AUTOCOSCIENZA come “RESISTENZA”

di Paola Zaretti /Autocoscienza come “resistenza”

Fuoco

Chi ha detto che l’autocoscienza è quella?

Quella è una pantomima per i fessi

Sarebbe finita prima di cominciare

E’ dilagata nei fraintendimenti

E’ diventata aria fritta

Non parlare con me

se  hai “fatto autocoscienza”.

E’ l’indignata descrizione di Lonzi di che cos’è l’autocoscienza come “resistenza”.

E se la pratica dell’Autocoscienza fosse diventata per molte donne negli anni ’70, – malgrado Lonzi, al di là del suo desiderio e delle sue migliori intenzioni – una scorciatoia, una via traversa, una forma di resistenza e di fuga dall’acquisizione profonda di quella coscienza di sé di cui il “partire da sé” è condizione prima e ineludibile?

Se l’ Autocoscienza fosse una delle molteplici forme in cui la resistenza ha trovato modo di mascherarsi?  Se fosse  la  maschera meglio riuscita di resistenza-rifiuto a fare i conti con il proprio inconscio?

E se si fosse trattato per molte donne, non già  – com’era per Lonzi – di quella legittima e comprensibile resistenza motivata dal rigetto di una disciplina – la psicanalisi –  giustamente ritenuta complice della cultura patriarcale, ma di qualcosa di più radicale e profondo su cui dovremmo indagare?

Sono parole durissime, parole d’indignazione quelle con cui Lonzi  metteva in guardia, già allora, negli anni ’70, dai rischi di fraintendimento cui la pratica autocoscienziale – un’esperienza da lei tragicamente vissuta fino al “rischio di perdere la ragione” – può dar luogo diventando “aria fritta”, o “pantomima per i fessi”. Che oggi sia diventata aria fritta è un fatto. E c’è da dubitare che qualcosa possa cambiare fintanto che si continuerà a nominare questa pratica – da tempo abbandonata come “pratica a termine” – ignorando, sottovalutando o misconoscendo la sua intima e imprescindibile connessione con l’inconscio.

Mi sembrava che se non avessimo tenuto conto dell’inconscio, presto avremo navigato in pieno delirio. (Antoniette Fouque)

Lo sapeva bene e  scriveva così, in tempi non sospetti, Anoniette Fouque, una psicanalista francese la cui influenza sul femminismo italiano è nota e per la quale tenere conto dell’inconscio sarebbe stato il solo modo, per il femminismo, di evitare il delirio. Come dire che dal misconoscimento dell’inconscio al delirio il passo è  breve. Questioni come queste si potrebbero anche considerare definitivamente archiviate se non fosse che la necessità di rimetterle al centro dell’attenzione nasce, oltre che da un’esigenza di natura etica, da una serie di osservazioni sul campo e da dati esperienziali che confermano la possibile presenza, non solo nei luoghi del maschile ma anche all’interno dello stesso femminismo, di una particolare tipologia  di soggetti che risultano assolutamente refrattari e impermeabili a ogni lavoro su di sé finalizzato all’acquisizione di quella “coscienza di sé” inaugurata dalla pratica autocoscienziale  pensata da Lonzi.   Che della centralità  dell’inconscio non si possa non tener conto sia nel lavoro del setting analitico che nella pratica autocoscienziale, è un fatto ed è detto a chiare lettere non solo da Fouque ma, come vedremo fra pochissimo, dalla stessa Lonzi. Quanto ai rischi di spalancare le porte al delirio, credo che tenerne conto sarebbe quantomeno prudente.

Per condividere alcune riflessioni sul pensiero di Carla Lonzi proprio in merito all’autocoscienza e al suo legame con l’inconscio, mi sono lasciata guidare da un passo di Maria Zambrano:

Ciecamente la vita continua a generare esseri che chiedono di vedere. Alcuni tra quelli riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarsi, né bruciare.

