Femminismo e malattia

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di Paola Zaretti/Femminismo e malattia.

Testo presentato presso l’ Università di Verona il 13 Giugno 2013 durante un incontro dedicato a Carla Lonzi  presieduto da Chiara Zamboni

Ho cercato di rintracciare alcuni fili comuni  alle diverse relazioni che – grazie ai testi di Maria Livia Alga, Sara Bignardi e Ludmilla Bazzoni, e Daniela Pietta – mi è stato possibile individuare a partire da me, dalla mia passione per Lonzi e per altre pensatrici del femminismo italiano il cui pensiero si situa nell’orizzonte del Tragico. Mi riferisco, nell’indicare questo orizzonte, non solo al pensiero di Carla Lonzi ma anche a quello di Angela Putino che non avrei ragione di menzionare in questo contesto se non fosse che in uno dei suoi testi Amiche mie isteriche – un testo critico e controverso nato in contrasto con il testo di Muraro La posizione isterica e la necessità della mediazione – il nesso fra femminismo e malattia evidenziato da Maria Livia nel suo lavoro, si ripropone con forza suggerendo – nell’ambito della visione da lei proposta – altre possibili articolazioni inerenti la centralità e il peso assunto dalla malattia, in particolare dall’isteria, nel pensiero femminista, una centralità che potrebbe diventare oggetto di indagine in vista di nuovi spazi di riflessione e di approfondimento.

Sono sostanzialmente due i fili comuni che attraversano, in modi diversi, gli scritti di Maria Livia e di Daniela ma anche quelli di Sara e di Ludmilla e che riguardano due aspetti e strettamente connessi del pensiero di Lonzi sui quali vorrei soffermarmi cercando di dare il mio contributo:

a)   la dimensione del Tragico in cui la vita e l’esperienza di Lonzi si collocano

b)   la singolare posizione di Lonzi nei riguardi della psicanalisi in relazione alla pratica dell’autocoscienza da lei avviata,  successivamente evolutasi – o involutasi, a seconda dei punti di vista – in “pratica dell’inconscio” e trasformatasi,  alla fine degli anni ’70, in una “pratica del fare”e nella costruzione teorica di un Ordine materno.

L’orizzonte del Tragico che percorre, il testo di  Maria Livia dall’inizio alla fine, emerge chiaramente nel passaggio in cui si fa riferimento all’agonia” di Lonzi, alla sua “catastrofe interiore” che è, al tempo stesso, condizione di liberazione mentre nella relazione di Daniela questo stesso orizzonte emerge in due punti precisi: nel punto in cui si allude alla primogenitura definita come: “propria identità che si fonda sul rischio di vivere al limite perché fuori dai ruoli” e che mette Carla di fronte a un aut-aut, a dover scegliere fra “autenticità” e “realizzazione” nel mondo, e nelle due citazioni riportate in cui Lonzi si chiede:

Il mondo permette di non tradirmi? Che fare quindi se il mondo non vuole saperne di adeguarsi a me?

Il misconoscimento mi appariva come estrema salvaguardia: abbandonare era niente rispetto al dolore di tradire me stessa.

Vorrei approfittare dell’occasione fornitami da questi vostri lavori, per aggiungere qualcosa non tanto sul concetto di “primogenitura” astrattamente inteso, ma sull’esperienza di primogenitura vissuta da Lonzi, anima e corpo, dal mio particolare punto di osservazione interessato a ricostruire, a grandi linee, il suo pensiero sul rapporto fra la pratica dell’autocoscienza da lei inventata e la psicanalisi. Ritengo che la ricostruzione di tale rapporto e della sua evoluzione, sia oggi imprescindibile per chi considera utile reintrodurre tale pratica all’interno del femminismo. Una prima indicazione al riguardo ci viene dalla stessa Lonzi che descrivendo la sua singolare posizione, certamente asimmetrica, nel gruppo di Rivolta, afferma di non avere nessunissima intenzione di “diventare un Paio d’orecchie” come quelle appiccicate alla testa degli psicanalisti di “professione” che, aggiungo io, dopo aver costruito per anni le loro fortune sulla sofferenza femminile, hanno finito per allontanare molte donne dal femminismo e dalla politica integrandole in quello stesso sistema portatore delle loro “patologie”. La posizione di Lonzi all’interno del gruppo viene da lei così descritta:

 Sono relegata al ruolo di psicanalista non essendolo, Non sono una psicoterapeuta.

