Fragilità assassine

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Dal Convegno La Paura dell’impotenza e lo stupro. Metafore per l’indicibile

Padova 27 Marzo 2010, con Lea Melandri, Maria Micozzi, Marina Valcarenghi, Jole Baldaro verde. Presentazione a cura di Paola Zaretti

Perché dare a un Convegno un titolo così intimo e nudo L’impotenza sessuale e lo stupro. Metafore per l’indicibile, suggerito da Maria Micozzi? A guidarmi nella scelta è stato il suo blog in cui questo titolo compare. Esiste dunque un rapporto fra impotenza sessuale e violenza? Fra la potenza bruta che stupra e uccide e la sua polverizzazione impotente, nei letti e fra le lenzuola? A leggere il titolo pare che così, proprio così, stiano le cose, pare che lo stupro sia “una crisi della virilità”. Ma da un punto di vista più generale, che cos’è che muove gli uomini alla guerra, alla violenza? L’istinto, la “struttura”, la cultura o un’ onnipotenza narcisistica estrema, la difesa disperata di un’identità fragile che impedisce a un soggetto di assumere soggettivamente la propria condizione mortale? Sta di fatto che un titolo come questo, per contenuto e forma dell’enunciato, era quanto andavo da tempo fantasticando e ho chiesto così a Maria di poterlo utilizzare come un faro per rischiarare a lettori e lettrici, a frequentatori e frequentatrici delle nostre iniziative, la strada da noi intrapresa da tempo al cui centro sta l’uomo, anzi, gli uomini, maschile plurale – per dirla con Hannah Arendt.

Gli uomini con i loro specchi dell’Eros, come titola il libro di Jole Baldaro Verde, con i loro corpi e organi parlanti ma di cui nulla dicono e nulla si dice e neppure forse si saprebbe se, a dirne, non fossero – quando riescono a farlo – le donne. Gli uomini e le loro paure, le ferite narcisistiche che bruciano, le prestazioni inadeguate o fallimentari, le patologie sommerse e misconosciute, gli uomini in carne e ossa tratti fuori dalla categoria Uomo, maschile-singolare-neutro-universale e trascendente che tutto inghiotte e macina e distrugge, differenze incluse, gli uomini con le loro defaillances, contingenze, nel qui e ora. Mettere al centro della scena uomini e corpi maschili, segnala un’intenzione e una presa di posizione clinica, etica e politica: un rovesciamento di prospettiva del punto di osservazione già  enunciato, per la prima volta, durante il Convegno del 7 Marzo dello scorso anno Donne e uomini in trasformazione tenutosi in questo stessa sede. Così, e non altrimenti, intendiamo celebrare l’evento tradizionale di questo mese e onorare le donne: dando loro la parola e parlando con loro invece che di loro: lo faremo con i contributi di Jole Baldaro Verde, Lea Melandri, Marina Valcarenghi, Maria Micozzi – le cui opere, pensate e realizzate per questa particolare occasione, sono a disposizione dei visitatori nella Mostra inaugurata il 10 Marzo al S. Gaetano che si protrarrà fino al 30 Marzo. C’è da dire, facendo giusto un passo indietro, che il rovesciamento di prospettiva messo in atto già lo scorso anno nell’accostare le problematiche di genere – che questo Convegno ripropone con rinnovata convinzione – ha accompagnato l’insieme delle attività di Studio e Ricerca di Oikos-bios di quest’anno, svoltesi parallelamente al Seminario di formazione Divani…e poltrone. Voci di donne eccellenti negli affari umani, iniziato il 30 ottobre e concluso circa un mese fa con lo splendido spettacolo su Frida Kalho al S. Gaetano curato da Sandra Cattaneo e Cosimo Gallotta  che ha visto la partecipazione di oltre 300 persone. Al centro – e parte essenziale del Seminario – erano, infatti, gli importanti contributi di pensiero filosofico, psicanalitico e politico di alcune donne eccellenti: Arendt, Irigaray, Zambrano, Weil, Braidotti, Butler, Rossanda, contributi la cui conoscenza è oggi più che mai indispensabile per prendere coscienza – attraverso una minuziosa rivisitazione e decostruzione del pensiero filosofico, psicanalitico e politico maschile operata da queste donne – del funzionamento e dei guasti prodotti da un sistema di pensiero disincarnato, disancorato dal reale del corpo e dalla vita che, da Platone fino a Hegel ha informato la nostra cultura.

