Femminismo, Psicanalisi e Politica

A seguito dell’incontro sul tema
Femminismo, Psicanalisi e Politica

tenutosi sabato 15 novembre 2014 nella sede della Libera Università delle Donne di Milano con Paola Zaretti, autrice del libro “Nel nome della Madre, della Figlia…e della Spirita Santa”, edizioni Con-fine, Monghidoro (Bo) 2013. Coordinato da Lea Melandri.

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Ci sono dei momenti in cui tutto si apre, quasi come se il cielo fosse stato spaccato in due da un fulmine, una breccia si fa largo nei pensieri di alcune donne e la diversità si trasforma in comunanza. Di questi momenti si ha bisogno di tanto in tanto, affinché la distanza renda più dolce la solitudine dell’anima. Le tessitrici non smettono mai di lavorare, di giorno in giorno, di gioia in dolore, esse cuciono i pezzi di una vita vissuta e richiamano quella saggezza che allieta i cuori, quell’amore che ancora esiste nel silenzio, nel vuoto. Là fuori c’è un mondo che riporta alla superficie solo una parte della storia, quella vidimata dalla mano del potere che censura ciò che teme. Sabato scorso, grazie a Paola Zaretti e Lea Melandri abbiamo raccontato insieme l’altra storia, quella di alcune donne che hanno fatto di sé il più prezioso dei beni, che non hanno rinunciato alla propria autenticità rischiando di perdersi nell’abisso della solitudine, com’è successo a Carla Lonzi e ad Angela Putino. Che alcune donne, a distanza di anni, si siano ritrovate ancora attorno a parole dimenticate nella loro concretezza, come autocoscienza, inconscio, psicanalisi e femminismo restituisce un po’ di speranza di andare avanti, di muoversi finalmente da quella paralisi in cui il femminismo è incappato. Alcune domande come un lampo di luce:

“Qual è stato, a cominciare dalla nascita in Italia della pratica dell’autocoscienza (importata per la prima volta da Serena Castaldi, fondatrice del Gruppo Anabasi e poi ripresa da Carla Lonzi) e della pratica dell’inconscio, il rapporto del Femminismo italiano con la psicanalisi?
Quale la sua evoluzione? Quali sono state le ragioni della Centralità e del Peso assunti dalla figura dell’isterica all’interno della pratica politica femminista?
Per quali ragioni e a quale titolo una categoria clinica come l’isteria fa irruzione nel bel mezzo della politica delle donne? Che c’entra, insomma, l’isteria, con la politica delle donne?”

È curioso che a porre queste domande e a coglierle siano donne che hanno incrociato la psicanalisi in un modo o nell’altro nelle loro vite. Quasi che attraverso quella esperienza abbiano potuto cogliere una possibilità nuova per il femminismo. D’altronde il rapporto tra femminismo e psicanalisi emergeva chiaramente negli anni ’70, basti pensare alla figura di Irigaray, filosofa e psicanalista, oppure ai rapporti delle milanesi con il gruppo francese Psy&Po. Questa volta però è diverso, siamo in un dopo rispetto all’autocoscienza sperimentata nei primi collettivi, abbiamo i testi di Lonzi di cui soprattutto il Diario è testimonianza di un’esperienza dalla forza coinvolgente e a tratti distruttiva. Distruttività testimoniata dai testi citati in “Nel nome della Madre, della Figlia e della Spirita Santa” e anche dalle preziose testimonianze di alcune donne presenti all’incontro che, dopo l’autocoscienza, hanno sentito il bisogno di tessere le proprie fila in altri luoghi, quelli dell’indagine psicanalitica. Ed ora le stesse donne esordiscono dicendo che il “femminismo non può prescindere dalla psicanalisi”. Anche noi donne di Tabula Rasa, coinvolte in un esperimento di Autocoscienza online, abbiamo riflettuto sulle nostre esperienze di analisi e psicoterapia chiedendoci che cosa ci spingesse ad essere insieme in questo gruppo. Si pone quindi uno scarto rispetto all’esperienza dell’Autocoscienza degli anni ’70 che apre ad importanti interrogativi, tutti da affrontare..

Rinviamo quindi ad una prima necessaria rivisitazione del passaggio dall’ “Autocoscienza” alla “pratica dell’inconscio” alla “pratica del fare” suggerita dall’intervento di Paola Zaretti pubblicato nel nostro blog  e alla registrazione dell’intero seminario pubblicato dalla Libera Università delle Donne che contiene la bellissima introduzione di Lea Melandri (http://www.musil.it/conferenza/conferenza_sei.html) e godiamoci un po’ di energia rinnovata da questo scambio che sembra aprire possibilità. Come quella, nello scarto tra psicanalisi e femminismo, di un avanzamento attuabile solo attraverso l’elaborazione dell’esperienza dell’Autocoscienza degli anni ’70, una chiarificazione dei suoi aspetti positivi – rottura dagli ambienti e dal sapere maschile, soprattutto quello psicanalitico – e di quelli negativi – incapacità di gestire situazioni di forte disagio dovute alla messa in moto dell’inconscio, cristallizzazione di un ordine simbolico della Madre portato avanti da una corrente del femminismo italiano – e la riproposizione consapevole di un’autocoscienza o di una psicanalisi Altra. Solo attraverso un lavoro su di sé si può giungere pian piano, di volta in volta, alla liberazione.