Mi sono svegliata, dopo una notte tranquilla, con dei pensieri sulla psicoanalisi. E’ vero che si tratta di una terapia e basta, e dà, al massimo, un individuo guarito, non liberato (…). E l’analista è un professionista non un poeta.

Gli analisti devono dunque essere poeti? C’è poi un passaggio, suggestivo e piuttosto singolare in cui l’inconscio – cui Lonzi fa spessissimo riferimento nel Diario – viene  evocato nei termini di una sfida:

Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più i bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli. Adesso ti sfido: vieni avanti, non ti resisto più, ti colgo al volo, non mi fai più paura. Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto.

Ma il passaggio più importante, quello che merita un di più di attenzione perché è lì che Lonzi esprime con chiarezza il suo pensiero sul rapporto fra psicanalisi e autocoscienza, è il seguente:

La psicanalisi serve a un certo stadio, posteriore all’autocoscienza, ma non ha senso come indicazione di una strada. L’autocoscienza porta alla scoperta dell’inconscio, e quindi provoca l’interesse spontaneo per la psicanalisi.

Che cosa possiamo ricavare  da queste parole?

a) che l’analisi serve, che ha una sua utilità, ma serve solo a un certo stadio e questo stadio è successivo all’autocoscienza considerata dunque come uno stadio preliminare;

b) che l’autocoscienza, essendo una pratica che porta inevitabilmente alla scoperta dell’inconscio, genera un interesse del tutto spontaneo e naturale per la psicanalisi.

Ora è chiaro, per chi abbia una conoscenza anche superficiale dei testi di Lonzi, che la psicanalisi  a cui lei pensa  – quella utile a portare eventualmente a compimento un processo autocoscienziale in precedenza avviato – è  la psicanalisi che non c’era e che non c’è. Non c’è ombra, nella visione di Lonzi – che pure era decisamente avversa e inaddomesticabile alla cultura delle dottrine dei padri, psicanalisi inclusa – di contrapposizione fra le due pratiche, ma circolarità potenziale: l’una (l’autocoscienza), attiva l’altra (la psicanalisi), l’altra (la psicanalisi) porta a compimento, per chi lo desideri, il lavoro iniziato dalla prima (l’autocoscienza). Si tratterà di vedere, allora, se, in quali forme e in quali tempi, “l’interesse spontaneo per la psicanalisi” mobilitato dalla pratica dell’autocoscienza possa essere gestito e giungere a compimento all’interno dei gruppi femministi, in un contesto dunque diverso dal setting tradizionale contemplato dai “padri2. La dimensione circolare del rapporto fra le due pratiche intravista da Lonzi non è tuttavia bastata a risolvere il rapporto di amore-odio del femminismo nei riguardi della psicanalisi e a evitare tentativi di opposizione, di sovrapposizioni confusive, di esclusioni e, soprattutto, di abusive sostituzioni, spesso operate all’interno di alcuni gruppi femministi  in cui alla relazione fra donne che funzionavano come “analiste del movimento” invece che a “esperti” del mestiere, sembrava essere la magica soluzione a ogni problema. Di ben altro si trattava nella visione di Lonzi, si trattava di riconoscere, nel rapporto fra autocoscienza e psicanalisi, due momenti diversi di un unico processo esistenziale, emotivo e cognitivo. Dall’autocoscienza alla psicanalisi, dunque, non c’è che un passo. Lonzi lo sa e lo dice, benché sia fuor di ogni dubbio che la psicanalisi da lei evocata, immaginata – e forse auspicata a eventuale completamento di un lavoro avviato dalla pratica autocoscienziale da lei inventata  – non era la psicanalisi dei Padri, non era quella di Freud, di Lacan o di Jung e non era nemmeno la sua “nuova” versione “femminista”, messa in atto da alcune donne attraverso la “pratica dell’inconscio”, una pratica che, una volta ritenuta esaurita e improduttiva la pratica autocoscienziale, faceva  affidamento sugli strumenti culturali presi a prestito dal setting analitico tradizionale. Il progetto di Lonzi non era questo, il suo progetto si chiamava Tabula rasa.