La conoscenza e la diffusione ad ampio raggio delle opere di queste pensatrici e la dura critica da loro avanzata nei riguardi della “logica infernale” propria dell’impianto metafisico e androcentrico che ancora domina in ambito accademico, è dunque un passo preliminare alla costruzione di un’ altra filosofia e pratica di vita, una filosofia della ratio poetica – direbbe Zambrano – i cui effetti benefici potrebbero influire positivamente sui rapporti umani, altrimenti pensati, primo fra tutti il rapporto fra i sessi. Dei contributi di queste donne si tratta dunque di raccogliere la sfida: una sfida rivolta sia ai modelli di pensiero etico-politico, sia all’idea di un soggetto sganciato dalla materialità del corpo e dalla realtà della sessuazione. Una sfida corposa, appunto, e ricca di nuove elaborazioni teoriche che, senza rinnegare il passato, prende tuttavia le distanze da posizioni femminili puramente rivendicazioniste per “azzardare teoreticamente e politicamente un diverso modo di praticare la soggettività”. (1) E’ questo l’ impegno che Oikos-bios si è assunto da tempo e su cui intende orientare le sue attività per il tempo a venire: una diffusione il più possibile capillare di quanto di meglio queste e altre figure femminili, per lo più trascurate, hanno saputo darci per risvegliare in noi nuove consapevolezze.

Eppure, nonostante la continuità di intenti con il lavoro avviato, il titolo di questo Convegno segna, per la crudezza del tema proposto, un importante passo avanti anticipando possibili scenari futuri, frutto di una ricerca epistemica sempre più avanzata all’interno di quel campo minato che Butler ha chiamato Gender Trouble’s (Scambi di genere) e, più tardi, Undoing Gender (La disfatta del genere) e che deve interessare la psicanalisi più di quanto non interessi la filosofia, la politica e altre discipline. Una ricerca volta dunque a risignificare scenari simbolici futuri abitati da pensieri incarnati e da parole di donne non più in posizione di oggetto ma di soggetti agenti di discorsi, in veste di studiose e di osservatrici competenti, umanamente e professionalmente preparate a indagare a fondo le patologie maschili sommerse, la connivenza fra sesso e potere e ad allentare il nesso che stringe, in un groppo mortale, onni-potenza, violenza e impotenza maschile. Per quanto concerne, nello specifico, la funzione della psicanalisi – una disciplina che dovrebbe essere urgentemente ripensata e orientata, nella teoria e nella pratica, in direzione di una radicale differenziazione di genere nella cura – il ruolo che spetta oggi alle psicanaliste in un progetto sensibile a tale differenziazione, è quanto mai urgente:

indagare sulla differenza di genere nella struttura psichica appartiene quindi in modo particolare alla nostra generazione di donne psicoanaliste (2)

Questo appello di Marina Valcarenghi alla nostra generazione di donne psicanaliste e l’importanza da lei assegnata a una “psicoanalisi sociale”, sono solo alcune fra le tante ragioni che mi hanno sollecitata a invitarla a questo incontro.  Si tratta di un appello – condiviso e più volte espresso da Oikos in diversi contesti – rivolto alle donne impegnate in questo campo dalle quali dipende, a mio parere, la vita e il futuro di una disciplina il cui progressivo indebolimento è dovuto a diversi fattori esterni – la diffusione degli psicofarmaci, l’apporto delle neuroscienze, l’incremento delle terapie adattive cognitivo-comportamentali, l’invasione di uno psicologismo pericoloso – ma il cui progressivo impoverimento è imputabile a fattori interni inerenti il tipo di formazione impartita: indifferenziata, unisessuata e arretrata rispetto alle trasformazioni sociali in atto negli ultimi quarant’anni.

E’ dunque auspicabile che le donne impegnate in questa disciplina siano in grado di eccedere (ex cadere), una buona volta, l’orizzonte della psicanalisi e di rivolgere al sistema di pensiero da cui essa è nata  – al di là delle differenze di scuola – la stessa critica radicale che le filosofe hanno rivolto al pensiero filosofico tradizionale e ai suoi effetti nefasti, “valorizzandone la portata critica e decostruttiva ai fini di un ripensamento radicale della soggettività, dell’etica e della politica”. (3) Eccedere questo orizzonte significa azzardare la via auspicata da un Freud – almeno su questo punto – lungimirante: quella che ipotizzava la possibilità di applicazione alla sfera collettiva i risultati raggiunti nello studio delle nevrosi individuali. Vedo andare in questa direzione Julia Kristeva quando, utilizzando il concetto di struttura, afferma che l’antinomia tra due diverse strutture psichiche – la struttura ossessiva più frequente nell’uomo e la struttura isterica più frequente, almeno in passato, nella donna – “diventa, all’interno di una civilizzazione, un’antinomia fra gruppi sociali e fra ideologie”. (4) Fra l’ ideologia di Morte dell’ossessivo e l’ideologia di vita dell’isteria, se così si può dire, considerando alcuni tratti salienti riscontrabili nel trattamento di persone le cui caratteristiche corrispondono a queste due categorie cliniche.

