A proposito dell’ “Uomo senza inconscio”

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A proposito dell’ ’Uomo senza inconscio” (Recalcati) 

pubblicato in data 8 Luglio 2010 ne IL PAESE DELLE DONNE 

Sembra che nulla interessi né delle donne né del loro inconscio, allo psicanalista autore di un libro di recente pubblicazione nel cui titolo, L’Uomo senza inconscio, l’esistenza del genere femminile viene “dialetticamente” sussunta – come dire cancellata – nel maschile-singolare neutro-universale. E la discriminazione è già all’opera nella lingua…

Confesso che per questa e altre profonde ragioni inerenti la sua produzione dottrinaria – impegnata, in larghissima misura, a veicolare l’idea di una vocazione tutta femminile alla patologia – la presenza dell’autore di questo libro, e di altri simili, all’incontro Identità in gioco: confini del desiderio, organizzato da alcune donne, mi ha lasciata davvero stupita.

Che ci fa costui – mi sono chiesta alla Casa Internazionale delle donne? Forse che le donne – proprio come alcune femministe lacaniane straniere (Mitchell, Rose) – ci cascano ancora sulla favola del pene che, riconosciuto nel suo valore di significante, cambia strategicamente funzione e diventa fallo (significante della mancanza), prestandosi così ad azzerare ogni differenza di genere, neutralizzata da quella comune “mancanza a essere” che il linguaggio, indipendentemente dal sesso, crea in ogni soggetto parlante?

Eliminare dalla psicanalisi ogni residuo sospetto di fallocentrismo, rimediare allo “scandalo” della teoria freudiana e tacitare al tempo stesso le donne conquistandone il favore dal momento che, si sa, la psicanalisi deve loro tutto: ecco il colpo di “genio” di Lacan e della sua dottrina sul fallo-pene su cui i/le seguaci continuano a battere il chiodo non riuscendo più a convincere neppure se stessi/e. L’informazione sull’incontro mi giunge da Il Paese delle donne giusto quando, più infastidita che sorpresa, avevo da poco letto e proposto al Gruppo di Studio e Ricerca di OIKOS-BIOS (Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere), di commentare il libro di cui sopra – l’ennesima riedizione, con qualche impercettibile variante, di una vecchissima musica a me familiare.

Un libro dal quale, al di là del vizio universalistico presente nel titolo e nonostante gli encomiabili sforzi dell’’autore di defallicizzazione della teoria, la posizione del nostro “lacaniano” nei riguardi delle donne in nulla si discosta, nella sostanza, da una visione di chiara marca maschiocentrica. Del resto, per tornare alla dialettica di cui sopra, la vocazione hegeliana della psicanalisi lacaniana non è mai stata un mistero, con buona pace di Arendt – che pure “femminista” ed hegeliana non era – e delle sue inimitabili pagine sulla Pluralità degli uomini e… delle donne – aggiungerei – che abitano la Terra. Ma la lingua non mente e tradisce l’autore che, a differenza di altri uomini, l’inconscio forse ce l’ha…nonostante Freud non ne abbia mai decretato l’esistenza considerandolo, più ragionevolmente, un’”ipotesi”: un concetto limite fra lo psichico e il somatico.

Eppure, e in modo del tutto paradossale, a smentire il disinteresse dell’autore per l’inconscio femminile evidenziando, nel contempo, la sua incontenibile attrazione per il genere femmina, è proprio il libro stesso: un concentrato di cupidigia per “disagi” e “patologie” femminili – assemblate ed esibite nel testo, tramite una numerazione ossessiva e ossessivamente ripetuta, qui come altrove, con le stesse identiche parole, un’infinità di volte – da diventare tremendamente sospetto…Si assiste, in questo come in altre produzioni del medesimo, a un vero e proprio bombardamento “mediatico”, a una strategia mirata a fare della condizione femminile il luogo per eccellenza della “malattia”, verso cui la mente di lettori e lettrici viene abilmente trascinata a tutto vantaggio dell’oscuramento del genere maschio e delle sue patologie. Una passione sfrenata e sospetta per: anoressiche, bulimiche, panicate, alcoliste, drogate, donne soggette a tagli, piercing, depilazioni dolorose, operazioni chirurgiche, donne maltrattanti i bambini, donne che effettuano passaggi all’atto uxoricidi (!), depresse, isteriche, attraversa questo libro, come altri. Nessuno sconto alle donne e, per via della par condicio, nessuno sconto può essere concesso all’autore per l’uso improprio, peraltro, del termine “uxoricidio” che, riferito a donne che uccidono i propri mariti, rivela uno smarrimento etimologico – e di realtà – che solo una foga classificatoria riesce a malapena a spiegare…

