IL MOVIMENTO FEMMINISTA E LE SUE PRATICHE

 

17457391_1476198375745658_7775291242098867773_nPer un’epistemologia dello scarto e della resistenza

di Leda Bubola

A spingermi a scrivere questo saggio è il desiderio di riflettere su alcune esperienze significative del femminismo di seconda ondata, in particolar modo, sulle pratiche che il movimento femminista ha sperimentato nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Non intendo fornire una ricostruzione storica degli avvenimenti né dei contesti che hanno accolto tali sperimentazioni[1], ma introdurre una prospettiva analitica che getti luce sui nessi esistenti tra i quattro piani del discorso presi in considerazione in questa sede: università e carriere accademiche, movimenti sociali, diritti e politiche, educazione e formazione.

Il titolo del convegno, Saperi di Genere, presuppone la presenza di una pluralità di discorsi accomunati dall’attenzione data al concetto di genere. Come tutte e tutti sappiamo, la parola genere è la traduzione italiana del termine inglese gender, che designa “i molti e complessi modi in cui le differenze tra i sessi acquistano significato e diventano fattori strutturali nell’organizzazione della vita sociale”[2]. Questi modi hanno a che fare con la storia e il contesto socio-culturale che ciascuna epoca porta con sé, con i comportamenti che manifestano l’innestarsi di questa realtà nella vita delle persone, con i fenomeni politico-istituzionali che riflettono il contesto sociale accogliendone o ignorandone i bisogni.

Il termine genere è quindi utilizzato in contesti diversi. È stato introdotto dalla filosofa statunitense Judith Butler nel libro del 1990 intitolato “Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity” e proposto al pubblico italiano nel 2004 con il titolo “Scambi di Genere”. Il femminismo entra in scena nel sottotitolo di Butler collocandosi in stretta relazione con le sue prime riflessioni sul concetto di gender. Sono soprattutto le posizioni di Simone de Beauvoir, Luce Irigaray e Monique Wittig che interessano a Butler perché mettono in evidenza la dinamica di potere alla base della differenziazione tra i sessi e la costruzione socio-culturale che la legittima.

Come si evince dal sottotitolo del libro “Feminism and the Subversion of Identity”, il femminismo è collocato in stretta relazione con l’identità nel senso di una sua sovversione. Questo legame tra femminismo e soggettività è la questione centrale di questo saggio. Cercherò infatti di mostrare come il nesso esistente tra le pratiche sperimentate durante il movimento di seconda ondata e le rivendicazioni socio-politiche del periodo si articoli attorno alla ricerca di nuove possibilità di soggettivazione e come queste ultime si rivelino possibili solo a patto di una messa in discussione radicale dell’impianto fallologocentrico della nostra cultura.

Prima di cominciare è necessario articolare una distinzione tra due piani del discorso che vengono convocati in questa sede: il primo è quello introdotto dalla parola gender presente nel titolo del convegno, il secondo è quello delineato dalla parola differenza[3], termine rappresentativo del movimento femminista di seconda ondata che ho scelto come punto di partenza per la mia riflessione. I due termini, gender e differenza, sono legati dal rapporto che il movimento femminista ha con il movimento trans, intersex e elgbtqi e che il pensiero femminista ha con il queer da un punto di vista più teorico. Questo rapporto viene così descritto da Judith Butler:

“È bene che io dica subito […] che la mia convinzione è che sarebbe un errore aderire a una nozione progressiva della storia, secondo cui [il femminismo, il queer, il movimento trans*, il movimento intersex vengono concepiti] in successione o, peggio, in sostituzione [l’uno con l’altro]. Dal mio punto di vista non esiste una storia da raccontare relativamente al passaggio dal femminismo al pensiero queer, al pensiero trans*, ecc. E la ragione per cui non c’è una storia da raccontare è che nessuna di queste storie appartiene al passato: queste storie continuano ad accadere, simultaneamente, e si accavallano proprio mentre cerchiamo di catturarle in una narrazione comprensiva”[4].

Sono d’accordo con Butler nell’affermare la necessità di non porre questi movimenti e le loro elaborazioni teoriche “in successione o, peggio, in sostituzione” l’uno con l’altro. Eppure la loro complessità ci induce a cercare un punto di vista che permetta l’articolazione delle relazioni esistenti tra questi diversi panorami pratici e teorici. L’importante è che questa particolare prospettiva non si ponga in maniera totalizzante ma rispetti gli scarti operanti all’interno di uno stesso contesto o tra ambiti diversi e a partire da questo scarto, si soffermi su ciò che non è ancora stato analizzato.

