Il “senso della femminilità” come rischio

funambolismo3 Paola Zaretti/ Il “senso della femminilità” come rischio

“Il femminile classicamente inteso deve sparire” – scriveva Lonzi e quel “classicamente inteso” – c’è bisogno di dirlo? –  è,  dell’enunciato,  parte essenziale. Il senso  di ciò che “femminilità” significa per lei – altro, evidentemente, dal “femminile classicamente inteso”  ma altro anche da un’identificazione alienante con l’uomo – comporta il “rischio di perdere la ragione”.

A dircelo è lei stessa:

Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula rasa delle idee ricevute (…), convinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante (…). L’autenticità di questi testi è che riposano su un vissuto (…) e dunque ho affermato tutto sul vuoto (…) su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore (…). Autocoscienza dunque come tabula rasa dei miti. (Taci, anzi parla)

Questo vuoto ognuna è sola nell’ affrontarlo, nel misurarlo: è appena sopportabile, è il rischio di perdere la ragione (Itineriario di riflessioni)

Tale rischio è il mio senso della femminilità (Ibid.)

E’ dunque facendo Tabula rasa delle idee e delle certezze acquisite e del loro veleno paralizzante che Lonzi, dopo aver “affermato tutto sul vuoto”, diventa lei stessa quel vuoto “appena sopportabile” che mette a rischio la ragione. Ma di quali idee e di quali certezze fa Tabula rasa? Di un’idea di femminilità che la ridurrebbe alla “donna dell’uomo” da cui il  suo senso del femminile – la sua differenza femminile – si congeda. Se  il confronto con quel vuoto d’identità mette a rischio la sua ragione, è perché l’identità ricercata, affine al suo senso del femminile, è un’identità inesistente e tutta da inventare, un’identità inassimilabile sia alla figura della donna “clitoridea” che  a quella della donna “vaginale”.

Ciò che Lonzi ci racconta è dunque la storia di una peripezia: la peripezia dell’identità femminile. E’ la storia di un’identità che se non può, per delle buone ragioni, essere assunta da una donna, non può neppure essere negata. A collocare la sua posizione nell’orizzonte del Tragico, è dunque una duplice impossibilità: impossibile assumere tale identità senza diventare “la donna dell’uomo”, impossibile negarla. Fra questi due Impossibili Lonzi imbocca la via arrischiante ma conforme al suo senso del femminile come la sola praticabile. Di questo aspetto tragico  dà conto Maria Luisa Boccia nel suo libro Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita in cui i due rischi sono ben individuati e rispettivamente incarnati nelle figure della “donna clitoridea” e della “donna vaginale”:

Lonzi sfugge a due rischi, entrambe paralizzanti. Assumere o negare l’identità femminile. Rovesciare in valore il disvalore, oppure perseverare nel disprezzo, magari mascherandolo da sacro furore per l’oppressione subita, e da appello al riscatto della vittima. Nel gioco di immagini tra la clitoridea e la vaginale è possibile rintracciare tutta la gamma di variazioni del femminile, senza farsi imbrigliare nel giudizio di valore. Non c’è una linea di di discriminazioni  tra donne migliori e donne peggiori (cfr. Sputiamo su Hegel, p. 36). Piuttosto c’è da nominare ciò che le donne hanno in comune. Il punto doloroso, quanto vivo, in cui ciascuna si scopre debitrice dell’uomo, nella sua stessa identità. Se della clitoridea va riconosciuta e accolta la forza che trae dall’interiore rifiuto del ruolo e dell’identità, solo la sottrazione della vaginale alla complicità strappa il velo sulla relazione tra i sessi. La clitoridea sperimenta quanto la sua resistenza personale possa risultare poco incisiva. Come finisca per disperdersi in gesti di ribellione  senza sbocchi, che la isolano dal suo sesso. Se viceversa si spezza la complicità della donne vaginali con la cultura patriarcale diviene possibile mettere fine alla dipendenza. Non vi può essere infatti una soluzione personale, stabile e certa, per una dipendenza comune.

Il rifiuto del ruolo femminile stabilito dall’uomo e messo in atto dalla “clitoridea” o la sua accettazione,  assecondata dalla “vaginale”, sono due strade opposte dalle quali la fuoriuscita dalla dipendenza dall’ uomo – senza lo smantellamento della complicità delle donne “vaginali” con la cultura patriarcale – risulta impossibile. Se facciamo un passo ulteriore e mettiamo a confronto il rifiuto del  femminile per come esso si presenta nel pensiero di Lonzi, con il rifiuto del femminile comune a entrambe i sessi teorizzato da Freud in Analisi terminabile e interminabile (1924),  – un rifiuto che costituisce in analisi uno scoglio insormontabile – il  No di Lonzi alla femminilità sembrerebbe rientrare, a prima vista, nel quadro di quella comune avversione misogena descritta da Freud che indurrebbe la donna  ad aderire al modello  “mascolino”. Ma così non è. Al contrario, il rifiuto di Lonzi del femminile non solo non ha nulla a che vedere con un’’adesione a un tale modello (“massima distanza dal maschile, massima distanza dal femminile” –  scrive infatti Boccia), ma è la via da lei indicata per l’uscita delle donne da una condizione di insignificanza.