Capitano, si sa, dei felici incontri e la parola per nominarli, quando questo succede, è kairos: questo e non altro è stato per me anche il titolo di Maria: un’occasione per nominare il Re nudo che stava nel fondo del barile dei miei pensieri e dei miei interrogativi degli ultimi tempi. Non sono mancati in questi anni, nelle attività proposte da Oikos-bios, iniziative di vario genere – i temi del dolore e del lutto, i disagi dell’adolescenza, la vocazione suicida del patriarcato, il tema della relazione uomo-donna, la violenza in genere e di genere, trattati da un punto di vista filosofico, psicanalitico e politico. Eppure, dal fondo del barile all’interno del quale tutti questi temi hanno trovato collocazione, continuava ad affiorare in superficie, non ancora sufficientemente indagata, una parola salita agli onori nell’indice di gradimento: la parola Relazione. Le ragioni che mi inducono a soffermarmi su questo termine – per nulla estraneo all’argomento del titolo La paura dell’impotenza e lo stupro – saranno chiare, spero, di qui a poco.

La Relazione  la Relazione… la Relazione… si dice, ma possiamo già anticipare che un apparato simbolico qual è quello in cui viviamo, abitato da un genere unico con esclusione dell’altro, non si limita soltanto ad escludere ogni possibilità di relazione fra i sessi, ma istiga alla conflittualità  e  incrementa la violenza di genere di cui lo stupro e l’assassinio sono soltanto le manifestazioni estreme. Non si parla e non si scrive che di questo, e il modo in cui spesso lo si fa, il ricorso ossessivo alla ripetizione di questa parola – relazione – ci fuorvia facendoci credere che la relazione esista, che relazione fra uomo e donna ci sia mentre è del tutto evidente che se dico: relazione, a esistere non è la Relazione ma la parola relazione che enuncio. Sul potere performativo del linguaggio, sul suo duplice aspetto, positivo e negativo, sulla magica capacità delle parole di far esistere ciò che non è, s’intrattiene Judith Butler, una filosofa americana di prima grandezza internazionale che comincia ad essere conosciuta anche in Italia. Detto altrimenti, l’uso insistente della parola relazione nulla dimostra circa il fatto che relazione ci sia, fungendo piuttosto questa parola – nei diversi contesti discorsivi in cui viene usata in riferimento al genere – da surrogato a una Relazione assente, a un Rapporto inesistente e il suo ossessionante ritornare non è altro che l’indicatore sensibile di una supplenza al buco scavato da questa assenza. So bene che quanto sto per dire in merito alla stranominata relazione tra i sessi, possa risultare spiazzante e persino destabilizzante. Tanto vale farlo subito, dicendo che su questo, almeno su questo, Lacan ha visto lontano come forse nessun altro. La sua  sentenza non c’è rapporto sessuale, per il modo in cui costantemente mi rimbalza dalla mia personale esperienza di cura di uomini e donne, è quanto di più vero – e insopportabilmente tragico – sia mai stato scritto sul rapporto uomo-donna e sulla verità di questo non rapporto da non confondere – sia chiaro – con l’atto, l’ atto sessuale. Mi sembra che Marina Valcarenghi non sia poi così distante da questa visione quando, nel capitolo conclusivo di un suo libro, scrive:

C’è forse qualcosa di irriducibile nella paura che gli uomini hanno della donne e le donne degli uomini e che ha origine nella definitiva diversità nel modo di capire, di sentire, di immaginare. La diversità, soprattutto quando è insondabile, è sempre inquietante, ma nello stesso tempo, e proprio per lo stesso motivo, esercita una particolare fascinazione. (5)

Paura Irriducibile, definitiva diversità, ecco due espressioni che rendono ragione a sufficienza della difficoltà di relazione fra i sessi. Ma le complicanze non finiscono qui e investono la sfera dell’amore:

Nella relazione d’amore (…) si manifestano difficoltà che derivano dal modello sociale e quindi dallo stile di vita, ma vengono alla luce anche difficoltà di carattere archetipico che riguardano tutti e in ogni tempo. (6)

Su entrambe gli aspetti – il modello sociale che scambia e confonde amore e violenza e gli influssi archetipici – insisterò fra poco. Ma tornando a Lacan, che non ci sia rapporto sessuale non significa che non ci sia atto anche se la possibilità dell’atto sessuale non rende meno vero che, quanto al rapporto:

Questo far cilecca è la sola forma di realizzazione di questo rapporto se, come affermo io, non c’è rapporto sessuale(…). Non si tratta di analizzare come riesce. Si tratta di ripetere a sazietà perché fallisce. (7)

E ancora:

Non c’è rapporto sessuale perché il godimento dell’Altro preso come corpo è sempre inadeguato – perverso d’un lato, in quanto l’Altro si riduce a oggetto a – e dall’altro, dirò folle, enigmatico. Non è forse dallo scontro con questa impasse, con questa impossibilità da cui si definisce un reale, che è messo alla prova l’amore? (8)