La psicanalisi cui Lonzi si riferisce è dunque la psicanalisi che in Italia non è mai nata. E’ “L’Altra” psicanalisi, quella che avrebbe potuto/dovuto nascere – al di fuori dalle scuole dei Padri – per iniziativa di psicanaliste-donne-femministe e sulle ragioni della cui inesistenza, ora come allora, né il femminismo né le psicanaliste si sono mai interrogate a sufficienza. A proposito di questa idea di alcune di trasferire gli strumenti analitici all’interno del movimento delle donne, riprendo  alcuni commenti  significativi di Maria Luisa Boccia tratti da L’io in rivolta  da cui emerge  la diversa posizione di Lonzi:

Carla Lonzi considera rischioso assumere, come tali, dentro la pratica femminista le idee e gli strumenti della conoscenza maschile, anche perché in tal modo si alimenta l’illusione di aver preso la distanza dall’autorità patriarcale eliminando la presenza fisica dell’uomo.

La pratica dell’inconscio introduce ad esempio gli strumenti della psicoanalisi nei gruppi, ritenendo che il contesto inedito rappresentato dalla relazione tra donne (…) ne mutino profondamente l’uso stesso ed i risultati. Con il ricorso agli strumenti culturali esistenti la ricerca di un modo differente di pensare viene dunque accantonata.

E a proposito dell’uso degli strumenti culturali ecco che cosa ne pensava Lonzi:

Chi ha detto che la cultura è una meta sublime?
È la meta sublime dell’autodistruzione
Acculturandoti hai aderito senza riserve a una richiesta che ti esclude.

Lonzi  parla delle necessità di  “duplicare la coscienza” del mondo ma per lei “duplicare la coscienza del mondo non è “significare la differenza” ma pensare differentemente, stare su “un altro piano”. E pensare differentemente significa, per lei fare tabula rasa dei miti:

Le femministe che si affannano a dimostrare l’utilità della psicoanalisi per la liberazione delle donne (…) traggono questa preoccupazione da un’identificazione culturale (…). Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula rasa delle idee ricevute, una tabula rasa dentro di me per privarmi della garanzie offerte dalla cultura, convinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante (…). L’autenticità di questi testi è che riposano su un vissuto (…) e dunque ho affermato tutto sul vuoto (…) su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore (…). Autocoscienza dunque come tabula rasa dei miti.

La nascita della “donna a soggetto” – quel Soggetto donna che l’ordine simbolico esclude da sé e include come Soggetto neutro maschile – è dunque possibile, ma lo è, per Lonzi, non attraverso la psicanalisi inventata dai Padri – che poeti non sono – le loro astruse teorie sulla donna e la presa in prestito dei loro strumenti teorici, ma attraverso l’esperienza del Femminismo e della pratica autocoscienziale da lei inventata assieme ad altre donne che, come ricorda Maria Livia, diventa una modalità di “cura”. Si tratta di una pratica che pur con i limiti da lei stessa riconosciuti, realizza:

una sorta di analisi interminabile, che produce via via lo scavo verso di sé e insieme l’accumulo fuori di sé, nel doppio movimento della coscienza. (Boccia)