Leda Bubola

Presentazione di Paola Zaretti

Ciao a tutte e grazie a Lea per avermi invitata a questo incontro e per avermi dato l’opportunità di parlare di un rapporto cruciale, da sempre ambiguo e contraddittorio – un rapporto d’amore-odio che perdura – del femminismo verso la psicanalisi.

Sarà la ricostruzione, per sommi capi, della storia di questo intricatissimo legame, il filo conduttore del mio intervento in cui cercherò di connettere la domanda già posta in uno scritto del 2010 cui Lea ha fatto riferimento E le donne l’inconscio ce l’hanno? con tanti  altri interrogativi, più attuali sollevati nel mio libro Nel Nome della Madre della Figlia e della Spirita santa in cui viene data voce alla sfida fra due importanti figure del femminismo italiano, Angela Putino, una grande filosofa napoletana a molte tuttora sconosciuta, e Luisa Muraro su un tema vasto, opaco e controverso, quale è stato il rapporto tra Femminismo, Psicanalisi e Politica. I termini teorici – ma direi anche politici – di questa sfida sono contenuti in due testi Amiche mie isteriche di Angela Putino e La posizione isterica e la necessità della mediazione di Luisa Muraroche ho cercato a far dialogare senza trascurare i contributi di altre importanti figure del femminismo italiano – Melandri, Cigarini, Dominijanni, Boccia e molte altre – cui è stato riservato nel testo uno spazio considerevole.

Voglio innanzi tutto ricordare che la domanda posta nello scritto del 2010 E le donne l’inconscio ce l’hanno? è stata riformulata un po’ provocatoriamente da Leda Bubola al Convegno di Paestum dello scorso anno in cui alcune donne che avevano fondato con me il gruppo di Autocoscienza online in fb, hanno proposto un Laboratorio sull’ Autocoscienza. In verità, la domanda completa suonava così: E le donne l‘inconscio ce l’hanno? Ce l’hanno ancora? Ce lo chiedevamo, in quell’occasione e continuiamo a farlo, a ragion veduta, dal momento che quando si parla di femminismo, di psicanalisi e di politica, il riferimento all’inconscio, come ricordava Antoniette Fouque ai primi degli anni ’70, è ineludibile.  Fouque, come sapete, fu la fondatrice in Francia diPsycanalyse e Politique, fu una psicanalista e teorica del femminismo differenzialista, che  nella fase di passaggio dalla pratica dell’autocoscienza – data per estinta – alla pratica dell’inconscio, ebbe molta influenza sul femminismo milanese e in quegli anni scriveva così:

Mi sembrava che se non avessimo tenuto conto dell’inconscio, avremmo presto navigato in pieno delirio (…). In breve, c’era dell’inconscio nella politica e della politica nell’inconscio.

Che si stia navigando in pieno delirio, a me pare un fatto, un fatto derivante da dall’archiviazione dell’inconscio e di tutto ciò che riguarda la sua incidenza sulla sfera psichica – comportamenti inclusi. Di questa fuorclusione abbiamo un esempio chiarissimo nell’affermazione che segue tratta da un articolo comparso di recente su fb:

L’autocoscienza è stata per le donne un lavoro politico e non psicologico.

Si continua così a pensare per dualismi e opposizioni. Si scrive che il “personale è politico” per poi negare il personale scindendolo dal politico. Dati esperienziali e osservazioni sul campo confermano la cospicua presenza, non solo nei luoghi del maschile ma anche all’interno dello stesso femminismo, e non solo di nuova generazione, di una particolare tipologia di soggetti che sembrano essere assolutamente impermeabili a ogni lavoro finalizzato all’acquisizione di quella “coscienza di sé” promossa a suo tempo da Lonzi e dal femminismo. Non basta, insomma, nominare l’autocoscienza per farla esistere anche se nominarla senza praticarla davvero, rassicura dal pericolo di quegli effetti indesiderabili a causa dei quali questa pratica fu a suo tempo bandita come “pratica a termine” e sostituita dalla pratica dell’inconscio, afflitta a sua volta, come vedremo, da non pochi problemi, non ultimo quello di aver spinto molte donne, di fatto e senza volerlo, ad abbandonare queste pratiche per orientarsi verso la psicanalisi dei padri come ultima spiaggia per uscire dall’impasse vissuta nei collettivi. Un esito certamente indesiderato e Lonzi, che ne era consapevole avendo vissuto l’esperienza sulla propria pelle nel tentativo di fare con Sara ciò che Freud aveva fatto con l’amico Fliess, ci mette giustamente in guardia sull’autocoscienza con parole piuttosto dure:

Chi ha detto che l’autocoscienza è quella?