In questa sede propongo di partire dalle pratiche sperimentate durante il movimento femminista di seconda ondata per dare importanza al processo attraverso il quale nuove soggettività emergono e cercano riconoscimento. Dove si trova il fattore di resistenza e di scarto in questo processo? Risiede nella presa di coscienza di un sistema di pensiero discriminante che ha origini antiche e che, nonostante i numerosi sforzi per decostruirlo, continua a riprodursi. La presa di coscienza infatti non è sufficiente per uscire dal circolo vizioso di una violenza che riproduce se stessa perché, come ricorda Pierre Bourdieu in uno studio condotto sulla società patriarcale dei Cabili di Algeria:

“le stesse donne applicano a ogni realtà e, in particolare, ai rapporti di potere in cui esse sono prese, schemi di pensiero che sono il prodotto dell’incorporazione di questi stessi rapporti di potere e si esprimono nelle opposizioni fondatrici dell’ordine simbolico. Ne segue che i loro atti di conoscenza sono atti di riconoscimento pratico, di adesione dossica, credenza che non deve pensarsi e affermarsi in quanto tale e che ‘fa’ in qualche modo la violenza simbolica che essa subisce.”[5]

Non credo che questo valga solo per le donne ma per tutti coloro che sperimentano su di sé la violenza di un sistema di oppressione, dominazione e discriminazione. Questo sistema non si fonda solo sulla categoria del sesso e dell’orientamento sessuale ma anche su altre categorie come l’etnia, la classe, la religione. Non dimentichiamoci che il movimento femminista di seconda ondata, sorto in America e diffusosi poi in tutta Europa, era nato insieme al movimento antirazzista e al movimento studentesco[6]. A questo proposito ricordiamo che con il termine intersezionalità[7] si indica la multidimensionalità del processo di soggettivazione che comprende diversi parametri – l’etnia, la classe, la religione, il sesso, l’orientamento sessuale.  L’ingiustizia e la disuguaglianza sociale possono esprimersi su più livelli nonostante ci sia chi, come Luce Irigaray, considera la costruzione socio-culturale della differenza sessuale all’origine di ogni sistema di discriminazione.

Passiamo ora al movimento femminista di seconda ondata dal quale prende avvio la riflessione proposta in questo saggio. Nel periodo storico a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta si manifesta una particolare confluenza di questioni e discorsi che riflettono le esigenze pratico-esistenziali delle donne. A partire da una condizione di vita degradante che riduceva la donna a proprietà dell’uomo[8] privandola di alcune capacità essenziali del funzionamento umano (Nussbaum, 2001) tra cui l’integrità fisica, la capacità di muoversi liberamente da un luogo all’altro, di avere assicurata la sovranità sul proprio corpo, di poter trovare soddisfazione sessuale e di scegliere in materia di riproduzione, o ancora di avere la possibilità di essere in grado di usare pienamente i sensi, di immaginare, pensare e ragionare, di partecipare effettivamente alle scelte politiche che regolano la propria vita e molto altro ancora, le donne si mobilitano per modificare il loro status esistenziale e socio-politico ed accedere ad una libertà loro negata.

In questo cammino lungo e tortuoso che continua ancor oggi e che ha mobilitato di recente circa centocinquantamila persone per la Manifestazione contro la violenza sulle donne tenutasi a Roma il 26 novembre scorso, si intersecano diverse dimensioni coinvolte nella vita di una persona: il diritto a vivere una vita degna di un essere umano, e quindi di possedere gli strumenti e le risorse necessari a soddisfare i bisogni primari come la fame e la sete, la sessualità, il sonno e i bisogni che riguardano la sicurezza del corpo, il lavoro, la famiglia e la casa, e poi necessità che pur non avendo strettamente a che fare con la dimensione fisiologica sono condizioni necessarie per una vita degna di essere vissuta, per esempio la possibilità di sviluppare stima e rispetto per sé e per gli altri, di assumere consapevolezza dei propri desideri e capacità, la possibilità di esprimere spontaneamente la propria creatività. Sappiamo che la violenza che hanno subito e subiscono ancora molte donne privano loro proprio del rispetto di sé e della stima necessari a vivere pienamente.

In quest’elenco di bisogni fondamentali è possibile distinguerne di due tipi, quelli che riguardano più strettamente il corpo e la sua sopravvivenza e quelli, invece, che riguardano la possibilità dell’individuo – maschio e femmina – di scoprire ed esprimere se stesso/a. Il movimento femminista di seconda ondata ha messo in evidenza come le donne siano state private fin dagli inizi della civiltà[9] di alcuni di questi diritti fondamentali, tra i più importanti quelli di poter decidere cosa fare del proprio corpo e della propria sessualità, tutto questo in una maniera del tutto peculiare, una modalità che ha richiesto e richiede ancor oggi un’analisi approfondita dei presupposti storico-filosofici e antropologici che hanno permesso ad una tale atrocità di passare sotto silenzio.

