo finale finisce per annullare, da un certo punto di vista, la sua teoria sul femminile? Come non riconoscere in questa operazione conclusiva – in cui la libido viene separata da attività e mascolinità – l’azzeramento, ormai del tutto inutile e “triviale”, come dice Lacan, dell’opposizione clitoride-vagina, quell’opposizione che gli aveva dato tanto filo da torcere? Ciò che qui Freud tenta di ipotizzare, in un primo momento, sulla base dell’esistenza della polarità maschile-femminile, è la possibilità di considerare il concetto di libido in relazione a questi due opposti, come se fosse possibile immaginare due tipi di libido fra loro diversificati in base al sesso e diversificati non già rispetto alla spinta della pulsione ma unicamente riguardo alla meta. Non potrebbe essere questa, in fin dei conti, una buona soluzione che permetterebbe finalmente di conciliare l’esigenza di conservazione dell’attività, inscindibile dal concetto di pulsione, con l’esigenza di passività indispensabile al cambio d’oggetto?

Eppure Freud scarta senza esitazione questa ipotesi per ribadire con forza non solo l’unicità della libido messa al servizio di due diverse funzioni sessuali, maschile e femminile, ma anche per epurare il concetto di libido da ogni riferimento al sesso maschile. Nondimeno, malgrado queste premesse, Freud ci lascia in eredità, a conclusione del suo ragionamento, un’ambiguità quanto mai evidente: nulla giustificherebbe infatti – se non una preferenza – l’equiparazione fra attività e mascolinità e la definizione, conseguente, di una libido maschile, ma nulla, proprio nulla giustificherebbe, d’altronde, la qualifica della libido come femminile. Se salutassimo questo concetto di unicità della libido – epurata dalla sua compromissione con il maschile – come una promessa di avanzamento teorico, come l`acquisizione di qualche verità in più sulla sessualità femminile, saremmo completamente fuori strada. Infatti Lacan non la pensava affatto cosi, anzi bisogna rilevare che, malgrado le migliori intenzioni e le fatiche di Freud, non trascurerà mai, nei suoi testi, di far seguire al concetto di libido unica l’attributo maschile. Inutile dire che questa insistenza ha delle buoni ragioni. Quale necessità, in effetti, spinge Lacan nel commentare i testi di Freud, a parlare sempre, rigorosamente, di una libido unica maschile quando abbiamo potuto constatare direttamente dal testo freudiano che “alla libido in sé non possiamo attribuire alcun sesso?”.

Certo la conclusione di Freud, con quel termine “preferenza”, è ambigua ma lasciamo pure i punti di sospensione. Per rispondere a questa domanda è indispensabile abbandonare Freud e proseguire il nostro cammino con Lacan, il cui  aveva interrotto il suo. Questo progetto viene da lui stesso enunciato con grande energia e determinazione soprattutto in Encore: si tratta per Lacan di proseguire oltre il punto in cui Freud si era fermato, limitandosi a sostenere il principio di una libido unica maschile senza procedere oltre, senza aver articolato questo concetto con la nozione di significante di cui d`altronde, in assenza di una teoria linguistica, non avrebbe potuto tener conto. Ma che cosa significa per Lacan articolare il concetto di libido unica maschile con la nozione di significante? Significa che nella sua teoria l’unicità della libido maschile e l’unicità della fase fallica, culminano nell’unicità del Fallo come significante “privilegiato”, come unico simbolo di cui manca, sul versante femminile della rappresentazione, un suo “equi-valente”.

Occorre senz’altro riconoscere una necessità teorica irrinunciabile nella tenacia con cui Lacan, a più riprese e in differenti contesti del suo discorso, approda fatalmente al concetto freudiano di una libido unica maschile per entrambe i sessi. Ciò si verifica, immancabilmente, ogni qualvolta l’oggetto del suo discorso è la donna ed in particolare quel paradosso che la “installa nell’ignoranza primaria del suo sesso” e che prende il nome nella teoria di fase fallica, in cui, dall’esistenza di un unico genitale “degno di essere preso in considerazione e maschile per entrambe i sessi”, si approda al primato del fallo simbolico. C`è da rilevare inoltre, che il tracciato discorsivo attraverso il quale Lacan giunge, con una puntualità quasi ossessiva, al concetto di libido unica maschile, presenta nei diversi contesti, della analogie strutturali che non possono non colpire la nostra attenzione: il ricorso a tale concetto compare, infatti, sempre in chiusura, al termine di percorsi spesso lunghi oscuri dispersivi, quasi venisse ad esso delegata la funzione di gettare un fascio di luce, in aprés coup, sulle questioni, ancora oscure, affrontate in precedenza. E’ quanto accade negli Scritti, ne La significazíone del fallo, negli Appunti direttivi per un congresso sulla sessualità femminile e quanto insiste in Encore. Eppure, malgrado la ripetizione stereotipa che caratterizza questi epiloghi finali, la densa zona d’ombra che incombe fra questo Uno e quell’Altro, quell’ “Uno-in-meno” che la donna è, non sarà affatto dissolta, cosicché non si può che ripetere, per la teoria di Lacan, quanto Lacan scriveva a proposito della teoria di Freud:

L’Altro come tale resta…nella teoria freudiana un problema, quello che si esprime nella domanda che Freud ripeteva e Che vuole la donna? (Lacan, Ancora, pag. 127)

La donna, il femminile, restano dunque nella teoria di Freud come in quella di Lacan, un punto di resistenza. Possiamo convenire con Kierkegaard quando scrive:

Essere donna e qualcosa di cosi strano, fluido e complicato, che nessun predicato giunge a esprimere la cosa, e i molteplici predicati che si vorrebbero adoperare finirebbe per contraddirsi in tal modo che soltanto una donna potrebbe sopportarlo.

Mi piace pensare che queste parole non siano la versione edulcorata di un antico detto di lpponatte, secondo il quale i due soli giorni della vita in cui una donna fa felice un uomo sono quello del matrimonio e quello del suo funerale. Fluidità, multiformità e inclinazione a sopportare il giogo della contraddizione sono soltanto alcuni dei valori femminili  irriducibili a un modo insano di pensare il rapporto con l’unicità. Quel modo dell`unicità, trasformato in un valore sessuale misurabile, in un iniquo misuratore di potenza di cui la storia attuale tristemente testimonia. Occorre ben altro. Occorre ben altra potenza, quella che costituisce l’essenza della volontà degli umani – donne e uomini – di oltrepassarsi, di andare oltre se stessi. Occorre che la psicanalisi operi al proprio interno un mutamento di valori, diversi da quelli su cui si è sinora fondata, e se il fallo è uno di questi valori, poco importa se anticamente aveva a che fare con il divino, se i suoi effetti, nel sociale, sono demoniaci.

2 risposte a “La “clinica” della Differenza

  1. Da vecchia femminista, di quelle cattive, avevo già letto tutto. L’articolo è utilissimo per le più giovani che, immagino, hanno fatto finta di avere un orgasmo per compiacere il marito e potere finalmente dormire dopo una lunga giornata di lavoro in casa e fuori. Niente è cambiato, tantomeno gli uomini. Marisa Galli

  2. Questo testo non è mai stato pubblicato, oltre al fatto che è un testo specialistico di ambito psicanalitico, ambito in cui non mi sembra siano in molti a sviluppare queste tematiche. é vero che nulla è cambiato e questo, a mio parere (di giovane “femminista”) è dovuto al fatto che i cardini fondamentali del pensiero patriarcale – che si insinua in ambiti diversi come psicanalisi, psicologia, filosofia, politica, arte etc. – non sono ancora stati fatti saltare ma, al contrario, vengono mantenuti nella loro essenza non solo dagli uomini ma anche da molte di quelle stesse donne che si erano riproposte a suo tempo di agire un cambiamento. Saggi di grande valore come questo (contenuto nel seminario La Clinica della Differenza) sono ancora di gran attualità, la rivoluzionarietà della loro messa in pratica, che sta in una presa di coscienza, è ancora latente, d’altronde cosa sono 100 anni di femminismo in 3000 anni di cultura patriarcale? Non basta aver capito per agire un cambiamento, credo che le donne di tutte le generazioni debbano, durante tutta la loro vita, continuare a sorvegliare il loro rapporto con il “mito dell’uomo” che è la logica predominante del mondo in cui viviamo. Forse, a volte, occorre anche mediare con esso se non altro per non compromettere la propria salute, ma occorre aver pur sempre coscienza di ciò che si sta perdendo di sè in ognuna di queste mediazioni. Penso che, insomma, non sia così facile e che se veramente ciò è stato trasmesso alle nuove generazioni, le vecchie non sono del tutto esenti da questo fallimento.
    Leda Bubola

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