Quella è una pantomima per i fessi

Sarebbe finita prima di cominciare

È diventata aria fritta

Non parlare con me se hai «fatto autocoscienza”

L’autocoscienza è l’altra (C. Lonzi)

Prima di procedere, e tenendo il filo del nostro discorso centrato sul rapporto del femminismo con la psicanalisi che ci guiderà nel ripercorrere, con l’aiuto di alcune testimonianze, le tappe più significative del femminismo italiano – la pratica dell’autocoscienza con i suoi limiti, i suoi inciampi e le ragioni del suo abbandono, il passaggio alla “pratica dell’inconscio” ispirata al modello del rapporto analitico, la “pratica del fare” e, infine, l’istituzione dell’ordine materno criticato da Putino – ci tengo a fare una precisazione: la  critica da me rivolta ad alcune teorie femministe – a quella, per esempio, indicata come una “teoria politica dell’isteria” e ad alcune pratiche centrate su ”affidamento” “disparità” e “autorità” – non implica in alcun modo una scelta a favore di quella che chiamerò, per intenderci, la “psicanalisi dei padri”. La psicanalisi a cui penso, infatti, e di cui ho scritto, è l’Altra psicanalisi, è la psicanalisi che non c’è, quella che in Italia deve ancora nascere.

A impedirmi di essere una fautrice accanita di questa disciplina, è, giusto per partire da me, la mia storia, la mia uscita definitiva e non indolore, nell’88, da un’Associazione psicanalitica di cui ero parte, per fondare, molto tempo dopo, un Luogo a misura mia e di altre donne con le quali impostare un lavoro di formazione analitica fedele e sintonica alle esigenze di quella parte irriducibile di me – la mia anima “femminista” – che è sempre stata ed è tuttora parte fondante, agente e influente della/nella mia professione. Pratica politica femminista e pratica analitica sono insomma, per i miei trascorsi politici e personali, così inscindibili da non essere pensabili in termini oppositivi o escludenti. Del resto, a ben vedere, che la pratica femminista dell’autocoscienza che si svolgeva nei primi collettivi portasse inevitabilmente alla scoperta dell’inconscio provocando un interesse spontaneo per la psicanalisi – com’è accaduto nel mio caso – Lonzi l’aveva previsto con grande anticipo:

(…) L’autocoscienza porta alla scoperta dell’inconscio, e quindi provoca l’interesse spontaneo per la psicanalisi.

Viene  sottolineata, in questo passaggio, non solo l’importanza della “scoperta” dell’inconscio mobilitata dalla stessa pratica autocoscienziale  ma vediamo anche, nei passaggi che seguono, gli elementi che secondo Lonzi – contraria all’utilizzo degli “strumenti culturali” del patriarcato e decisa di farne tabula rasa – distinguono pratica autocoscienziale e pratica analitica:

Mi sono svegliata, dopo una notte tranquilla, con dei pensieri sulla psicoanalisi. E’ vero che si tratta di una terapia e basta, e dà, al massimo, un individuo guarito, non liberato (…) E l’analista è un professionista non un poeta.

Magari dovrei io stessa andare da un analista e poi passare al professionismo. Ma veramente m’interesserebbe occuparmi di qualcuno professionalmente, su una falsariga scientifica rivelatami da altri?

Sono relegata al ruolo di psicanalista non essendolo. Non sono una psicoterapeuta.

La critica di Lonzi alla scelta successivamente compiuta da una parte del femminismo, di abbandonare l’autocoscienza per fare ricorso  alla “pratica dell’inconscio” e dunque agli “strumenti culturali” della psicanalisi, è costante e apertamente dichiarata. Lonzi rifiuta quelle falsarighe scientifiche e quei “trasferimenti” di campo che si verificavano nel tentativo – come allora si diceva – di  “portare la psicanalisi dentro il movimento delle donne”.

Questo dirottamento dei rapporti, nei gruppi femministi, verso l’analisi del profondo o pratica dell’inconscio non mi va per diversi motivi, ma soprattutto perchè si ha un bel dire che non esiste più analista né analizzata, c’è circolarità, ecc. Non è vero: esiste la cultura dell’analisi (…).

Le femministe che si affannano a dimostrare l’utilità della psicoanalisi per la liberazione delle donne (…) traggono questa preoccupazione da un’identificazione culturale (…). Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula rasa delle idee ricevute (…), convinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante (…). L’autenticità di questi testi è che riposano su un vissuto (…) e dunque ho affermato tutto sul vuoto (…) su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore (…). Autocoscienza dunque come tabula rasa dei miti.