Il fatto stesso che oggi io abbia consapevolezza di quanto sia importante il soddisfacimento di questi bisogni e il rispetto dei diritti che essi esprimono, presuppone un passaggio storico di presa di coscienza elaborato a partire da un’esperienza di grave limitazione della libertà, una limitazione che io e le generazioni dopo di me non abbiamo conosciuto grazie alla lotta di chi ci ha preceduto e di cui ricordo alcune tappe fondamentali: il referendum sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, il referendum sull’aborto del 1978 e, infine, l’abolizione del delitto d’onore del 1981 fino ad arrivare alla Convenzione di Istanbul del 2011.

Questa lotta è sorta in seno ad un lavoro silenzioso che le donne hanno svolto durante gli anni Settanta, una pratica chiamata “autocoscienza”. Come scrive Micaela Maitilasso nella sua tesi dedicata a Carla Lonzi, pensatrice femminista di seconda ondata: “I gruppi di autocoscienza erano composti da un numero ristretto di donne che si riunivano per parlare di sé, dei propri vissuti e della propria esperienza, secondo la modalità della risonanza interiore reciproca”[10]. Che cosa significa parlare di sé? Come può succedere che parlando di sé ad altre si attivi una volontà di cambiamento? Come può essere che si comprenda che uno dei fattori della propria sofferenza privata sia la propria condizione socio-culturale, di sé in quanto donna? Come sono connessi questo fuori e questo dentro?

La questione che si pone in queste domande riguarda il rapporto tra una pratica che si basa sul parlare di sé e la produzione di possibilità soggettive che si esprimono a livello socio-politico. L’esperienza del movimento femminista di seconda ondata dimostra che questi due livelli che ho chiamato in altra sede, la dimensione esistenziale e la dimensione etico-politica[11], sono profondamente connessi. La filosofia antica ha molto da insegnarci a riguardo, basti pensare all’“Etica Nicomachea” di Aristotele. Ma la questione più difficile da comprendere e sulla quale varrebbe la pena soffermarsi è la seguente: come si costruisce il rapporto tra la dimensione soggettiva e quella etico-politica? Se la cultura è lì dal principio del processo di soggettivazione, come si configura questa presenza nella storia del soggetto? Quali vie sono possibili e quali, invece, impossibili? Quali sono le conseguenze di questa impossibilità?

Quello che vorrei sottolineare è l’importanza spesso tralasciata dei nessi esistenti e ancora poco indagati tra soggettività e politica. La lotta delle donne per la conquista di diritti e politiche che rispettassero la loro dignità è stata possibile grazie ad una presa di coscienza della loro condizione di subalternità. Le successive analisi condotte dalle filosofie femministe, che hanno preso vita a partire dal movimento di seconda ondata, hanno origine a partire dalle condizioni di privazione appena descritte che sono datate di molto anteriormente al movimento degli anni Settanta. Così Mary Wollstonecraft scriveva nel 1792: “E’ ora di effettuare una rivoluzione dei modi di vivere delle donne – è ora di restituir loro la dignità perduta – e di far sì che esse, come parte della specie umana, operino, riformando se stesse, per riformare il mondo”.[12]

Il movimento femminista ha tracciato un itinerario nel corso della storia, dalle dichiarazioni di Mary Wollstonecraft [13] fino ad oggi, nella direzione di un’acquisizione di politiche e diritti strettamente connessi con la sempre maggior consapevolezza della condizione subalterna delle donne. Ma c’è di più, già la Wollstonecraft mette in luce una necessità che sarà poi al centro del movimento femminista di seconda ondata, non solo la necessità di un cambiamento in termini di acquisizione di diritti e politiche ma anche di una riforma interiore.  Questo concetto si ritrova sviluppato nel pensiero di alcune importanti pensatrici femministe di seconda ondata. Così, per esempio, Luce Irigaray, filosofa femminista e psicoanalista, scriveva a proposito della necessità delle donne di operare un cambiamento profondo:

“La donna deve percorrere un itinerario doloroso e complesso. Una vera e propria conversione al genere femminile (…). Le difficoltà che le donne incontrano per entrare nel mondo culturale maschile hanno come conseguenza che quasi tutte, comprese quelle che si dicono femministe, rinunciano alla loro soggettività femminile e ai rapporti con le altre donne, e ciò le conduce verso un vicolo cieco, individuale e collettivo, dal punto di vista della comunicazione.”[14]

Quest’importante considerazione è il motivo per il quale ho scelto di soffermarmi sui movimenti sociali, in particolar modo sul movimento femminista. Ritengo, infatti, che il problema della soggettivazione emerso come una necessità così urgente dal movimento di seconda ondata e dalle sue pratiche sia al centro dei tentativi di cambiamento in altri piani dell’esistenza: il piano dell’istruzione, con il difficile inserimento dei women’s studies prima, degli studi di genere poi, all’interno delle Università, il piano dei diritti e delle politiche, si pensi alla lotta per il diritto di aborto sorta in parallelo alla presa di coscienza delle donne sul proprio corpo e al desiderio di potersi appropriare della propria capacità riproduttiva, infine, il piano dell’educazione e della formazione, con la messa in discussione dei ruoli di genere, per come oggi li analizziamo.