Testimoniare di un passaggio, “essere lo strumento di liberazione di un’altra”. Si riscontrano tuttavia in enunciati di Lonzi come questi – e in moltissimi altri disseminati qua e in là nel Diario – profonde affinità con quelle che vengono solitamente indicate come le “posizioni, le “funzioni” e le “attribuzioni” (di sapere) che entrano in giuoco nel setting, in una relazione analitica fra due soggetti. In ogni caso, comunque la si pensi in proposito e quale che sia il valore e l’importanza che vogliamo riconoscere alla particolare “posizione” e “funzione” di Lonzi all’interno del gruppo di Rivolta, certo è che non possiamo ignorare né sottovalutare, in tutta la faccenda, l’importanza della sua primogenitura, il fatto – davvero strabiliante – che Lonzi sia giunta al punto di paragonare il suo rapporto con Sara a quello di Freud con Fliess. Né possiamo ignorare che lei, di fatto, volendolo o no sapendolo o no (come si evince da alcuni passaggi del Diario “Sono relegata al ruolo di psicanalista non essendolo”, “Non sono una psicoterapeuta”), si sia posta, con un atto di autorizzazione da sé e di sé maturato attraverso la propria autoanalisi, in una posizione analitica funzionale alla nascita di quell’humus fertile che avrebbe poi favorito, con tutte le contraddizioni e i risvolti negativi connessi, l’accesso di molte donne a dei percorsi analitici posteriori all’esperienza dell’autocoscienza, attivando in loro, con loro e attraverso di loro in se stessa, dei processi inconsci la cui “gestione”, proprio a causa di questa sua complessa posizione “analitica”, risulterà estremamente difficile.

Lonzi, insomma, senza saperlo e senza volerlo, con l’invenzione della pratica autocoscienziale, ha messo in moto, come Freud, l’Inferno: “Si Superos flectere nequeo, Acheronta movebo” e facilitando involontariamente l’accesso delle donne alla psicanalisi dei Padri, ha fatto l’ultima cosa che avrebbe voluto. I riferimenti di Lonzi alla psicanalisi, ai suoi concetti e al setting (transfert e controtransfert, inconscio, identificazione, pulsione, “sedute”) e a un certo numero di psicanalisti/e (Freud, Jung, Kristeva, Groddreck, Klein e persino Lacan), sono davvero molti nel Diario e il suo sguardo interessato a questa disciplina contribuisce a collocarla, all’interno del gruppo di Rivolta e del femminismo italiano, in una posizione carismatica del tutto asimmetrica, in una posizione di “primogenitura”, di soggetto investito di una “rivelazione”, di una “missione” non esente, inizialmente – come lei stessa ammetterà più tardi, – da un certo “fanatismo” di cui era perfettamente consapevole. Lonzi era una che credeva in una possibilità e la faceva esistere nonostante sapesse bene, che “Il profeta è solo e alla fine è beffato”. E lo sarà.   Sono un “santo” o un “buffone”?  –  si chiedeva Nietzsche.
Guarigione non è liberazione, tra l’una e l’altra ce ne corre – anche questo lei sapeva.

Lonzi non crede tuttavia – e come darle torto? – che il senso della sua invenzione sia stato davvero compreso da parte del femminismo ed esprime il suo dubbio  così:

Chi ha detto che l’autocoscienza è quella?”
Quella è una pantomima per i fessi
Sarebbe finita prima di cominciare
È dilagata nei fraintendimenti
È diventata aria fritta
Non parlare con me se hai «fatto autocoscienza»
L’autocoscienza è l’altra

Queste parole, col titolo Secondo Manifesto di Rivolta Femminile: io dico io, si trovano nell’Introduzione  a La presenza dell’uomo nel femminismo di Marta Lonzi, Anna Jacquinta, Carla Lonzi. – Scritti di Rivolta Femminile – 1978. Qual è dunque “l’altra” autocoscienza? Quella che non è “aria fritta” o “pantomima” per i fessi? E’ questa una domanda fondamentale per le donne che intendono oggi riproporla oggi pratica e che sanno che, per farla davvero esistere, non basta nominarla. Non è stata forse proprio l’idea che di “aria fritta” si trattasse, a far sì che in passato fosse considerata una “pratica a termine” da abbandonare e misconoscere?