Lasciamo per ora in sospeso un interessante questione, ovvero se Lonzi sia riuscita a fare Tabula rasa degli “strumenti culturali”. Ciò che certamente già con lei si prefigura, è il controverso rapporto di  prossimità e di distanza fra femminismo e psicanalisi che continuerà a caratterizzare, in forme diverse che vanno distinte, tanta parte del femminismo italiano. Fra le prossimità che avvicinano queste due pratiche, oltre al transfert – cui Lonzi fa spessissimo riferimento nel Diario – è  il famoso “partire da sé” che altro non è, in definitiva, che la descrizione di ciò che sempre si verifica, di norma e necessariamente, in ogni analisi  e per tutto il tempo della sua durata. Che altro fa un soggetto in analisi se non esattamente questo, se non parlare a qualcuno/a a partire da sé?

Entriamo allora nel vivo del rapporto fra queste due pratiche attraverso alcune domande:

– Qual è stato, a cominciare dalla nascita in Italia della pratica dell’autocoscienza (importata per la prima volta da Serena Castaldi, fondatrice del Gruppo Anabasi e poi ripresa da Carla Lonzi) e della pratica dell’inconscio, il rapporto del Femminismo italiano con la psicanalisi?

– Quale la sua evoluzione? Quali sono state le ragioni della Centralità e del Peso assunti dalla figura dell’isterica all’interno della pratica politica femminista?

– Per quali ragioni e a quale titolo una categoria clinica come l’isteria fa irruzione nel bel mezzo della politica delle donne? Che c’entra, insomma, l’isteria, con la politica delle donne?

– E cosa resta oggi, a distanza di quarant’anni, di questo rapporto vivo, ingombrante e controverso? Mancano, su un aspetto così importante, connessioni e rielaborazioni che non siano narrazioni frammentarie e insufficienti a fornire un quadro che dia conto della natura e della complessità di quel rapporto che fu.

Di qui la mia esigenza di ripercorrere e ricostruire il tratto di strada che dai gruppi di autocoscienza e di “pratica dell’inconscio” porterà alla “pratica del fare” e, infine, all’”ordine simbolico materno” considerato, da una parte del femminismo, la panacea di tutti i mali per uscire da una “situazione magmatica” ed esplosiva ritenuta altrimenti ingestibile. Bisognerà dunque fare un passo indietro, agli anni ’70 per analizzare a fondo non solo le intricatissime vicende inerenti il rapporto tra femminismo psicanalisi e politica che si andava allora costruendo – fra scosse, furti, assestamenti e sforzi titanici nel tenere insieme pubblico e privato, personale e politico – ma anche all’evoluzione, agli esiti di tale rapporto e al peso determinante che esso ha avuto nel disegnare il quadro attuale in cui, per via della perdita di legami fra le esperienze indicate e i processi di frammentazione che ne sono seguiti, il solo nesso che oggi accomuna psicanalisi femminismo e politica è una separazione avvenuta. Se da un lato il progetto “politico-terapeutico” femminista  di “portare la psicanalisi dentro il movimento delle donne”, è stato inghiottito dalla psicanalisi istituzionale che ha finito per portare molte donne del movimento dentro la psicanalisi senza restituirle quasi mai al femminismo e alla politica, dall’altro lato, parte del movimento nato e cresciuto in quegli anni, è stato progressivamente inghiottito dal “femminismo di Stato” mentre la psicanalisi, nell’oblio più totale delle sue origini, è tristemente trapassata al rango di psicologia e di psicoterapia di Stato.

A sollecitare una riflessione sono i tanti interrogativi e le risposte mancate e poco convincenti, i vuoti incolmabili scavati nelle gallerie che conducono da una pratica femminista a un’altra (“autocoscienza”, “pratica dell’inconscio”, “pratica del fare”, teorizzazione di un Ordine simbolico materno), i silenzi cui dar voce, gli imbarazzi e le lacerazioni vissute da tante, in quegli anni, sulla propria carne, le fughe alla ricerca di soluzioni improbabili, intrappolanti, a volte mortali. Solo rifacendo quella strada potremo cogliere il senso della teorizzazione di un ordine materno, il significato e la funzione della figura dell’isterica all’interno di tale ordine e, infine, le fondate ragioni della critica rivolta da Putino a Muraro in Amiche mie isteriche. Leggiamo allora, attraverso qualche testimonianza, il travaglio in cui il movimento femminista si dibatteva negli anni del passaggio, siamo attorno al 72, dalla pratica dell’ autocoscienza alla pratica dell’inconscio:

Ciò che sembra (…) rendere necessario il passaggio dalla pratica dell’autocoscienza di Lonzi alla pratica dell’inconscio, è l’esigenza di affidarsi a una tecnica e a una interpretazione capaci di contenere una situazione magmatica ed esplosiva dallo stesso cumulo di “intuizioni” che il lavoro autocoscienziale aveva prodotto. (Boccia)

Il ricorso alla psicoanalisi e lo sviluppo di pratiche che tentano di dare forma alla relazione tra donne, rifacendosi al rapporto analitico, hanno come motivazione esplicita la difficoltà a procedere nell’autocoscienza che (…) anche Carla Lonzi individua (…). (Boccia)