Ma in cosa consiste il processo di soggettivazione che, nel caso del movimento femminista di seconda ondata, risponde a una necessità specificatamente femminile? Ho preso questo termine dal vocabolario lacaniano e, dunque, dall’ambito psicoanalitico. Per Lacan il processo di soggettivazione è un movimento di appropriazione, di acquisizione di una padronanza che avviene solo attraverso una separazione[15], un movimento di disalienazione che permette alla parola di soggettivarsi, in altre parole di manifestarsi come espressione di una “singolarità incarnata” (Cavarero).  Ciò che la psicoanalisi tradizionale, di stampo fallologocentrico – come analizza Luce Irigaray – non prende in considerazione è l’impianto monosessuato del simbolico nel quale viviamo e dal quale prende avvio il processo di soggettivazione di maschi e femmine. Se il simbolico è neutro-maschile esso non contempla il sesso femminile, e quindi le femmine mancano del materiale simbolico che dia loro la possibilità di completare questo processo. Osserviamo adesso come questa condizione è descritta dalle femministe del movimento di seconda ondata spostandoci dall’ambito psicoanalitico a quello filosofico-pratico.

Termini come soggetto e soggettivazione hanno a che fare anche con l’ambito filosofico, soprattutto laddove chi scrive non riesce a considerare psicoanalisi e filosofia due ambiti avulsi l’uno dall’altro e opera, invece, tra loro una distinzione e, allo stesso tempo, una connessione che somiglia al rapporto delineato da Paul Ricoeur tra la filosofia e la non-filosofia: “La filosofia è sempre in relazione con la non-filosofia (…) Se si rompe il legame vitale tra filosofia e non-filosofia, la filosofia corre il rischio di non essere più di un semplice gioco di parole e, al limite, un puro nichilismo linguistico”[16]. Questo nesso di cui parla Ricoeur è evidente nel passaggio dal sapere prodotto dal movimento femminista di seconda ondata – i saggi sulla sessualità, sull’autocoscienza, sulla possibilità di espressione di una soggettività alternativa a quella neutro-maschile – alle filosofie che a partire da esse sono state elaborate, filosofie a ragione frammentarie, perché critiche di quell’impianto logico tendente alla riduzione della molteplicità all’Uno che domina l’Occidente fin dalle origini[17].

Partiamo quindi da alcune sollecitazioni che ci vengono direttamente dal movimento di seconda ondata facendo riferimento a una delle sue teoriche più importanti, Carla Lonzi. Dal 1990 ad oggi Maria Luisa Boccia ha dialogato con la teorica di Rivolta Femminile – collettivo nato nella primavera del 1970 – in due libri intitolati “L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi” (1990) e “Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita” (2014). In essi è raccontato il percorso compiuto da Lonzi, dalla carriera nel mondo della critica d’arte al passaggio al femminismo e all’autocoscienza. Boccia riconosce nel pensiero di Lonzi l’impossibilità per la donna di trovare risposta nella cultura. Essa infatti svolge in essa il ruolo di spettatrice, è complice del protagonista dell’arte e della cultura, l’uomo, ma non esiste separatamente da lui, esiste solo svolgendo quella funzione complementare di cui l’uomo necessita per sostenere la propria soggettività. Così scrive Lonzi nel suo diario intitolato Taci, anzi parla. Diario di una femminista:

“Quando ho capito che mi si chiedeva di immedesimarmi nello spettatore ideale mi sono sentita a disagio. Che funzione era quella? D’altra parte, l’ambiguità dell’artista verso lo spettatore viene anche dal fatto che lui ne ha bisogno e perciò deve sentirsi autorizzato a procurarselo: lo cerca, lo alletta, lo adopera, lo ricaccia lontano dalla ricerca di sé. Nonostante tutto l’artista fa il vuoto di creatività attorno a sé.”[18]

In ambito filosofico è Adriana Cavarero che meglio descrive la posizione della donna nel simbolico neutro-maschile:

“Come in uno specchio, l’uomo si riflette nelle sue autorappresentazioni e cattura in esse anche la donna, funzionalizzandola ai suoi bisogni e al suo desiderio. L’altra non è veramente l’altra, bensì appunto l’altra a partire da lui e per lui. È un’altra senza una parola o un’immagine propria, che occupa cioè il posto a lei assegnato dalle parole e dall’immaginario che regnano nel dominio del medesimo. La logica del medesimo mostra dunque che l’economia binaria è un’economia omosessuale. Non necessariamente nel senso di una pratica erotica, ma piuttosto nel senso che il vero soggetto e l’unico protagonista di quest’ordine ha un solo sesso: quello dell’uomo che si rispecchia nel medesimo.”[19]

Se nel simbolico, che incide sulle dinamiche socio-culturali determinando le possibilità di soggettivazione degli individui maschi, femmine o intersessuali, la donna non esiste che nella posizione di oggetto funzionale al determinarsi della soggettività maschile, se non esiste separata dall’uomo allora per essa non c’è la possibilità di portare a compimento quel movimento di appropriazione, di acquisizione di una padronanza che avviene solo attraverso una separazione e che Lacan descrive come il cuore del processo di soggettivazione. Per questo Irigaray, che è anche psicoanalista, ritiene fondamentale che le donne percorrano quell’“itinerario doloroso e complesso” che chiama “conversione al genere femminile”.