Ci sono proprio tutte, insomma, allineate in fila e in bella mostra, le “patologie” femminili che, a cominciare da Freud, hanno sempre nutrito la psicanalisi e continuano ad alimentare psicologi/ghe e psicoterapeuti/e che sui disastri prodotti dal sistema di pensiero androfallocentrico sulle vite di donne e uomini – di cui stiamo raccogliendo gli esiti fatali – non hanno mai scritto una sola parola degna di nota. Lo ha fatto, invece, di recente, Stefano Ciccone con Essere maschi tra potere e libertà, un libro coraggioso in cui i criteri di costruzione della mascolinità e “la miseria del maschile” vengono impietosamente vivisezionati e analizzati in riferimento a diversi ambiti disciplinari – storia, sociologia, antropologia, psicologia – da un uomo, a partire dalla propria esperienza di essere maschio. Un po’ di aggiornamento, una modifica radicale ai criteri di “formazione” degli psicanalisti – e psicanaliste addestrate all’interno di Istituzioni di stampo Paterno – un orecchio attento e qualche lettura a tempo perso alla straordinaria produzione filosofica e politica elaborata dal pensiero femminile e femminista, nazionale e internazionale negli ultimi trent’anni, qualche conoscenza antropologica e filosofica non accademica in più, non farebbe male ad alcuni/e di loro, incapaci di scrollarsi di dosso la muffa che li/le fa rimbalzare insoddisfatti/e fra pene e fallo, fra avere ed essere il fallo, fra fallo e Nome del Padre, fra tutto e non-tutto, fra al di qua e al di là del fallo, fra godimenti fallici maschili, – segnati, dice il nostro autore, da idiozia ed ebetudine – e godimenti femminili spudorati, mistici, al di là del fallo…. di cui le donne nulla saprebbero…Senza contare l’insistenza – una vera e propria ossessione – sulla necessità della funzione Terza del Padre, la faccia ripartiva di quella precarietà della virilità cui allude Ciccone nel suo libro. Tralascio volutamente alcuni importanti aspetti teorici introdotti dall’ultimo Lacan (la pluralizzazione de Il Nome del Padre ne I Nomi del Padre, il Padre come sogno di Freud, il Padre morto), che tuttavia non intaccano, nella sostanza, la connivenza fra il pensiero psicanalitico e il paradigma di pensiero androcentrico proprio della filosofia occidentale.

A dire il vero, uno sguardo approssimativo al pensiero di qualche filosofa eccellente il nostro autore si è degnato di darlo, consapevole, forse, che la psicanalisi – se non è già morta – sta morendo d’ ignavia non solo per via del trionfo delle psicoterapie d’adattamento ma anche per quella miseria del maschile così crudamente descritta da Ciccone nei suoi diversi aspetti e di cui questo libro – spiace davvero constatarlo – è una delle tante declinazioni commerciali: un esempio preclaro di come i “lacaniani” continuino a vedere gli alberi senza vedere la foresta (S. Benvenuto), senza vedere che la malattia da “curare” è un sistema di pensiero misogeno che, da Platone fino a Hegel, attraversa da cima a fondo i nostri saperi e la nostra “civiltà”. Così a una stella di grandezza internazionale come Judith Butler che del pensiero di Lacan, “fraintenderebbe”, a detta dell’autore, quasi Tutto – il simbolico, la funzione fallica – viene riservata, altrove, un’Appendice in cui la filosofa americana è paterna(listica)mente invitata a teorizzare non contro Lacan”, ma con Lacan. Trascurando il rituale rimprovero alla contrapposizione rivolto, questa volta, a Butler – declassata al rango di “allieva” di turno che da lui avrebbe tutto da imparare – non stupisce affatto che uno che si prende la briga di scrivere un libro dichiarando apertamente di farlo “per amore di Lacan”, sia animato da una passione un tantino idolatra inevitabilmente imparentata con un’ intolleranza irriducibile nei confronti di chiunque osi sollevare, nei riguardi dell’idolo di turno, una qualche critica.