In realtà la pratica dell’autocoscienza generava ormai un senso d’impotenza per il semplice fatto che aveva esaurito le sue potenzialità (…).  A Milano quelle che si trovarono nella stretta, si regolarono nella maniera seguente: usare gli strumenti teorici che la cultura offriva ed escogitare una pratica politica che li convertisse al significarsi della differenza originaria umana di essere donne. (Non credere di avere dei diritti)

La fine dell’autocoscienza come pratica comune al femminismo ha due diversi esiti: da un lato l’approfondimento della scoperta di sé, soprattutto attraverso il ricorso a pratiche e concetti di origine psicanalitica; dall’altro l’azione politico-sociale e il diffondersi della cosiddetta “pratica del fare”, ovvero di iniziative e imprese sociali femminili. Queste due diverse anime del femminismo troverebbero una successiva forma di ricongiungimento attraverso lo sbocco della prima via, quella che ha scavato nella profondità dell’inconscio e della mente femminile, nella produzione di un simbolico in grado di fornire all’agire femminile (…) i referenti necessari per incidere (…) nell’universo delle mediazioni. (…)”. ( Boccia)

Ma vediamo da vicino, qual era il clima che si respirava nei gruppi di “pratica dell’inconscio”:

Quando si parla di inconscio, quando ciò che è rimosso ricompare, nel gruppo si scatenano reazioni, dinamiche difficili da gestire (…). Non c’era, nei nostri gruppi, quella capacità di distacco, quel controllo che in una pratica terapeutica spetta all’analista. (Melandri)

 La pratica dell’inconscio voleva dire entrare in una specie di seconda natura (…) era come “affondare in un imbuto da cui non sai se riuscirai a risalire”. (Melandri)

(…) all’interno del piccolo gruppo si creano ruoli di potere, relazioni materno-filiali (…). Si aprono spiragli sull’inconscio, che crea grande angoscia senza dare la possibilità di cambiamento. Per questo si preferisce spesso l’analisi personale.

Due anni fa quando sono incominciati i primi tentativi di pratica dell’inconscio (…) la riunione settimanale (…) ha finito inevitabilmente per prendere l’andamento della seduta analitica (…).

Quando è nata questa ipotesi di lavoro (pratica dell’inconscio) collettivo, era già abbastanza chiaro in noi la contraddizione che chi poteva effettivamente dare un minimo di garanzia nell’analisi del profondo, dell’inconscio, erano le persone che avevano fatto nel passato un’esperienza analitica (…).

In effetti, il passaggio dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio avvenne su iniziativa di alcune donne che avevano fatto un’ analisi individuale. C’è a questo proposito un importante racconto di Lea:

La proposta di farsi analiste nel movimento fu accettata da me e da Lia: il “gruppo analisi” di cui faceva parte Lia cominciò nel ’74 mentre il gruppo di pratica dell’inconscio cominciò sette o otto mesi dopo (…). Lia pensava che la coppia paziente-analista dovesse poi far parte di uno stesso gruppo (…) io invece ero contraria a mettere insieme i due momenti, pensavo che il rapporto a due dovesse restare separato dal gruppo (….). Né Lia né io eravamo analiste di professione, avevamo fatto analisi personale, per cui certamente era una partenza azzardata (…). Con l’entusiasmo che avevamo allora, pensai davvero che riportare su di sé il rapporto antico con la madre potesse aiutarci a venirne a capo (…). Adesso, vista alla distanza, mi sembra davvero che fosse una follia l’idea di trasferire nel collettivo il rapporto analitico a due mentre invece la pratica dell’inconscio fu qualcosa d’altro; avevano ragione le psicanaliste a dire non chiamiamola così, diciamo che è un’altra cosa, che ci siamo inventate qualcosa d’altro.(Melandri,)