Irigaray si riferisce a una “soggettività femminile” che si ritrova nei “rapporti con le altre donne” e che è stata messa da parte nel momento in cui, dopo il movimento di seconda ondata, il femminismo ha cominciato ad accedere a luoghi che prima erano preclusi, l’Università, la politica, il mondo del lavoro, per fare alcuni esempi. Lungi dal sostenere che non sia importante un accesso delle donne a questi luoghi, ritengo che essi promuovano solo in parte quel processo di soggettivazione auspicato da Irigaray. Credo che l’ambito dei movimenti sociali fornisca altri ingredienti fondamentali perché ci parla dell’esperienza formativa coinvolta in questo processo, un’esperienza che chiama in gioco necessariamente una pratica. Questo non vale solo per la “soggettività femminile”, ammesso che essa esista e non indichi semplicemente un tipo di soggettività che non si fonda sull’esclusione ma sulla relazione. Vale per qualsiasi soggettività che cerchi un riconoscimento al di fuori delle norme condivise dell’ethos collettivo.

Esiste un nesso tra l’ambito pubblico della politica e dell’accademia e l’ambito privato dell’esperienza ma esiste tra loro anche uno scarto insanabile che però può diventare operante e innescare la ricerca. Analizzare la necessità di soggettivazione espressasi durante il movimento femminista di seconda ondata e metterla in relazione con le rivendicazioni di diritti e politiche di allora come di oggi, significa porre un nesso tra un fenomeno psichico e uno socio-culturale. Tutti e tutte sappiamo come queste due dimensioni siano strettamente connesse l’una all’altra ma è molto più difficile riuscire a renderne conto.

Ciò che Irigaray propone con il termine “soggettività femminile” è un diverso modello di soggettivazione da quello espresso dal simbolico neutro-maschile. Irigaray è filosofa e psicoanalista, nel suo celebre testo Speculum (1972) che le è costato l’espulsione dall’École freudienne di Jacques Lacan e che è diventato uno dei testi più importanti del femminismo di seconda ondata, analizza il carattere monosessuato del simbolico occidentale. La cultura che condiziona il nostro immaginario contempla un ventaglio di possibilità esistenziali che si esprimono attraverso simboli – segni che rinviano ad altro significato –, in psicoanalisi il simbolo è la “rappresentazione figurata di un contenuto inconscio e latente”[20]. Secondo Irigaray il simbolico occidentale contempla un simbolo per un solo sesso, quello neutro-maschile, il sesso femminile non è rappresentato se non come complementare al maschile. Da qui l’esclusione della differenza – di qualsiasi differenza e non solo di quella femminile – e della dimensione relazionale dal processo di soggettivazione.

Per costituirsi il soggetto neutro-maschile ha bisogno di espellere l’altro da sé, essendo quest’ultimo ostacolo alla sua rappresentazione come individuo autonomo e autosufficiente. Se il soggetto, infatti, si fonda sulla relazione esso deve fare i conti con la dipendenza che la relazione implica. Adriana Cavarero analizza questa questione dal punto di vista della violenza che il soggetto opera nei confronti dell’alterità[21] e ne descrive il processo di soggettivazione nel suo recente lavoro intitolato “Inclinazioni. Critica alla rettitudine” (2013). Anche Judith Butler, che instaura con la filosofa italiana un intenso scambio intellettuale a partire dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, opera una critica profonda dell’etica che promuove questa violenza (Butler, 2006). Entrambe le filosofe sono profondamente impegnate ad analizzare lo sviluppo nella storia delle idee di un’ontologia individualista che si fonda su una violenza teoretica ed etica che abita il cuore della cultura occidentale.

Questi sviluppi teorici importanti, che non sarebbero esistiti se il movimento femminista di seconda ondata non avesse bussato alla porta delle istituzioni accademiche, traggono origine – e questo è ciò che vorrei ricordare oggi – dall’espressione di un disagio sociale nel quale milioni di donne si sono riconosciute e si riconoscono ancor oggi a partire dalla condivisione di difficoltà materiali che derivano dall’appartenenza al sesso femminile fino ad arrivare all’espressione esistenziale di questa condizione, a quella sensazione di estraneità a un sistema di pensiero nel quale non si riconoscono, perché promotore della loro stessa esclusione.