L’amore, insomma, scindibile dal sesso, è talmente inscindibile, invece, dalla relazione, da fungere da sostituto del rapporto sessuale mancante. Il fallimento del rapporto diventa manifesto in quel formidabile scenario erotico che è l’amor cortese in cui Lacan riconosce il modo più “raffinato di supplire all’assenza di rapporto sessuale facendo finta che siamo noi a ostacolarlo”. (9). Fare Uno, rendere possibile e appagante l’ impossibile del rapporto sessuale: ecco, è questo ciò che le donne disperatamente vogliono e domandano – anche se è sul muro di questo impossibile che la coppia si scontra, si disfa,  spera e si di-spera ricominciando sempre  ancora e di nuovo a sperare…in un altro o in un’altra migliore…e qualche volta, ci riesce. Ebbene,  è forse perché questa Relazione non c’è che troppo se ne parla: per farla essere. E questo capita per via di una nostra comprensibile resistenza ad accettare la verità di questo impossibile che il progressivo sfarinamento della vita a due, comunque declinata, ci mette ogni giorno sotto il naso, anche se facciamo di tutto per occultarla. Tuttavia, una volta distinto il rapporto sessuale dall’atto sessuale, chiediamoci: che cos’è quest’atto al di fuori di un rapporto, di una Relazione con l’altra/o? Lacan se lo chiede quando scrive:

Ora, il godimento del corpo, se non c’è rapporto sessuale, bisognerebbe vedere a che cosa può servire. (10)

Ma chiediamoci, in sovrappiù, se questa scissione fra atto sessuale e rapporto caratterizzi in modo indifferenziato entrambe i sessi o se esistano ancora, fra il comportamento maschile e femminile, delle differenze nella modalità di relazionarsi all’altro/a. A metterci sulla via per cogliere l’esperienza estrema di questa scissione fra amore e bisogno, è quella pratica estrema del non-incontro e della non-relazione con l’altra che è la pratica della prostituzione – uno dei tanti specchi dell’Eros maschile come Baldaro Verde ricorda – altamente diffusa nel mondo dei maschi e che in questo contesto ci interessa perché ci aiuta nella messa a nudo di una modalità estrema, tutta maschile, di relazionarsi all’altro sesso e che Lacan chiama “godimento fallico”, altrimenti detto “godimento dell’idiota.” La pratica della prostituzione – considerata in Svezia una pratica di violenza sulle donne – non è tuttavia il solo luogo in cui l’impossibile della relazione fra un uomo e una donna si consuma “nel modo maschio”: a dirne, in proposito, sono le tante storie di vita delle donne, dentro e fuori casa, che nel nostro lavoro ci è dato di ascoltare. Che cosa raccontano? Che per gli uomini le vie del Signore e per sottrarsi alla relazione sono davvero infinite senza bisogno di ricorrere alla prostituzione per dimostrarlo. Ma che cos’è, allora, che rende la relazione uomo-donna così difficile, così impossibile? E, quel che più interessa ai fini della nostra ricerca, qual è la genealogia da percorrere, dove dobbiamo andare a cercare l’origine di questa impossibilità? Perché gli uomini fuggono la relazione? Di chi o di che hanno paura? La paura degli uomini è sempre stato uno dei temi centrali della riflessione e del lavoro di Maria Micozzi in tutti questi anni.

Possiamo provare a suggerire alcune ipotesi su questo non rapporto fra donne e uomini considerandolo, per par condicio, da un doppio versante: maschile e femminile. Sul primo versante, maschile, la difficoltà di relazione con la donna, può essere individuata in quell’ estraneità-alterità – inquietante per un uomo – legata al fatto di nascere da donna (Nato di donna è il titolo di un famoso libro di Adrianne Reich), di fare la sua comparsa nel mondo grazie a un essere differente e altra da lui. Di qui  una posizione ambivalente, di desiderio e rifiuto, di amore e odio verso la Madre come “figura invocata e maledetta, generosa e possessiva, necessaria e rischiosa” (11) come “creatura creatrice”, “la quale testimonia e alimenta il deinon, “il tremendo e meraviglioso” di questa vita. (12). Sarebbe dunque il fantasma maschile di una Mater terribilis a sostenere la misoginia che caratterizza la nostra cultura?  “O riesco ad assimilarti e quindi ti depotenzio e non mi fai più paura, o devo sopprimerti” – scrive Valcarenghi (13) – descrivendo un comportamento archetipico di fronte alla diversità. E come rimuovere il lato oscuro del materno, come non riconoscere in quel supremo gesto d’amore che consiste nel dare la vita, anche il suo risvolto tragico: un terribile gesto di consegna di un figlio o una figlia al proprio destino mortale?

Non è improbabile ipotizzare che la differenza che passa fra donna e uomo nel rispettivo modo di vivere e di rapportarsi alla propria finitudine – accettazione da parte dell’ una, rigetto da parte dell’ altro – possa essere ricondotta e collegata a questo gesto femminile-materno in cui vita e morte, creazione e nulla convivono. Se consideriamo ora la difficoltà di relazione dal versante femminile, possiamo chiederci se il difficile approccio della donna all’uomo, sia da mettere in conto alla famosa fase pre-edipica della bimba e alla sua resistenza al cambio d’oggetto che comporta la perdita del suo primo oggetto d’amore omosessuale – la madre – per rivolgersi al padre e, più tardi, all’uomo. Freud sembra avallare questa ipotesi quando scrive che l’amore della bimba per il padre e, più tardi, per l’uomo, è soltanto un debole surrogato dell’amore rivolto in precedenza alla madre, ma il messaggio che passa attraverso questa sua scoperta, è che la preistoria edipica della donna la renderebbe portatrice di ostilità nei riguardi dell’uomo. Scrive, infatti, che la donna nel suo primo legame coniugale – ma le cose, aggiunge sollevato, vanno decisamente meglio col secondo partner – riversa sull’uomo tutta la carica di ostilità e di odio accumulata nei riguardi della madre che fu costretta ad abbandonare per scegliere il padre – come previsto dal copione della normativa eterosessuale che la psicanalisi, erede del patriarcato, ha fatto propria.