Vedete bene che qui si parla di “analisi”, qui si parla di “analiste del movimento”, qui si nomina la “coppia paziente-analista”, qui si usa un linguaggio che appartiene a un preciso campo disciplinare ma si ammette anche, con onestà e chiarezza, che non si trattava di “analiste di professione” – benché delle femministe analiste di professione fossero presenti nei gruppi  – ma di donne che avevano fatto un’analisi individuale. Non ho motivo di nascondere che nel leggere queste testimonianze e avendo una certa esperienza di che cosa anche una sola parola giusta detta al momento sbagliato possa scatenare in una persona in analisi, sono stata presa da un moto misto di sconcerto, di fastidio e di sgomento pensando ai rischi legati a quell’operazione che Lea stessa definisce “una follia”. Mi sono poi chiesta, quale desiderio avesse spinto delle donne che analiste non erano ad occupare, di fatto, quella posizione all’interno di un gruppo. Al di là di ogni valutazione o giudizio di merito cui non mi sento per nulla autorizzata, ciò su cui mi interessa focalizzare l’attenzione è l’inesistenza, allora come ora, di Luoghi idonei e conformi alle aspettative maturate nel femminismo, di Luoghi fondati da femministe psicanaliste “di professione”, alternativi a quelli tradizionali fondati da uomini. In altre parole, sconcerta constatare che quel prezioso patrimonio di sapere femminile maturato nei gruppi e che avrebbe potuto essere capitalizzato per l’istituzione la crescita e la diffusione in Italia di Luoghi simbolici ispirati all’insegnamento di Lonzi e di Irigaray, sia stato sprecato “capitalizzato” e sfruttato dalla psicanalisi dei padri a loro esclusivo vantaggio. L’originale contributo di pensiero del Femminismo degli anni ’70, la pratica dell’autocoscienza, la pratica dell’inconscio, la critica radicale rivolta alla psicanalisi dei Padri, le felici intuizioni di Lonzi e il contributo di Irigaray ma non solo, avrebbero potuto/dovuto portare alla nascita e alla moltiplicazione in Italia, di Luoghi simbolici alternativi fondati da donne impegnate nella ricerca di una nuova “direzione della cura” e di una nuova formazione ispirata al pensiero di queste grandi figure. Ma nulla di tutto questo è avvenuto, né in quegli anni né in quelli successivi e la sofferenza femminile, la “salute” delle donne ha continuato e continua  a essere, a causa di quel vuoto, saldamente in mano a uomini o a donne  formate alle scuole degli uomini.

Ebbene, veniamo ora  alla seconda parte del nostro percorso in cui ci resta da mettere  a fuoco le ragioni, – che a questo punto dovrebbero apparire evidenti –  per le quali il femminismo si è tanto  interessato alla psicanalisi e a “prendere in mano la questione dell’isteria”, effettuando un vero e proprio “saccheggio” ai testi di Irigaray, come ella stessa ebbe, alcuni anni fa, a lamentare. Che sia stato un tentativo, da parte del femminismo, di sostituirsi a questa disciplina – di cui  partire da sé, disparità e affidamento testimoniano –  viene apertamente dichiarato. Scrive Muraro:

Il femminismo è stato per l’isterica come un teatro che ha dato senso ai sintomi, facendolo scaturire, questo senso, non da un’interpretazione prodotta da un altro che si sottrae così alla relazione, ma direttamente dalle relazioni che sono in gioco sulla scena.

La liberazione della verità dell’isterica viene con il femminismo (..)

Ed ecco le motivazioni con cui il modello psicanalitico suggerito dalle francesi viene proposto, giustificato e adottato in Italia all’interno dei gruppi:

Nel rapporto analitico il potere attribuito all’analista diventa, paradossalmente, la condizione essenziale per essere liberati dalla dipendenza. In qualsiasi gruppo, non escluso quello formato da sole donne (…) in ogni caso ci si scontra con la disparità (…). Il trasferimento del rapporto analitico all’interno dei rapporti in corso fra donne dovrebbe portare chiarezza nella difficile ricostruzione delle richieste e degli investimenti che una donna fa su un’altra donna.

Si vede bene qui come il rapporto ambivalente del femminismo con la psicanalisi, abbia dato luogo, alla fine degli anni ’80, a un  processo di appropriazione e sostituzione tendenzialmente distruttivo – nei fatti se non nelle intenzioni – della psicanalisi. A un processo che passando per l’autocoscienza, per la ”pratica dell’inconscio” e per l’appropriazione e dislocazione di alcuni dispositivi propri del setting analitico – transfert, “autorità”,” “disparità”, “affidamento” – all’interno dei gruppi femministi, approderà alla costruzione di un “ordine simbolico materno” appositamente istituito come luogo preposto a un’inedita “terapia politica” dell’isteria femminile:

Nel parlare di “debito simbolico-madre simbolica”, “madre reale-autorità femminile, bisogna prendere in mano la questione dell’isteria femminile, perché c’è una tipologia femminile che passa per la donna isterica, ed io mi metto tra queste. (Muraro)

Io ero prima muta e frigida e non lo sono più non perché ho fatto l’analisi ma perché ho vent’anni di materialità tra le donne. Ho modificato il mio inconscio e sono nell’ordine simbolico della madre, non è stata solo una modificazione politica (…). (Muraro)

Vedete bene che qui  si passa dall’ammissione dichiarata di una sintomaticità isterica personale “e io mi metto fra queste” all’informazione di un’avvenuta “guarigione” da alcuni sintomi (mutacismo e frigidità) e lo si fa con l’intento di screditare il percorso analitico trattandosi di guarigione dovuta non già a un percorso mai praticato, ma a “vent’anni di materialità fra le donne”, alla “modificazione dell’inconscio”, e al fatto, infine, di “essere” nell’ordine simbolico della madre”Il discredito nei riguardi di psicologia, psicanalisi, sociologia, prosegue in questi passaggi:

La relazione con la madre reale non è una faccenda privata o psicologica, è una vicenda della cultura umana e della libertà femminile. (Muraro)

Non c’è una psicologia o una sociologia da interrogare. (Muraro)

Negato il ruolo e la funzione di psicologia, sociologia e psicanalisi, si fa avanti con baldanza un desiderio del femminismo di farsi promotore e garante di quell’”opera terapeutica” rappresentata – come qualcuna ebbe a dire – dall’ Ordine simbolico della madre. Quale pulsione, quale desiderio – ci chiediamo – può aver indotto alcune femministe che facevano riferimento al pensiero della Differenza, a spingersi oltre la  sacrosanta critica alla psicanalisi dei Padri, fino al punto di autorizzarsi non solo a compiti di ascolto e di “cura” dell’isteria ma anche, ad assumere, molti anni dopo, una funzione terapeutica nella cura dell’anoressia?

D’altra parte, anche al sintomo anoressico dobbiamo il tentativo dell’ascolto empatico e della reinterpretazione che abbiamo azzardato con il sintomo isterico. (Dominijanni)

La tendenza del femminismo a farsi carico di un ruolo “terapeutico” risulta qui confermato: se da un lato emerge il desiderio di alcune di proporsi in qualità di “promotrici di cura” della sofferenza femminile,  dall’altro, l’adozione di un gergo ”specialistico” di chiara derivazione “lacaniana” si fa evidente. E così Irigaray, l’eretica cacciata dalla scuola lacaniana “per mancata fedeltà a un solo discorso” è ormai inutile e lontana e il nuovo  patto di complicità del femminismo con il “lacanismo”, è un altro tema  che aggiunge a sconcerto sconcerto. Questa vocazione femminista per la “clinica” dell’isteria e dell’anoressia, nasce, secondo Putino, oltre che da una personale sintomatologia, da un accostamento della figura dell’analista, del maitre, alla figura materna:

L’operazione che viene fatta, soprattutto in Italia, è quella di avvicinare la posizione del maitre alla figura materna (….).(Putino)

L’operazione, dunque, di cui si era trattato nell’Ordine simbolico della madre, è duplice: sottrarre la cura dell’isteria al setting psicanalitico tradizionale, liberarla da un’interpretazione analitica e assimilare la posizione del maitre (l’analista), a quella della madre. Ma che cos’era “L’ordine simbolico della madre”? Si trattava davvero  di una brillante invenzione, di una nuova e originale teoria di “cura” dell’isteria femminile, di una “terapia politica” sostitutiva dislocata al di fuori del setting tradizionale o era invece, come pensava Putino, “un filo unificante e dispotico” divenuto, negli anni ‘90, “monopolio discorsivo”? A sentire Putino non si tratta affatto di  un processo di “liberazione della verità isterica” ma di un comportamento indotto da una propria personale sintomaticità:

(…)L’isteria ormai non è più ciò che gli uomini – psicanalisti, amanti, amici – hanno pensato, riferendolo alle (loro) donne, ma solo il termine con cui alcune femministe hanno designato un proprio comportamento.

A darne conferma, è  proprio L’Ordine simbolico della madre, il libro di Muraro pubblicato per la prima volta nel 1991. Un libro che nasce – per dichiarazione della stessa autrice – da un “sintomo”, da una sofferenza, la stessa sofferenza che lo psicanalista francese André Green incontra in alcune pazienti – con cui lei si identifica – legate da un “attaccamento insormontabile” alla madre e da una difficoltà a investire sulla figura del padre, difficoltà che troverebbe soluzione, per Muraro, attraverso uno stratagemma: un dislocamento della “cura” dell’isteria dal “teatro delle operazioni” del setting analitico tradizionale, al movimento politico delle donne istituito come luogo alternativo di “cura”. A Putino il senso di questa operazione non sfugge:

Ed è per questa via –  la via del potere della Madre e dell’amore materno che negli anni ’90, una parte del femminismo italiano tenta di dare una svolta alla libertà femminile: se attraverso l’amore della madre ogni donna dà valore a se stessa occorre individuare una serie di pratiche di relazioni tra donne che, direttamente o indirettamente, si connettano a tale consapevolezza. Molti elementi che erano stati messi in campo da una rivoluzione femminista più eterogenea vengono attirati in questa orbita, con il rischio di venir composti e anche fissati nello schema relazionale materno. Tuttavia, non precisamente di amore materno si tratta (…) ma dell’”attaccamento isterico alla madre”(Putino)

La domanda di Angela sul “ricorso isterico al materno” è cruciale. Giova qui  ricordare un passo tratto da un saggio di Ida Dominijanni, pubblicato molti anni dopo (2007), in cui Dominijanni. riconosce, accanto a degli “effetti terapeutici” positivi ottenuti grazie a una “reinterpretazione” dell’isteria ispirata all’ordine materno, una serie di effetti collaterali imprevisti, riscontrati, di fatto, nell’”ordine politico delle relazioni fra donne”:

E’ vero però che la riproposizione della relazione primaria produce nell’ordine politico delle relazioni tra donne (…) effetti non omogenei  e talvolta opposti: claustrofilia e claustrofobia, agio e insofferenza, soddisfazione e mancanza; e troppo spesso, con la claustrofilia e l’agio, una imbattibile tendenza all’automoderazione che invariabilmente abbassa il tiro della scommessa politica. (Dominijanni)

Ma Dominijanni va oltre e si chiede anche se l’assenza del padre nell’ordine simbolico della madre derivi “da una certa onnipotenza della relazione tra donne” :

Perché è vero che senza evocazione della potenza materna non c’è grandezza femminile: ma è vero anche che al riparo di una potenza materna idealizzata la grandezza femminile non vola, non rischia, e nemmeno genera. (Dominijanni)

La “potenza materna” taglia le ali alla grandezza femminile, alla capacità di generare e di amare. Ed è proprio dell’amore, soprattutto dell’amore della madre, che Putino dubita. Che possa trattarsi semplicemente – come temeva Cigarini –  di un “cattivo uso” della madre  simbolica nella pratica politica delle donne, o a sostanziare i sospetti di Angela c’è in gioco qualcosa di più? Sono più d’uno i dubbi da lei sollevati sulla rincorsa presa da una parte del femminismo italiano verso la “libertà femminile” attraverso la “via regia” dell’amore materno: se il primo dubbio mina l’esistenza stessa di questo amore, il secondo esclude la possibilità che un “attaccamento isterico alla madre” possa essere la via più indicata per “approdare” a un ordine simbolico. Ne va, dunque, per Angela, della legittimità stessa dell’uso del concetto di “simbolico” e di una sua confusione con il registro dell’immaginario.

Angela si chiede se si tratti davvero, di un’”elaborazione simbolica”, Angela dubita che la pratica della relazione “faccia” di per sé simbolico, dubita che essa possa “essere”, in quanto tale, il simbolico femminile. Il Patriarcato è vivo, insomma, vivo più che mai quando ci si illude di uscire dal suo sistema di pensiero restandoci impigliate dentro.

Vorrei chiudere con un passo di Maria Zambrano:

Ciecamente la vita continua a generare esseri che chiedono di vedere. Alcuni tra quelli riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarsi, né bruciare. 

Ho pensato immediatamente a Lonzi, non ad altre, leggendo questa frase. Lei è stata uno di quegli esseri che è riuscita a crearsi le proprie luci bruciandosi. Voler vedere, voler sapere è, in fondo, un atto di Hybris che richiede un coraggio e una forza non comuni, condensati in due sole parole: Tabula rasa:

Questo vuoto ognuna è sola nell’affrontarlo, nel misurarlo: è appena sopportabile. È il rischio di perdere la ragione.

Niente-di-meno. Se non si coglie fino in fondo il significato di questo gesto di coraggio e la sua originaria matrice  – una crisi, un terremoto che squassa, destabilizza e spazza via di colpo tutto ciò in cui fino a quel momento si è creduto e creduto di volere, tutto ciò che senza vivere si è vissuto credendo di vivere, si perde l’essenziale di una vita che è tutt’uno con la propria opera. C’è uno strappo, datato, una scossa violenta, nella vita di Lonzi, che irrimediabilmente spezza e separa un “prima” e un “dopo”. C’è una lacerazione a partire dalla quale tutto cambia, diviene e si trasforma, fuori e dentro e attorno, e niente, niente è, né potrà essere più come prima: il ritiro dalla sua professione di critico d’arte e dalla vita pubblica sono la viva e drammatica testimonianza di questo Incipit…tragoedia – mi verrebbe da dire pensando a Nietzsche. Carla Lonzi, come Putino, è una figura tragica e dimenticarlo non rende giustizia alla sua vita e al suo pensiero. Tra quel “prima” e quel “dopo”, la lucida coscienza di essere vissuta fino a quel momento in una condizione di alienazione e di inautenticità permanente per via dell’adesione a certi modelli culturali, e il desiderio di uscirne attraverso il femminismo e l’autocoscienza individuati come la sola strada possibile, la sola via di salvezza:

Così sono arrivata al femminismo che é stata la mia festa, qualcuna doveva ben cominciare, e la sensazione che mi portavo addosso che, o lo facevo io o nessuno mi avrebbe salvato, ha operato in modo che l’ho fatto io.

 Si trattava dunque, per lei, di una questione di vita o di morte.

Una risposta a “Femminismo, Psicanalisi e Politica

  1. Molto interessante. Condivido pienamente quanto si dice sulla ‘figura tragica’ di Carla Lonzi, che anche per me – mutatis mutandis – è stata molto importante. Una sua frase – essere all’latezza di un universo senza risposte -contiene per me un pensiero fondamentale, tragico, appunto.

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