Allo stesso tempo uno scarto opera tra il contesto accademico e quello dei movimenti sociali. La teoria tende a seguire la propria strada senza confrontarsi con il terreno della pratica che ci parla della necessità di far fronte a un disagio esistenziale, a una possibilità di soggettivazione preclusa dal simbolico. Esso non riguarda solo le donne, ammesso che esse vogliano optare per una soggettività differente da quella neutro-maschile, ma tutte quelle soggettività che come loro si sentono soffocate da un ethos che le esclude mettendole a tacere, evitando di interpellarle. Si pensi, ad esempio, alle persone trans, intersex, agli omosessuali e alle lesbiche, solo per fare alcuni esempi. Se questo scarto è insanabile, come credo, è possibile trovare un modo per renderlo operante, per far sì che esso generi un pensiero capace anche di rapportarsi alla teoria in maniera proficua? E viceversa, come può la teoria rapportarsi a questo sapere? Sicuramente a partire da una contaminazione, come quella proposta in questa sede.

Lo scarto, quindi, è inevitabile e non credo che cercare di eliminarlo presentando una continuità fasulla tra movimento e accademia, interiorità e diritti, formazione intesa come processo di crescita ed educazione intesa come programma formativo proposto da un istituto scolastico, possa giovare alla nostra ricerca né aiutarci ad elaborare possibilità formative che prendano in considerazione livelli diversi di azione. Nessuno dei due poli è sacrificabile, tra loro possiamo creare una tensione fertile e produttiva come la filosofa femminista Angela Putino, citando un’espressione del poeta Artaud, ricorda essere una possibilità del pensiero:

“Così talvolta occorrerebbe rifiutare di fare del pensiero, per poter pensare, aspettare il varco che si libera e non il tragitto della disciplina in cui ci si iscrive. Spezzare, non rendere consequenziale, non porsi dove le frasi crescono le une sulle altre nel pullulare discorsivo, sempre disposte all’amplificazione e alle varianti, ma accorrere alla rarità dell’enunciato che si libera proprio dove qualcosa si interrompe, dove un filtro si arresta, dove altro ancora fugge via alla contestualità che sembrava accoglierlo. Un filo d’acqua su un vulcano (A. Artaud)”[22].

Per riassumere, secondo la tesi qui presentata, le pratiche dello stare insieme che le donne hanno sperimentato nel corso degli anni Settanta e Ottanta, tra cui la celebre pratica dell’autocoscienza portata in Italia da Serena Luce Castaldi sulla scia della sua esperienza nel Women’s Liberation Movement di New York, esprimono la necessità delle donne di intraprendere un processo di soggettivazione attraverso il quale raccontarsi pensarsi e rappresentarsi separatamente dall’uomo. A partire da un vissuto che esprime quella che Maria Luisa Boccia ha definito “la mutilazione della coscienza femminile”[23] operata dalla cultura occidentale, le donne cercano di elaborare la loro condizione creando spazi di pensiero capaci di accogliere il “soggetto imprevisto” (Lonzi), un soggetto che si fonda sulla dimensione relazione, che accoglie l’alterità, che fa i conti con essa anche ironicamente, come propone Lonzi: “Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più i bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli. Adesso ti sfido: vieni avanti, non ti resisto più, ti colgo al volo, non mi fai più paura. Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto”[24].

La violenza oltre ad essere fisica – limitazione del corpo e del desiderio – storicamente è una violenza teoretica, come sottolinea Adriana Cavarero: “La violenza teoretica consiste nel fatto che diventa superflua la realtà materiale di ogni creatura umana nella sua reale esistenza; diventa, come dice Aristotele, qualcosa di cui non si dà scienza. Infatti c’è episteme, c’è scienza, c’è un sapere sull’uomo soltanto in quanto questi viene considerato universale (…)”[25]. Ecco che scompare la materialità dei corpi, la loro differenza sessuata e le diverse esigenze che questa differenza porta con sé, ma scompare anche la possibilità stessa dell’iscriversi di una differenza nella similitudine dei corpi, una differenza quindi non solo materiale ma anche esistenziale, non solo delle donne tra loro ma anche degli uomini e di tutte quelle soggettività che non si riconoscono in un ethos universalmente condiviso che non mette in discussione i propri presupposti.

In quest’operazione di universalizzazione viene esclusa in modo violento “la singolarità incarnata nell’ambito del pensiero” (Cavarero), detto con parole mie, la condizione esistenziale nella quale il pensiero si radica e che è costituita sia dalla materialità dei corpi che dalla necessità di trascendenza insita negli stessi. Ma se, invece, potesse esistere un sapere che rispetti la singolarità dell’esistenza? Se potesse esserci episteme, scienza, consapevole dello scarto necessariamente operante nella singolarità di ciascun punto di osservazione e che, a partire da questo scarto, proceda nella ricerca scientifica?

