Attacco alle “vittime”

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di Paola Zaretti / Attacco alle “vittime”

E rieccoci…dentro. Ci risiamo. Dentro la solita maledetta trappola del “pro” e del “contro” che riguarda, stavolta, le donne vittime di violenza e le criticità inerenti l’ utilizzo della parola “vittima”. Come se di “difesa” o di “attacco” della/alla vittima in questo “pro” o  “contro” si trattasse, come se ad essere davvero in discussione fosse ciò che è, per certi aspetti, indiscutibile:  il dato di fatto che una donna stuprata, uccisa è e resta, comunemente parlando, una vittima di violenza o di assassinio.

Ma, detto questo, è possibile avanzare di qualche millimetro invece che restare inchiodate a un binarismo che nell’irrigidire e impoverire la discussione in opposizioni faziose e inesistenti finisce per oscurare la visione analitica di altri aspetti che solo l’abbandono e la decostruzione di certi schematismi rituali rende possibile? Quale sia il guadagno ricavabile da una coazione a ripetere instancabilmente lo stesso schema oppositivo e dall’ostinazione a rappresentare le donne  sempre e solo come vittime di un’oppressione, è fin troppo chiaro. Quasi che l’attenzione a una pluralità di orizzonti cognitivi e correlati di riferimento per un verso, e la presa di distanza da una visione puramente ideologica del problema per un altro, rappresentassero un attentato alle donne vittime di violenza.

Ci si chiede come sia possibile impostare produttivamente un ragionamento, come sia possibile avviare un confronto che sterile non sia, costruendo e diffondendo opposizioni inesistenti e infondate che alimentano fra le donne assurde logiche maschili di schieramento incentrate sul “pro” o “contro” le vittime”. Si può essere “contro” delle vittime? Si può essere “pro”’? E che cosa significa essere “pro”, essere “contro”? A complicare poi ulteriormente la questione del “pro” e “contro” e  delle dicotomie fra donne “forti” e donne “deboli”, fra le “vincenti” e le “perdenti”, ci mancava solo il concetto di autodeterminazione…da cui, proprio per posizionarci, vogliamo riprendere. (http://femminismoinstrada.altervista.org/autodeterminazione-e-forse-il-sognovecchio-e-moderno-dellautonomia-del-se-conversando-partire-da-altre-partire danoi/http://femminismoinstrada.altervista.org/liberata/)

La visione duale e oppositiva  donna “vittima”/donna “autodeterminata” declinata nelle sue varianti su tema: donna “perdente”/donna “vincente”, donna “fallita”/donna “riuscita”, donna “debole”/donna “forte” che tanto fa discutere di questi tempi è, assieme al bipolarismo vittima-carnefice cui direttamente si collega,  una visione inappartenente e lontana da quanto sinora pensato, detto e scritto dalle donne che hanno dato vita a Tabula rasa. Basti leggere, per averne conferma, alcune Conversazioni pubblicate nel blog in una delle quali, in particolare, il concetto di autodeterminazione viene indagato e sottoposto – con il prezioso ausilio dei contributi di pensiero di Cavarero e di Butler – a radicale revisione. Una revisione che dissuade dall’identificare erroneamente e grossolanamente l’autodeterminazione con la “forza”, con la “vittoria”, con la “riuscita” di una donna, trattandosi, piuttosto, di un concetto destinato a descrivere e incarnare  “le patologie egocentriche del soggetto moderno” – donne incluse. E’ possibile –  si chiede Cavarero – che il concetto di Autodeterminazione sia uno di quei concetti che rientra “nel sogno, vecchio e moderno, dell’autonomia del sé”?  E’ possibile che rappresenti e incarni, suo malgrado e forse a insaputa di tante che ne fanno uso, “le patologie egocentriche” del soggetto moderno e dell’ontologia individualista che “scambia le relazione per indistinzione e la dipendenza per incorporazione”? L’autodeterminazione, lungi dall’essere una “forza”, è dunque considerata da Cavarero una delle tante “patologie egocentriche” che la preoccupano ed è così che le descrive in un dialogo con Butler di cui si consiglia la lettura integrale:

Le patologie egocentriche del soggetto moderno, o se vuoi, dell’ontologia individualista, mi preoccupano molto di più delle sue ansie nei confronti dell’altro in quanto luogo di contaminazione, disfacimento dissoluzione. Perché, dal punto di vista della filosofia occidentale, se ci pensi bene, c’è appunto una certa logica nella follia di questo “soggetto” che, dopo secoli spesi a celebrare la sua autonomia e autopoiesi non appena scopre la dipendenza, viene colto dal timore di sparire nell’altro. (Cavarero, Dal Dialogo con Butler su Condizione umana contro natura).