Ebbene, credo che se ci affidassimo soltanto alle ipotesi sin qui formulate, non avanzeremmo di molto. Credo che la sentenza di Lacan sull’ impossibile del rapporto sessuale, vada contestualizzata e considerata all’interno di quel contenitore che è il nostro ordinamento simbolico la cui misoginia è indiscutibile. Proviamo dunque a fotografare il dis-funzionamento, l’asimmetria di genere sancita e legittimata dall’apparato simbolico in cui viviamo e dal quale veniamo plasmati/e e forgiati/e: esso dispone di un solo significante unico – il “fallo” – il quale ha la funzione di rappresentare in modo indifferenziato ma tutt’altro che neutro, entrambe i sessi, maschio e femmina. Ciò che manca in questo ordinamento, è dunque un significante della differenza che rappresenti la donna e poiché a fondare la relazione è proprio la differenza – a ricordarcelo è il libro Differenza e relazione – questo è quanto basta per comprendere che la relazione fra i sessi, prima che risultare impossibile nel reale del vivere quotidiano, è impossibile all’interno dello stesso ordine simbolico di cui tale realtà è il riflesso. L’enunciato di Lacan non c’è rapporto sessuale, è dunque, per usare una metafora a me cara, un albero che sta dentro una foresta che si chiama ordine simbolico patriarcale in cui vige e governano la logica dell’ Uno e dell’ opposizione binaria –  che ha da sempre contrapposto maschio e femmina – e la logica delle gerarchie e delle esclusioni. Hestia ed Hermes sono, nel mondo greco, le figure di una coppia paradigmatica di divinità opposte: Hestia, divinità del “dentro” della domus e del benessere, Hermes, dio del “fuori”,  della civitas, dei viaggi e dei commerci. Ebbene, una volta acquisita conoscenza di questo disfunzionamento – certo ci vuole un po’ di studio, molta passione e un certo esercizio per arrivarci ma l’ignoranza ha sempre reso grandi servigi al potere – è così difficile comprendere che l’impossibile della relazione uomo-donna e le conflittualità di genere che in tale relazione vengono attivate non sono altro che l’ immagine incarnata e riflessa di quel sistema di pensiero andro-fallocentrico su cui il nostro ordine simbolico è stato edificato?

Come illudersi allora che, a partire dall’assioma di un genere unico maschile, sia davvero possibile dar vita a relazioni armoniche, non dicotomiche, non oppositive, non rivendicative fra i sessi, quando la nostra cultura – dall’educazione familiare, alla formazione scolastica – è letteralmente inquinata da un assioma che proprio sull’ opposizione e  sulla rivendicazione di genere ha fondato se stesso? E, stando così le cose, quell’aspetto aggressivo, rivendicazionista, antimaschilista tanto spesso rimproverato al movimento delle donne degli anni ’70, da quale terreno fertile avrebbe potuto trarre impulso e nutrimento migliori se non da un apparato simbolico oppositivo rigorosamente pensato e costruito per innescare e alimentare le condizioni stesse di quella rivendicazione? Su questo aspetto bisogna insistere per evitare analisi superficiali e giudizi sommari sulla cosiddetta aggressività femminile, un’aggressività il cui aspetto reattivo – Marina ce lo ricorda – è, in realtà, il risvolto di un deficit di aggressività, di un’ ipoaggressività che caratterizzerebbe la donna. Esiste una profonda differenza fra la posizione di un genere (maschile) che si è storicamente opposto all’altro genere (femminile) e la posizione di un genere (femminile) che si è opposto non già all’altro genere (il maschile) ma all’ opposizione da esso perpetrata. E tuttavia sarebbe ingenuo credere che la risposta alla domanda delle donne “Qual è il nostro posto nel contratto sociale” possa risolversi attraverso un loro inserimento nel simbolico tout court, attraverso la loro partecipazione, per esempio, ad una politica che ha perso il senso del politico. Julia Kristeva, psicanalista e autrice de La rivoluzione del linguaggio poetico che ha rivalutato e teorizzato l’importanza di un ordine semiotico materno fatto di segni, di immagini, rispetto a quello paterno dei simboli e del linguaggio, scrive così:

Quando parlava di Legge, Hegel distingueva la Legge umana (quella degli uomini, dei governi, dell’ordine etico) dalla Legge divina (quelle delle donne, delle famiglie, con il culto dei morti e la religione).  Ci sarebbe insomma, dalla parte dell’uomo: la legge del giorno: dalla parte della donna: il diritto dell’ombra. Si può criticare  l’immaginario pre-freudiano e certamente molto fallico del vecchio maestro già attaccato da ogni parte. Da notare però che la Legge ultima (la Legge divina) si instaura nella morte. Non vi è legge che della Morte, riconoscerlo può fare meno morti con la Legge. Più fondamentalmente, e il femminismo non lo dice, sono le donne ad averne meno paura (della Morte come della Legge), ed è per questo che la gestiscono, la Morte, la Legge. In termini più moderni, gestiscono quest’ombra della legge politica che è la legge della riproduzione. Le madri dunque, agli antipodi della dissidenza, garanzia della socialità perché garanzia ultima della specie? Così dunque, alla Legge-consenso sociale e politico, una donna non partecipa mai in quanto tale, se mai vi è solo in quanto omologata, schiava promossa al rango del padrone(…) Per questo la filosofia l’ha sempre collocata dalla parte di quella singolarità(…) che viene chiamata il Daimon – demoniaca strega. Ma questo demoniaco, forza esiliata dal senso, può anche – in  modo altrimenti diabolico – aspirare sere riconosciuto: di qui l’arenarsi delle donne negli ingranaggi del potere e delle istituzioni di cui si rivelano essere (…) le speranze più solide (vedi gli avanzamenti delle donne nei partiti). (14)

Sono due i punti da focalizzare in questo intenso passaggio di Kristeva: il primo riprende la modalità femminile di rapportarsi alla morte e alla vita, il secondo rimette nel circuito della riflessione femminile il dibattito sul materno e sul ruolo della donna nella riproduzione della specie. Riprenderò il primo punto – il differente modo dell’uomo e della donna di rapportarsi alla loro condizione di mortali cercando di riarticolare questa differenza con una fragilità maschile da mettere in conto a un desiderio onnipotente di immortalità incapace di fare i conti con la propria vulnerabilità e finitudine. Riguardo al secondo punto, alla possibilità di ripensare al materno in termini diversi da quel luogo di segregazione cui la fobia patriarcale ha costretto le donne per ripararsi dall’angoscia di un desiderio femminile eccedente, libero e svincolato dalla procreazione, avremo modo di riparlarne in altra occasione. Risulta chiaro, da quanto detto, che l’inesistenza del rapporto sessuale e le difficoltà che concretamente ne derivano per uomini e donne nel quotidiano, non va  imputata alla malvagità dei singoli – stupratori non si nasce – ma sono l’esito prevedibile di una guerra di genere ultramillenaria prodotta e trasmessa nei secoli dalla metafisica dell’Uno che, escludendo il Diverso, ha escluso anche ogni possibilità di relazione. Non c’è, né ci può essere relazione fra donne e uomini, a meno di non modificare in profondità il nostro modo di pensare e, per farlo, occorre tempo, tutto il tempo necessario per prendere atto che non l’Uomo, non la Donna, ma le donne le Hestia – “che hanno la forza centripeta e avvolgente del “dentro” che ci impedisce di dissolverci  e gli uomini, gli ipertrofici che abitano la terra, In effetti, a sentire Lacan, un rimedio c’è: se non c’è rapporto sessuale donne e uomini possono tuttavia accontentarsi di qualcosa di meno o ambire, a seconda dei punti di vista, a qualcosa di più: a una “relazione temperata e vivibile fra i sessi” ma naturalmente, anche in questo caso, per via della magia delle parole, non basta aggiungere due attributi alla parola relazione perché una relazione risponda ai requisiti desiderati.

Certo è che oggi come oggi, stupri violenze e assassinii di donne, ci sollecitano  –  prima che a preoccuparci di tastare la temperatura idonea alla vivibilità di una coppia – a prendere atto per la vergogna di quanto sta accadendo. Vengo così alla seconda parte del mio intervento, ricordando che la performatività di cui ci parla Butler non vale solo per la parola relazione ma per molte altre in circolazione: cultura, condivisione, amicizia, etica e amore la cui ripetizione rasenta, di questi tempi, l’oscenità. Fragilità assassine. Di questa fragilità scriveva Caryl Chessmann – condannato a morte dopo otto lunghi rinvii per gravissimi reati che avevano scatenato il terrore a Los Angeles – autore di Cella  2455 braccio della morte (1954), tradotto in 18 lingue. Scrisse altri due libri di memorie e un romanzo. Il 2 Maggio del 1960 Caryl fu giustiziato – ero una giovane liceale allora – ma ricordo ancora quel giorno…La camera a gas nella prigione di S. Quintino, la follia di una Legalità che colpisce l’ assassinio assassinando, la barbarie cui può giungere la Legge e la sua autcontraddittorietà, mi erano chiare ed estranee allora come ora.