Nei decenni successivi agli anni Settanta e Ottanta le elaborazioni del femminismo di seconda ondata hanno subito scarti ed evoluzioni non lineari andando ad esprimere non più solo le esigenze delle donne. Mi riferisco ai movimenti ELGBTQI e al pensiero queer che hanno elaborato nuove forme di azione collettiva e nuovi paradigmi di cittadinanza. Judith Butler ritiene che la violenza etica[26] coincida con il fatto di imporre una norma morale che si ritiene espressione di un ethos collettivo quando invece si fonda sulla repressione di ciò che non è conforme alla collettività. Quando ci riferiamo all’ethos intendiamo “nel linguaggio filosofico e delle scienze sociali, il costume, la norma di vita, la convinzione e il comportamento pratico dell’uomo e delle società umane (…). In senso più generale, comportamento e abitudini di vita”[27]. Quando questi criteri teorico-pratici di gestione della propria vita singolare e collettiva si rinchiudono in un’universalità supposta tale e si impongono alla collettività senza aprirsi ad una contrattazione con chi non li condivide, si ripropone quella violenza teoretica al cuore della cultura occidentale (Cavarero).

Contrastare questa violenza significa operare un’apertura, porsi in ascolto delle necessità esistenziali espresse dai movimenti sociali che richiedono a nuove possibilità di soggettivazione di essere riconosciute socialmente e giuridicamente. Non si tratta di porre nuove norme morali al posto di quelle vecchie ma di ridiscutere le modalità attraverso le quali queste norme hanno origine. Non si tratta di trovare uno o più modelli di soggettività – maschile, femminile, lesbica, omosessuale, transgender, asessuale, bisessuale, intersessuale etc. – ma di permettere sempre ad una nuova possibilità esistenziale di esprimersi nel rispetto di sé, degli altri e delle altre. Naturalmente ciò è possibile unicamente nel momento in cui sono condivisi dei presupposti fondamentali che Habermas, per esempio, nella sua teoria pragmatica del linguaggio rivolta ad un paradigma intersoggettivo ha identificato in alcuni concetti quali la correttezza, la verità, la veridicità e la comprensibilità.

Ma questo è un altro discorso anche se ci porta a parlare, ancora una volta, di una pratica, come se la dimensione relazionale con i suoi affanni e le sue difficoltà, con le sue incoerenze e resistenze fosse fondamentale, come credo. Le pratiche che hanno animato il movimento femminista di seconda ondata – la pratica dell’autocoscienza poi trasformatasi in Italia nella pratica dell’inconscio e nella pratica del fare[28] –, o quelle praticate dai collettivi dei movimenti ELGBTQI, sono il dono più prezioso dei movimenti sociali. Sono terreno da investigare con gli strumenti della teoria, con i concetti della filosofia e della scienza, attraverso contaminazioni interdisciplinari che propongano chiavi interpretative frutto della relazione tra sociologia, filosofia e psicoanalisi, tra fenomeni culturali e psichici. Grazie a quest’analisi, ancora tutta da sviluppare, è possibile mettere in luce l’intreccio tra condizionamento culturale e soggettivazione, tra quella che oggi qui definiamo la costruzione socio-culturale del genere che condiziona ancora fortemente la produzione di identità collettive, visioni del mondo e linguaggi. Le pratiche ci aiutano a capire quanto profondamente la dimensione psichica sia coinvolta nei processi identitari, come la maschilità e la femminilità sorgano dall’interpretazione socio-culturale che viene data a fattori biologici differenti,  come queste diverse dimensioni si connettano tra loro nel processo di soggettivazione e, infine, come questo processo si esprima non solo a livello privato ma anche a livello socio-politico.

[1] Tra i lavori di sintesi storica si veda: Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Roma, Carocci editore 2012; Fiamma Lussana, Le donne e la modernizzazione: il neofemminismo degli anni Settanta, in Storia dell’Italia Repubblicana, vol. III, 2. Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1997, pp. 471-565.

[2] Si veda Enciclopedia Treccani, alla voce “genere/gender” disponibile al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/gender-genere_(Dizionario-di-filosofia)/ il 09 dicembre 2016.

[3] In alternativa al concetto di uguaglianza che nella prima metà del secolo era stato al centro delle lotte femministe, a questo proposito si veda Cavarero, A., Restaino, F., (2001) Le filosofie femministe: due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Milano: Bruno Mondadori, pp.  19-54.

[4] Butler J., (2004) Fare e disfare il genere, a cura di Federico Zappino, pref. di Olivia Guaraldo, Milano: Mimesis (2014), p. 35.

[5] Bourdieu P., (2014), Il dominio maschile, Milano: Feltrinelli, p. 44.

[6] Cavarero, A., Restaino, F., (2001) Le filosofie femministe: due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Milano: Bruno Mondadori, p.  31.

[7] Termine proposto nel 1989 dall’attività e accademica Kimberlé Williams Crenshaw.

[8] A questo proposito si ricorda che il delitto d’onore è rimasto in vigore in Italia fino al 1981.