Ma ad abbattersi sulla serietà e credibilità della critica rivolta da Judith a Lacan – i cui rilievi nei riguardi del fallocentrismo lacaniano sono quanto mai acuti e pertinenti – ci sono anche gli “equivoci madornali” in cui Butler, suo malgrado, precipiterebbe: la nostra filosofa sarebbe “vittima”, infatti, “di una “fascinazione immaginaria del fallo” mostrando così di essere una gran pasticciona, incapace di distinguere fallo immaginario e fallo simbolico e incapace di darsi pace e di prendere atto, una buona volta, che il fallo con il pene non c’entra assolutamente nulla!… A smentire clamorosamente l’enfatizzata distinzione, è un passo di Lacan – mai visto citato in tanti anni di letture – in cui l’ uso di un termine al posto dell’altro è palese:

Il fallo non ha per una buona ragione lo stesso valore per colui che realmente possiede il fallo, cioè il maschietto e per il bambino che non lo possiede, cioè la femminuccia…

Il fallo, è evidente, non lo possiede nessuno, maschio o femmina che sia. In realtà, spiega pazientemente l’autore nel suo libro, il “fallo” non sarebbe altro che “il significante dell’evento stesso del significante, il significante dell’operazione significante come tale” e, come tale, “implica un annullamento dell’organo, una sua negativizzazione (il fallo è l’assenza della cosa)”. Così il fallo, da quell’indiscusso simbolo di potenza che fu in origine per gli antichi e che mai ha cessato di essere, diventa un “ingombro” portatore di “ebetudine” e di “idiozia”. Non si può certo negare che in questa svalutazione strategicamente denigratoria del fallo non ci sia del vero: che nel patriarcato potenza e dominio viaggino all’unisono con idiozia ed ebetudine, alle donne è chiaro da tanto tempo. Sorvolando sullo stile “lacanese”, davvero brutto, per la verità, e mi scuso, – va ricordato, per inciso, che a ironizzare pesantemente su certi farfugliamenti teorici e linguistici dei suoi allievi, fu proprio lo stesso Lacan, ciò che all’autore preme mettere in circolazione per delle ragioni che dovrebbero essere ormai evidenti, è l’idea di un “fallo” talmente depotenziato, da sottrarre la psicanalisi a ogni possibile sospetto, da parte delle donne, di collusione fra questa pratica e una visione maschilista del mondo. Operazione destinata al fallimento perché, come ci ricorda Cavarero:

Non si esce da un pensiero semplicemente pensando di uscirne, almeno finché quel pensiero dell’uscita si struttura sulle medesime categorie del pensiero dal quale vuole uscire.

Ebbene, la sensazione che si ha nel leggere questo libro è esattamente quella che si prova quando, si ha di fronte una persona che si dibatte intrappolata dentro un sintomo dal quale non vede via d’uscita. Così il fallo, pur essendo, “per un verso” – scrive l’autore del libro – “sempre al femminile”, resta un “ingombro” da cui le donne, più fortunate, sarebbero salve, non ingombrate, e tuttavia, essendo “afflitte”, loro malgrado, da un “meno fallico”, da una “castrazione” la cui traccia “reale” “sarebbe scritta anatomicamente sul proprio corpo”, questo ingombro lo vanno cercando, a tutto scapito degli affetti alla cura dei quali le missionarie dell’amore, vengono richiamate:

L’intruppamento femminile attuale sul lato della sessuazione maschile sembra ridurre questa importanza dell’amore. Tuttavia, quello che lo psicanalista può notare è che il prezzo dell’ affermazione fallica a cui molte donne sembrano votarsi è una delle ragioni che spiegano la diffusione crescente della depressione femminile.