“I violentatori”  – aveva scritto Chessmann – sono emotivamente affamati”. Hanno bisogno di amore. Hanno bisogno di sentirsi necessari; hanno bisogno di appartenere a qualcuno…La paura può entrare nella loro vita, una paura ributtante irragionevole. Si possono sviluppare in loro sentimenti terribili di colpa, d’incapacità, la sensazione di essere non amati, indesiderati, respinti, soli. (15) Essi non “balzano su dall’inferno già armati e corazzati di perversità”. Il delitto? Un modo per abbracciare “una causa” “nella giungla del mondo”.

Sono degli anormali. La loro anormalità è una malattia e non un mistero ripugnante. La società stenta ad  ammettere questo fatto (…), radicato nel pensiero di questa gente v’è il postulato che la responsabilità di un atto criminoso spetti sempre al suo autore, il quale perciò è sempre da punire e il solo da punire. (16)

Nessuno sconto a Chessmann, sia chiaro. “Conversione” del maschile, ecco una parola eloquente per definire l’eredità affidata alle donne dalla filosofa Maria Zambrano. La fragilità non giustifica l’assassinio e ogni forma di indulgenza al riguardo, è complicità. Ma i modelli dicotomici ed escludenti da cui veniamo forgiati che vivono e si nutrono dell’opposizione maschio-femmina per meglio fomentare la violenza, non sono innocenti e di questo a dover rispondere – prima che il singolo – è la società tutta.

I comportamenti umani  – scrive Maria Micozzi  – anche quelli apparentemente meno significativi, sono sempre figli di fenomeni più complessi le cui radici, nascoste e vitali, si nutrono di strutture niente affatto di superficie; la violenza è un tema che non accetta di essere letta sul pentagramma di un tempo lineare (…) perché è il tema che più di ogni altro richiede di essere analizzato con procedure di relazione, in un quadro di rapporti di esclusione dentro appartenenze e circuiti di senso. Circuiti entro cui si connettono, insieme, attualità e stratificazioni di esperienze inconsce, esperienze rimosse ed esperienze che, diventati “normali” automatismi, non hanno più la necessità di rimanere presenti alla coscienza. (17)

Chi stupra, chi uccide è fragile, si sa, ma nessuna fragilità giustifica per una madre la perdita di una figlia. Esiste dunque anche un piano individuale da cui rispondere dei propri atti – consapevoli o inconsapevoli che siano. Come sarebbe? Dovremmo forse rispondere anche di ciò che noi inconsciamente facciamo, dovremmo forse essere responsabili persino del nostro inconscio? C’è chi dice che sì, che ne rispondiamo, benché in questa nostra “ipermodernità” in cui si va facendo strada la fantasia di un’estinzione del soggetto dell’inconscio, di un Uomo senza inconscio, risponderne sarebbe alquanto improbabile. (18) Ma, con o senza inconscio, certo è che le misure preventive antiviolenza messe in atto dalla politica da sempre pensata e fatta dagli uomini – interventi sul piano astratto e formale della Legge e del diritto, moltiplicazioni di futili iniziative contro la violenza finalizzate alla conquista di consenso – restano demagogia. Al centro del nostro interesse non sono né le leggi, né l’Uomo senza carne della Metafisica che nel mentre si trastulla fra Leggi e burocrazia, continua a misconoscere il sistema di pensiero responsabile dei guasti di cui si lagna. Siamo attente e sensibili, sì, alla fragilità degli uomini ed è proprio questa fragilità  che – aderenti come siamo e vogliamo restare alla verità dei corpi, alla loro immanenza e contingenza, alle reazioni incontrollate di fronte alla paura – ci costringe a interrogarci ancora, con Foucault e con Butler, sul nesso esistente fra sesso e potere. Alle fragilità e alle angosce maschili dobbiamo dunque prestare attenzione per scoprire, al fondo di una sessualità violenta, i segni di una disperazione tanto più agita nel reale quanto meno dicibile, simbolizzabile. Perché, a ben vedere, è sul piano della misura della prestanza sessuale e di una supposta potenza fallica, è sul piano di quel significante padrone che è il Fallo, che per l’uomo – complice la nostra subcultura – si giuoca la partita della mascolinità, il suo essere un uomo “vero”, e non c’è dubbio che a fondare il valore della propria esistenza su una potenza tanto risibile quanto improbabile, fallimenti, rabbia e violenza rischiano di fare di un uomo una miscela esplosiva.