Lonzi è stata uno di quegli esseri che è riuscita a crearsi le proprie luci bruciandosi. Voler vedere, voler sapere è, in fondo, un atto di Hybris che richiede un coraggio e una forza non comuni, condensati in due sole parole: Tabula rasa:

Questo vuoto ognuna è sola nell’affrontarlo, nel misurarlo: è appena sopportabile. È il rischio di perdere la ragione. (Itinerario di riflessioni)

Nientedimeno. Se non si coglie fino in fondo il significato di questo gesto di coraggio e la sua originaria matrice  – una crisi, un terremoto che squassa, destabilizza e spazza via di colpo tutto ciò in cui fino a quel momento si è creduto e creduto di volere, tutto ciò che senza vivere si è vissuto credendo di vivere, si perde l’essenziale di una vita che è tutt’uno con la propria opera. C’è uno strappo, datato, una scossa violenta, nella vita di Lonzi, che irrimediabilmente spezza e separa un “prima” e un “dopo”. C’è una lacerazione a partire dalla quale tutto cambia, diviene e si trasforma, fuori e dentro e attorno, e niente, niente è, né potrà essere più come prima: il ritiro dalla sua professione di critico d’arte e dalla vita pubblica sono la viva e drammatica testimonianza di questo Incipit…tragoedia mi verrebbe da aggiungere pensando a Nietzsche. Carla Lonzi è una figura tragica e dimenticarlo non  rende giustizia alla sua vita e al suo pensiero. Tra quel “prima” e quel “dopo”, la lucida coscienza di essere vissuta fino a quel momento in una condizione di alienazione e di inautenticità permanente per via dell’adesione a certi modelli culturali e il desiderio di uscirne attraverso il femminismo e l’autocoscienza individuati come la sola strada possibile, la sola via di salvezza:

Così sono arrivata al femminismo che é stata la mia festa, qualcuna doveva ben cominciare, e la sensazione che mi portavo addosso che, o lo facevo io o nessuno mi avrebbe salvato, ha operato in modo che l’ho fatto io. (Diario)

Si tratta dunque, per lei, di una questione di vita o di morte.

Queste poche note a margine del titolo Autcoscienza e resistenza, ci mettono già sulla via per intendere che l’autocoscienza non rappresentava per Lonzi una “resistenza” a un lavoro analitico su di sè, coraggioso e arrischiante come quello fatto da Freud con l’amico Fliess, a cui  lei paragona il suo con Sara. Non era dunque, la sua, una “resistenza” analiticamente intesa come impedimento a un lavoro su di sé “a partire da sé” – di cui il Diario  doloroamente e inequivocabilmente testimonia – ma una resistenza critica alla psicanalisi come disciplina, come “strumento culturale” di stampo patriarcale che non le ha tuttavia impedito di riconoscere l’importanza e la funzione decisiva dell’inconscio all’interno della stessa pratica di Autocoscienza:

L’autocoscienza porta alla scoperta dell’inconscio e provoca “l’interesse spontaneo per la psicanalisi. (Diario)

Se la posizione di Lonzi risulta chiara e ben definita, se è evidente che la sua resistenza non riguardava l’autocoscienza come ricerca analitica di un sapere di sé “a partire da sé” ma riguardava la psicanalisi come “strumento culturale”, generalizzare e attribuire questa sua singolarissima posizione a tante donne che in diverse città d’Italia partecipavano ai gruppi di autocoscienza, sarebbe, a suo stesso dire, azzardato: “Chi ha detto che l’autocoscienza è quella?” “E’ dilagata nei fraintendimenti” “E’ diventata aria fritta” – scrive indignata. Sono parole cruciali dalle tinte forti e senza sconti che inducono a pensare che nella pratica dell’autocoscienza intrapresa da molte donne non si trattasse, come per lei, di una “resistenza” alla psicanalisi dei padri ma, paradossalmente, di una resistenza dell’Autocoscienza a se stessa: tale pratica, infatti, portava non solo – come la pratica analitica – alla “scoperta dell’inconscio” ma anche, inevitabilmente, a conseguenze spesso dolorose e ingestibili nella vita di ciascuna. A farci da guida nell’ evidenziare e differenziare la posizione di Lonzi da quella di tutte le altre, è la sua primogenitura, sono lo strappo, la crisi, il terremoto che hanno contribuito a fare Tabula rasa di quel “prima” in direzione di quel “dopo” di cui s’è detto e che appartengono a quell’esperienza unica e irrepetibile che è la sua e di nessun’ altra:

Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula rasa delle idee ricevute, una tabula rasa dentro di me per privarmi della garanzie offerte dalla cultura, convinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante (…). L’autenticità di questi testi è che riposano su un vissuto (…) e dunque ho affermato tutto sul vuoto (…) su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore (…). Autocoscienza dunque come tabula rasa dei miti.