“Lo psicanalista”: Maschile Singolare… Le donne sono dunque depresse perché – baionetta in spalla – vogliono intrupparsi nell’esercito dei maschi e imitarli in tutto e per tutto, diventando proprio come loro. Neppure qui manca un grano di vero: se è indubbio, infatti, che l’appropriazione da parte delle donne di modelli di comportamento maschio rappresenta la testimonianza più convincente della vittoria del patriarcato, è altrettanto vero che a pagare il prezzo di questa identificazione sono le stesse donne. Quel che l’autore non vede, per via di una prospettiva ridotta che gli impedisce di guardare alla complessità della condizione femminile, è, per dirla ancora con le parole di Benvenuto, la foresta. Quello che non vede è lo sfondo, il contesto che fa sì che in un ordine simbolico in cui esiste un unico simbolo – il fallo-pene per l’appunto – a rappresentare due sessi, non c’è altro modo per le donne di esistere e di contare simbolicamente, se non identificandosi con l’uomo. A sostenerlo, del resto, in riferimento all’’isteria, fu Lacan in persona, Come dire che l’ omologazione al maschile da parte delle donne – e la depressione che secondo l’autore ne conseguirebbe – è, purtroppo, la condizione obbligata e richiesta da questo ordinamento simbolico per avere accesso agli spazi pubblici e di potere.

Ciò significa che per “curare” le depressioni femminili e, più in generale, le altre forme di sofferenza, occorre “curare”, ossia trasformare, un ordine-disordine simbolico costruito a misura d’uomo: un ordinamento che se mortifica le donne impedendo loro tali accessi, fagocita nei maschi – cui spazi pubblici e potere sono invece riservati – una violenza in genere e di genere dai danni incalcolabili. Ma tutto questo non preoccupa, a quanto pare, il nostro autore il quale invece che prendere atto degli effetti disastrosi, sulle nostre vite, dell’ossessione maschile di “affermazione fallica” – guerre, fondamentalismi, razzismi, stragi di donne, di mafia, di strada, di sport, di immigrati/e e diversi/, derive economiche, politiche, ambientali e quant’altro – si concentra sugli effetti depressivi della “affermazione fallica” sulle donne “intruppate”.

Che cosa lo spinge – vien da chiedersi leggendo certe pagine – a rivolgere la sua attenzione alle “malattie” delle donne che vogliono fare gli uomini e a evitare di occuparsi per via diretta delle patologie degli uomini che vogliono fare gli uomini? Che cosa spinge il nostro psicanalista a prendere questa via traversa, questa scorciatoia che persino a un lettore/lettrice medio/a e distratto/a, risulta tanto bizzarra quanto logicamente insensata? Una risposta forse c’è: il setting è un luogo frequentato in larghissima maggioranza da donne e non c’è motivo di credere che gli uomini abbiano qualche ragione per farlo fintanto che i loro disagi, nascosti e misconosciuti innanzi tutto a loro stessi, continueranno a resistere, a moltiplicarsi, a diffondersi e a provocare, se possibile, ulteriori danni grazie alla complicità e alla protezione di coloro che fintamente interessati/e alla polis e ai “legami sociali” e politicamente sensibili sulla carta, dovrebbero essere i primi/le prime, a contrastare un sistema di pensiero strutturalmente suicidario. A dircene, come meglio non si potrebbe, è stato Jean Baudrillard. Suicidario, sì, ed questa è una ragione di più per interrogarsi – come non mi stanco di fare – sulla differente incidenza delle pulsione di morte nell’uomo e nella donna.

E, ora, per finire, alcune domande:

Siamo davvero sicuri/e che quei maschi che iniziano dei percorsi analitici per fare gli psicanalisti e per “prendersi cura” di uomini e donne, ne escano davvero defallicizzati e liberi da quell’”ingombro” che da sempre ingombra la teoria che imparano e che continuano a trasmettere, indisturbati, di Padre in figli/e?