 Il circolo vizioso si stringe  in modo ossessivo – scrive Maria.- tanto maggiore diventa la necessità di essere potente  e tanto più diventano essenziali l’esercizio del controllo e acuta l’ossessione per tutto ciò che suona minaccia alla potenza.  (19)

A darci la misura dei risvolti speculari di tale onnipotenza supposta – Agostino ci ricorda che Dio sottrae all’uomo il controllo dell’erezione per punirlo del suo desiderio di diventare padrone dell’Universo – sono le statistiche sulle varie forme d’impotenza maschile sempre in aumento – un uomo su tre soffre di eiaculatio precox – inevitabilmente legate alle trasformazioni avvenute nel frattempo nelle donne, nel loro modo di rapportarsi al sesso e nel mutato stile di vita all’interno della famiglia e dei luoghi di lavoro.Ed è proprio nella perdita di padronanza di questa potenza virile immaginaria – complicata da una femminilità sempre più esigente, sempre meno disposta a infingimenti e condoni – che dobbiamo andare a cercare la spinta all’ azione violenta quale strumento di riconquista della padronanza perduta attraverso l’esercizio del potere di vita e di morte sull’altra. Stuprare, uccidere, impadronirsi della vita altrui: ecco una modalità per acquisire la potenza che non si ha, la Vita che non si ha, quando il terrore e il rifiuto della propria vulnerabilità e mortalità si traduce in una spinta a prendere la vita dell’altro per accumulare vita. Chi uccide lo fa perché è morto e uccide per appropriarsi, attraverso la morte dell’altro, della vita dell’altro/a, di quella Vita che non ha. Si può uccidere e rubare la vita all’altro/a cancellandolo/a in tanti modi, come ha fatto il simbolico patriarcale con le donne. Su questo aspetto, su una sorta di debolezza di vitalità nel maschio e sulla funzione rigenerativa delle donne, fonte di ossigeno e di vitalità per l’uomo, si sofferma Lea Melandri citando un passo di Antonella Picchio “ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza” (20) e ancora, ricordando Virginia Woolf:

 Virginia Woolf ha pagine illuminanti su questo quando dice che dietro ogni uomo c’è una signorina Smith che gli ridà vitalità, le forze necessarie per presentarsi rigenerato nella vita pubblica. (21)

Ma la cura della fragilità maschile e della violenza che ne è il risvolto, non può avvenire per interposta persona, per procura, non può avvenire attraverso la cura della donne che di se stesse e dei problemi dei loro mariti o compagni ci parlano. A riconoscerle devono essere gli uomini stessi. Uomini consapevoli del rapporto di estraneità con il loro corpo, uomini capaci di riconoscere la propria difficoltà nel relazionarsi alle donne, uomini capaci di riconoscere la loro sofferenza e in grado di distinguere responsabilità storica e responsabilità personale. Un gesto ha segnato la novità di quest’anno a Roma dove alcuni uomini, certo una minoranza, ha indetto autonomamente una manifestazione contro la violenza intitolata: La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini. Riporto, per concludere, la parola di questi uomini che ci riconduce al tema della relazione, o, per meglio dire, alla verità di quel “non c’è rapporto sessuale” che resta, a mio parere, il nodo centrale su cui lavorare per trasformare la relazione che non c’è in una relazione “temperata e vivibile” fra i sessi:

Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su un’ indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacità, di riflessione, di autocoscienza, una ricerca approfondita sulle dinamiche della propria sessualità e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini. La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo. (22)

Crisi del maschile, spaesamento, esigenza di riflessione sulla natura delle relazioni, autocoscienza. Mi sembra un programma di tutto rispetto ma… occhio a non farsi incantare dalla magia delle parole…

Bibliografia:

(1) O. Guaraldo, Figure di una relazione. Sul pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, in Differenza e relazione, Verona, Ombre corte 2009, p. 90

(2) M. Valcarenghi, L’aggressività femminile, Milano, Mondadori 2003, p. 8

(3) O. Guaraldo, Ibid., p. 94

(4) J. Kristeva, Le nuove malattie dell’anima, Roma, Borla 1998, p. 215

(5) M. Valcarenghi, L’amore difficile, Milano, Mondadori 2009, p. 159, corsivo mio)

(6) M. Valcarenghi, Ibid., p. 8

(7) J. Lacan, Il Seminario Libro XX, Ancora, Torino, Einaudi 1983, p. 58

(8) J. Lacan, Ibid., p. 145

(9) J. Lacan, Ibid., p. 69

(10) J. Lacan, Ibid., p. 71

(11) I. Dionigi, Di tutti i nomi il più bello in Madri, Libri, S.p.A. Milano 2008, p. 1

(12) I. Dionigi Cfr., Ibid.,

(13) M. Valcarenghi,  cit., p. 159

(14) J. Kristeva, Eretica dell’amore, La Rosa, Torino 1979, pp. 34-37; 98-99, cit. in Le filosofie femministe, p. 183, corsivo mio

(15) Joanna Bourke, Stupro,

(16) Joanna Bourke, Ibid., p. 204

(17)M. Micozzi, Il Nome e il brano. Ammutolire la preda, in Le Figure della violenza, Oikos-Bios Quaderni, Padova, Convegno Marzo 2007, p. 87

(18)  M.  Recalcati, L’uomo senza inconscio

(19) M. Micozzi, cit. p. 93

(20) L. Melandri, Comunità e lavoro, 18-11 2009, p. 6

(21) L. Melandri, Ibid., p. 3

(22) Paolozzi, A. Leiss, La paura degli uomini, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 138, corsivo mio.