Detto altrimenti, il suo rifiuto del femminile rappresenta, paradossalmente, la massima valorizzazione di un femminile non “classicamente inteso” ma originato da “un’intuizione su un corso diverso della vita femminile”, un corso imprevisto e non contemplato nella comune visione stereotipa della femminilità:

La donna clitoridea si rende conto del perché gli psicanalisti l’abbiano definita infantile e mascolinizzata e abbiano trovato detestabile la sua ostinazione a mantenersi sul proprio sesso (…) manifestando una tendenza a dare a se stessa la precedenza invece che all’uomo, la clitoridea sembra ripetere qualcosa di proprio alla mascolinità. Mentre, semplicemente abbandona la condizione emotiva di chi può accettare, gratificata, uno stato di insignificanza. L’infantilismo della donna clitoridea è la sua intuizione su un corso diverso della vita femminile (…). La sua è una conquista di sé e della propria femminilità che non si concentra nello spazio complementare allo spazio dell’uomo, ma si estende fuori dell’eterosessualità patriarcale (Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale)

“La clitoridea sembra ripetere qualcosa di proprio alla mascolinità” – dice Lonzi – ma a dispetto degli psicanalisti, non c’è traccia in lei né di infantilismo né di identificazione all’uomo. Ma se non c’è neppure, con buona pace di Freud, identificazione alla “donna dell’uomo” (vaginale) è perché il suo senso del femminile la colloca  altrove, in una posizione Terza egualmente distante sia dalla donna mascolinizzata che dalla donna oggetto.

Forse non mi sarei  interessata tanto a questa particolare e complessa posizione di Lonzi se non fosse che le profonde ragioni del suo rifiuto del femminile – condiviso e presente in molte donne nei riguardi delle loro simili  – corre il rischio di essere facilmente ed erroneamente scambiato – come spesso capita – per misoginia. In realtà, a differenziare radicalmente  il rifiuto di Lonzi  dal rifiuto misogeno, è la diversa natura dei sentimenti in gioco. Infatti, mentre il rifiuto misogeno descritto da Freud, è sempre accompagnato da un sentimento d’odio e di disprezzo di uomini e donne verso la donna (e della donna verso se stessa), nel doppio rifiuto di Lonzi  – del femminile “classicamente inteso” e dell’adesione a un modello maschile – prevalgono l’amore per la donna, il suo desiderio di farla uscire dall’insignificanza ma prevale anche – ed è questo il punto fondamentale – una visione della donna libera dall'”ingombro fallico”, una visione a-fallica . A manifestare un netto rifiuto del modello mascolino e di un’identificazione con l’uomo, sono infatti quelle donne che, liberate dall’”ingombro fallico”  rifiutano in altre donne il “femminile negato”,  l’uomo che c’è  in loro e che si fa riconoscere, più di quanto loro stesse vorrebbero e sarebbero disposte ad ammettere.

Il conflitto fra donne è dunque sempre, come già detto in altro contesto, un conflitto uomo-donna, è sempre un conflitto rispetto a due diversi posizionamenti assunti dalle donne a prescindere dall’anatomia che non è, come pensava Freud, un “destino”. Una donna anatomicamente donna può benissimo posizionarsi al maschile senza averne alcua consapevolezza. C’è una domanda che a questo punto possiamo porci: il femminismo “della differenza” – che tante energie ha impegnato per promuovere fra donne una nuova “cura” dell’isteria, una “terapia politica dell’isteria”  è riuscito davvero, attraverso il ricorso a un Ordine materno, ad andare oltre il fallicismo, oltre l’identificazione con l’uomo, oltre l’identificazione al padre tipica della posizione isterica, oltre, insomma, la stessa isteria che, come ci ricorda Lacan, rappresenta per la donna la via più breve?

La sua posizione (della donna) è essenzialmente problematica e, fino a un certo punto, inassimilabile. Ma una volta che la donna è impegnata nell’isteria bisogna dire che la sua posizione presenta una stabilità particolare…

A sentire Angela Putino sembrerebbe di no:

…L’isteria ormai non è più ciò che gli uomini – psicanalisti, amanti, amici – hanno pensato, riferendolo alle (loro) donne, ma solo il termine con cui alcune femministe hanno designato un proprio comportamento.

Inutile dire che senza la rinuncia a un’identificazione con l’uomo non c’è  “differenza”. I “Nomi del padre” sono tanti e  nulla garantisce che l’ordine della madre non sia sia uno dei tanti.

funambolismo3

Si veda, sempre a questo proposito: http://femminismoinstrada.altervista.org/il-femminile-che-fa-la-differenza-dal-femminile/