Siamo sicuri/e che “essere il fallo”,  essere “oggetto del desiderio dell’uomo” rinunciando ad averlo – come recita la teoria – consenta alle donne di uscire dalla depressione e di essere dunque dei soggetti desideranti? Colette Soler, nel riprendere questo punto cruciale della dottrina nel suo libro Quel che Lacan diceva delle donne, riconosce, con grande onestà, che la fine di un’analisi “lacaniana” per una donna si riduce proprio a questo:

Lacan, con un leggero scarto mette in rilievo che (…) la mancanza fallica della donna si trova convertita in un beneficio di essere il fallo ovvero ciò che manca all’Altro. Questo “essere il fallo” designa la donna, in quanto, nel rapporto sessuato, è chiamata in causa al posto dell’oggetto. Nell’amore, grazie al desiderio del partner, la mancanza si converte in un effetto d’essere che è quasi compensatorio: ella diviene ciò che non ha: Come dire che, già in questi anni, la mancanza si trova positivizzata.

Ma, lungi dal considerare un “beneficio” questa trovata teorica di Lacan, si chiede se essere un fallo per qualcuno possa essere davvero, per una donna,  fonte di gratificazione:

(… ) Ella non è il fallo se non a livello della sua relazione con l’uomo. E’ sempre per un altro, mai in sé, che si può essere il fallo, cosa che ci riporta al suo essere partner dell’uomo (…). La formulazione di Lacan mantiene una definizione dell’essere femminile che passa per la mediazione obbligata dell’altro sesso.

Tale “mediazione” non cambia nelle successive formule lacaniane che definiscono sempre e comunque la donna in relazione all’uomo (fallo, oggetto, sintomo) e nulla dicono del suo possibile essere in sé. Non stupisce quindi che tutto ciò che si dice della donna si enunci dal punto di vista dell’Altro e concerna più la sua apparenza che il suo proprio essere, restando quest’ultimo  un elemento “precluso” dal discorso. Già, precluso, a quanto pare, anche dal famoso discorso dello psicanalista, che – a dar retta alla teoria – dovrebbe differire radicalmente da quello del Padrone…C’è di meglio da leggere che libri di questo genere anche se sono consapevole di aver contribuito, mio malgrado, alla sua pubblicità. Poco male, il male vero, è che in questo nostro incredibile paese, le psicanaliste femmine e “femministe” – per via degli effetti rigorosamente maschilisti e tutt’altro che neutri della loro “formazione” – sono pressoché inesistenti.

Forse è tempo, per la psicanalisi, di fare quello che ha da sempre evitato: confrontarsi con il pensiero filosofico e politico delle donne dal quale può attingere quella ricchezza necessaria per uscire dalla “miseria” di una teoria e di una pratica sempre più attorcigliate su se stesse e sempre più inattuali per una serie di ragioni prima fra tutte l’ incapacità di uscire dall’individuale per stabilire delle connessioni reali fra la sfera della singolarità e la sfera del sociale e del “politico” arendtianamente inteso. E’ tempo, forse, per le donne che operano all’interno di questa disciplina di avviare, nei riguardi della sua teoria e della sua pratica, quel lavoro esemplare e radicale di decostruzione critica che alcune grandi filosofe, psicanaliste e teoriche della politica – Zambrano, Weil, Irigaray, Cavarero, Braidotti, Butler, per ricordarne solo alcune – hanno da tempo attuato nei riguardi della filosofia accademica e della politica.

E’ possibile dunque costruire una politica di trasformazione che non si misuri con una critica ai modelli di mascolinità? Credo di no. E questo vale anche e direi soprattutto per la psicanalisi. La necessità di aprire una riflessione sul maschile e di agire un conflitto esplicito al suo interno sono insomma questioni centrali per la politica e per la cultura, pena il ripiegamento di ogni tensione di trasformazione in forme subalterne ed emendative. Questa la via suggerita da Ciccone in Essere maschi. Tra potere e libertà, un libro da leggere, e chissà che un giorno o l’altro non siano i “curatori d’anime” a sorprenderci uscendo finalmente dal privato dei loro studi per assumersi pubblicamente e politicamente, come hanno fatto altri uomini, la responsabilità storica di quanto sta avvenendo attorno a noi. Avremo allora la possibilità di credere che certi richiami rituali, da parte di alcuni psicanalisti, all’importanza dei “legami sociali”  siano qualcosa di più che millanteria.

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