E’ uno scenario apocalittico quello descritto, in cui tutto, assieme ai miti, è raso al suolo, e non resta che un vuoto su cui riscrivere-risignificare se stessa, tracciando la propria storia. Così per Lonzi, ma per le altre? E’ plausibile pensare che l’Autocoscienza qui intesa  come “Tabula rasa dei miti”  e delle “garanzie offerte dalla cultura” sia stata utilizzata negli anni ‘70 da alcune come una forma di “resistenza” all’analisi di sé, come una fuga da quel sapere di sé “a partire da sé” che comporta lo svelamento dei propri processi inconsci? Una fuga involontariamente facilitata peraltro – e suo malgrado – dalla critica avanzata dalla stessa Lonzi  nei riguardi della psicanalisi, uno dei miti di cui fare Tabula rasa e il cui smantellamento in vista della nascita di una “coscienza collettiva femminile” è da lei  così descritto:

Il femminismo per la donna prende il posto della psicanalisi per l’uomo. In quest’ultima l’uomo trova i motivi che rendono inattaccabile e scientifica la sua supremazia (…) nel femminismo la donna trova la coscienza collettiva femminile che elabora i temi della sua liberazione”. (C. Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale).

La resistenza qui  espressa da Lonzi nei riguardi della psicanalisi, non ha nulla a che vedere con quella resistenza paradossale che è la “resistenza” dell’Autocoscienza a se medesima. Ci riferiamo soprattutto, nel provare a darne conto, a un particolare tipo di “resistenza” a intraprendere un lavoro su di sé – strutturalmente riscontrabile in alcune particolari tipologie sia femminili che maschili – la cui caratteristica consiste in una assoluta inaccessibilità, impermeabilità e refrattarietà sia a un percorso analitico che autocoscienziale. Detto altrimenti, ci sono dei soggetti per i quali il termine inanalizzabilità risulta appropriato per identificare, individuare, la condizione appena descritta. Si tratta, in genere, di persone del tutto refrattarie non solo al setting analitico – nel senso forte del termine, nel senso che non potrebbero intraprendere, senza rischi di scompensi destabilizzanti, un percorso d’analisi, – ma anche all’autocoscienza in cui si tratta, come nel setting, di dover fare i conti con il proprio inconscio, con le proprie pulsioni e con il transfert. Sono questi infatti, e non altri, gli “arnesi”, gli strumenti inequivocabilmente presenti nella pratica autcoscienziale con cui la stessa Lonzi operava e con cui non ha potuto evitare di confrontarsi e di scontrarsi lasciando, ben riconoscibili nel suo Diario, le impronte, spesso drammatiche, di tale confronto:

L’anno scorso pensavo di aver fatto del bene a me e alle altre, adesso pare che abbia fatto solo del male. Ieri ho ricevuto una lettera dove si dice: “Penso a te almeno una volta al giorno, ma non ti voglio bene”(…..). Adesso mi accusano anche di averci messo troppa intensità (…) ho dato agli altri il diritto di distruggermi. Lo stanno facendo, sono tutti una banda inferocita, hanno pale e picconi, vogliono il mio linciaggio.

Lonzi si è bruciata.  Anche se era una donna che chiedeva di “vedere”,  anche se era una che voleva crearsi le proprie luci senza bruciarsi e senza bruciare le altre.

Ci sono donne che, incapaci di fare dell’autocoscienza qualcosa di diverso da “una pantomima per i fessi” e di “vedere” ciò che lei ha visto, possono farsi luce solo bruciando.

Ciecamente la vita continua a generare esseri che chiedono di vedere. Alcuni tra quelli riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarsi, né bruciare.

2 risposte a “AUTOCOSCIENZA come “RESISTENZA”

  1. Io credo che il troppodetto ‘inconscio’ sia il punto cieco FRA la massa cangiante delle identificazioni su cui il singole trascorre nel tentativo inaccessibile di farne una sintesi, quindi una sorta di energia desiderante che vive del suo trascorrere da una immagine all’altra e la scia tracce.

  2. Bella la tua immagine poetica! ma l’inconscio, meno poeticamente parlando, è solo, volgarmente parlando, un “effetto di linguaggio”, per questo gli animali – non parlanti – ne sono privi, vale a dire che l’inconscio non ce l’hanno ma sono a stessi inconsci.

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