[9] Per fare solo un esempio a tutti noto si ricordi che nell’antica Grecia le donne non poteva partecipare alla vita politica.

[10] Maitilasso M., Carla Lonzi. Pratiche tra politica e arte, Università di Verona, anno 2013-2014 p. 6

[11] Bubola L., (2015-2016), Con Carla Lonzi, Adriana Cavarero e Judith Bulter. “Pensare differentemente” per uscire dal circolo vizioso della violenza, Università degli Studi di Trento.

[12] Wollstonecraft, M., (1972) A Vindication of the Rights of Women, a cura di M. Brody, London: Penguin (1992), p. 133.

[13] Lonzi C., Lonzi M.,  Jacquinta A., (1978) Tentativi di Autocoscienza in un gruppo del ‘500 in La presenza dell’uomo nel femminismo, Milano: Scritti di Rivolta femminile 9.

[14] Irigaray L., (1992) Io tu noi. Per una cultura della differenza. Torino, Bollati Boringhieri (2004), p. 19.

[15] Lacan J. (1977), Le Séminaire. Livre II. Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique psychanalytique (1954-1955), Parigi: Seuil. Trad. it. di A. Turolla, C. Pavoni, P. Feliciotti, S. Molinari, A. Di Ciaccia, a cura di G. B. Contri, (1991) Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicanalisi (1954-1955), Torino: Einaudi, p. 309.

[16] Ricoeur P., (1995) Kierkegaard. La filosofia e l’ «eccezione», Brescia: Morcelliana, p.65.

[17] A tal proposito Umberto Galimberti rileva come la filosofia sia nata – già con Talete – dall’esigenza primaria di orientarsi nel mondo e di trovare un principio, un fondamento capace di ricondurre il molteplice all’Uno. Per questo la filosofia deve edificarsi attraverso il misconoscimento di se stessa, rinunciando cioè alla ricerca di unità sempre più comprensive il cui rischio è – a sentire Jaspers – un ordinamento totalitario del mondo. (Umberto Galimberti, La casa di psiche, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 328) L’affermazione dell’unità del molteplice, detto altrimenti, la ricerca spasmodica di un “principio di tutte le cose” tanto caro alla filosofia, è stato – lo ricorda Galimberti nel capitolo L’universo e il diverso – un tentativo di fondazione di un Uni-verso “capace di dissolvere in sé ogni di-verso, ogni pluralità, ogni differenza. E, citando Platone, ci ricorda che per lui “era fonte di letizia spingere nell’Uno le varie forme molteplici” (Umberto Galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 565). Due sono i metodi classici di riduzione della molteplicità all’Uno – che possiamo chiamare, su suggerimento di Galimberti e secondo ambiti di studio differenti, Idea o Dio o bene come fa Platone, oppure, secondo la terminologia psicanalitica Fallo per le pulsioni, Oro per le merci, Padre per i figli, Senso per le parole –: il metodo sintetico e il metodo analitico. Il primo si riferisce al metodo dialettico della razionalità tipico del pensiero platonico e di quello hegeliano, mentre il secondo si fonda sul principio aristotelico d’identità (A=A) e non contraddizione (A non può essere diverso da A) (Giangiorgio Pasqualotto, Saggi su Nietzsche, Milano, Franco Angeli Editore (Collana Filosofia), 1988, p. 20).

[18] Lonzi C. (1978) Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Milano: Scritti di Rivolta femminile, p. 43.

[19] Cavarero C. (2002) Il pensiero femminista. Un approccio teoretico in Le filosofie femministe: due secoli di battaglie teoriche e pratiche, a cura di Cavarero A., e Restaino F., Milano: ESBMO, p. 83.

[20] Si veda Enciclopedia Treccani, alla voce “simbolo” disponibile al sito http://www.treccani.it/vocabolario/simbolo/ il 10 dicembre 2012.

[21] Cavarero, A. (2007). Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale. Villa Verrucchio (RN): Pazzini Editore.

[22] Putino, A., Cosmo, (1987), in Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia, Collana “Via Dogana” Milano: Libreria delle donne, pp. 37-40, disponibile al sito in data 10 dicembre 2016.

[23] Boccia, Maria L., (2014) Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Roma: Ediesse, p. 15.

[24] Lonzi C. (1978) Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Milano: Scritti di Rivolta femminile, p. 1131.

[25] Adriana Cavarero, Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale, Villa Verucchio (RN), Pazzini Editore, 2007, p. 34-35

[26] Butler, J. (2006) Critica della violenza etica, Milano: Feltrinelli.

[27] Si veda Enciclopedia Treccani, alla voce “èthos” disponibile al sito http://www.treccani.it/vocabolario/ethos/  il 9 dicembre 2016.

[28] Zaretti, P. (2014) Nel nome della Madre, della Figlia e della Spirita Santa. Femminismo e Psicanalisi, Monghidoro (BO): Con-fine edizioni.