E se nel ’90 il misconoscimento di una parte del Femminismo nei riguardi della pratica dell’autocoscienza di Lonzi era già percepibile, se il riconoscimento a Lonzi fu dato da Diotima solo “a mero titolo di esemplarità” soprattutto se confrontato con quello assegnato a Irigaray, a vent’anni e più di distanza, non è forse superfluo interrogarsi, su che cosa vive, oggi, di quel percorso autocoscienziale e/o di altre pratiche affini, nella formazione personale e politica delle donne indirizzata a una nuova “politica delle donne”? Che ne è stato ne è di una delle due anime del Femminismo? E’ stato risolto il dilemma fra “fedeltà a se stessa” e “forza sociale”? E’ riuscito quel ricongiungimento attraverso lo sbocco della prima via, quella che ha scavato nella profondità dell’inconscio e della mente femminile, nella produzione di un simbolico in grado di fornire all’agire femminile, sociale e pubblico, i referenti necessari per incidere non solo nell’immediato, ma anche, più durevolmente, nell’universo delle mediazioni? (Boccia)

Era il 1990 quando Maria Luisa Boccia, nella sua Introduzione a L’Io in rivolta, avvertendo già allora, con grande anticipo sui tempi, i “vuoti” che si sarebbero spalancati una volta abbandonata la pratica autocoscienziale, “la pianta” da cui sarebbero nati i frutti tardivi, scriveva:

Rileggere dunque, con occhi resi attenti dalle più recenti e mature elaborazioni, i testi dell’autocoscienza consente di cogliere meglio a quali “pieni”, prodotti da quella pratica, oggi corrispondano invece dei vuoti (…). Mentre in molti casi il germe gettato ha lavorato a lungo sottoterra per mettere radici, vi sono stati casi (…) nei quali la pianta è cresciuta e ha dato rapidamente i suoi frutti. Molti di questi frutti sono stati raccolti tardivamente e acquisiti come un prodotto comune, misconoscendo la pianta che li ha generati, come è regola quando il frutto si distacca e ritorna e ritorna alla terra.

Il misconoscimento della pianta che ha generato i frutti si riconosce e parla la sua nuova lingua in quella politica delle donne che a metà degli anni ’70 muta decisamente rotta. A partire dal ’76 l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio vengono sostituite dalla “pratica del fare” e sarà nello stesso anno che il Convegno di Paestum segnerà il suo clamoroso fallimento.

E qui mi fermo per ritornare brevemente sullo scritto di Maria Livia che ben evidenzia, come dicevo, la posizione tragica di Lonzi che resta la posizione di ogni donna quando scrive:

Il mito del femminismo, alla fine non viene salvato: la liberazione non apre su un Eden, su un’armonia, su una soluzione dei rapporti umani (…). Liberarsi definitivamente dal mito diventa allora una necessità.

E questa liberazione  dal mito trova qui finalmente le parole per dirsi:

Liberata dall’idea di dover portare la mia barca in un porto, liberata dal bisogno di giustificarmi e giustificare la vita ai miei occhi, liberata dalla speranza che qualcosa cambi, che migliori, che sia la vera vita, liberata dal ruolo materno femminile, liberata dal sospetto di avere creduto per mancanza di fede o per stupidità, liberata dal volere dimostrare che “è possibile” essendo donna, liberata dall’avere qualcosa da salvare, liberata dall’idea che dipenda da me, liberata dalla paura di non potere tornare indietro, liberata dal terrore di “vedere com’è e non poterlo dire”, liberata dall’attaccamento al dire, liberata dall’interdetto al fare, liberata dall’ipotesi che ci sia una strada, liberata dallo smacco di non potere mantenere, liberata dal negare che è stato tutto invano, liberata dall’ottimismo, liberata dal disfattismo, liberata dal confronto, dallo svantaggio, dalle profezie, liberata dall’inutile orgoglio, liberata dall’inutile vergogna.

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