Essendo dunque la categoria della dipendenza centrale e irrinunciabile  “per un’etica della relazione”, ne consegue la necessità di procedere alla decelebrazione della nozione di soggetto autonomo e autodeterminato e dunque del concetto stesso di autodeterminazione. Questa premessa e la critica preliminare a tale concetto, torna utile per definire, una volta di più, la nostra presa di distanza dai binarismi sopra menzionati e la collocazione di Tabula rasa al di fuori non solo del dualismo donna “vittima”/donna “autodeterminata” e dunque al di fuori  dall’opposizione fra un “femminismo vittimario” e un femminismo che fa della forza delle donne la propria bandiera (Cfr. Fire with fire di Naomi Wolf, 1993, uno dei testi fondanti di “critica alla vittima”), ma anche al di fuori dell’opposizione binaria ”vittima-carnefice” che tutte le comprende. E’ opportuno chiarirlo a seguito di un teorema in circolazione che recita più o meno così: chiunque osi sottrarsi allo schema binario e oppositivo “vittima-carnefice” e osi anche solo ipotizzare che le donne – non essendo “oggetti” ma soggetti – possano avere, in qualità di soggetti e in determinate situazioni, “una qualche parte” di responsabilità nel perdurare indefinitamente in una condizione di “vittima”, viene considerata complice della violenza maschilista! Che si tratti della volgare semplificazione di un tema complesso, risulta evidente dal passo che segue in cui sono due – “moderata” ed “estrema” – le versioni del “rifiuto della vittima” descritte e sottoposte a condanna:

Nella sua versione “moderata” (come appare nella campagna italiana “Riconosci la violenza”), il rifiuto della vittima si configura come una posizione anti-materialista, un wishful thinking, una pia illusione. E’ come se,  rifiutandosi di “fare la vittima”, o impedendo alle altre donne di stare “nel ruolo di vittima”, si potesse eliminare come in un gioco di prestigio quello che rende le donne obbiettivamente vittime: l’oppressione patriarcale e la violenza maschilista. Nella sua versione più estremista, l’attacco alle donne vittime di violenza rientra in una strategia più ampia di discredito nei confronti anche di altre categorie di vittime. Costruendo il fatto di essere vittima come uno stato psicologico, quasi una debolezza della vittima stessa, e non come una condizione obiettiva, il discorso anti-vittime contribuisce a negare la violenza maschilista e l’ingiustizia sociale che rappresenta, e a delegittimare le rivendicazioni delle donne che hanno subito violenza (Cole, 2007). Diventa così sempre più difficile contrastare la violenza maschilista contro le donne e il sistema sociale che la rende possibile.

Così, secondo questa lettura, la versione “moderata” e la versione “estrema” del “rifiuto della vittima” – marchiata da uno stato di debolezza psicologica invece che riconosciuta come vittima di una “condizione obiettiva” – sarebbero due modi di negazione della violenza maschilista e di delegittimazione delle rivendicazioni delle donne che hanno subito violenza. Per quanto riguarda la prima, l’insistenza sulla “potente e sistematica influenza che le categorie di genere, classe e razza esercitano sulla collocazione sociale dei soggetti” cui si fa altrove riferimento, vale la pena ricordare, a proposito del concetto di “classe” alcuni passaggi di Lonzi che qualcosa della relazione femminismo-marxismo-heghelismo aveva capito:

Le donne hanno coscienza del legame politico che esiste tra l’ideologia marxista-leninista e le loro sofferenze, bisogni, aspirazioni. Ma non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione. Non ritengono valido che la propria causa sia considerata in sottordine al problema di classe. Non possono accettare una impostazione di lotta e una prospettiva che passano sulle loro teste.

Far rientrare il problema femminile in una concezione di lotta servo-padrone quale è quella classista è un errore storico in quanto essa è sorta da una cultura che escludeva il punto di discriminazione essenziale dell’umanità, il privilegio assoluto dell’uomo sulla donna, e poneva prospettive all’umanità nei termini di una problematica maschile, cioè poneva prospettive solo alla collettività maschile.

Subordinarsi all’ impostazione classista significa per la donna riconoscere dei termini mutuati a un tipo di schiavitù diverso da quello suo proprio e che sono la testimonianza del suo misconoscimento. La donna è oppressa in quanto donna, a tutti i livelli sociali: non a livello di classe ma di sesso. Questa lacuna del marxismo non è casuale, né sarebbe colmabile ampliando il concetto di classe in modo da far posto alla massa femminile, alla nuova classe (….).

(…) La rivoluzione comunista è avvenuta su basi politico-culturali maschili, sulla repressione e la strumentalizzazione del femminismo, e deve adesso far fronte a quella rivolta contro i valori maschili che la donna vuole portare fino in fondo, oltre la dialettica delle classi interne al sistema patriarcale.

E dire e ribadire, in relazione alla “vittima”, che responsabilità e colpa sono due concetti distinti non equiparabili, non equivalenti e non identificabili trattandosi, piuttosto, nella cosiddetta “inclinazione” della donna alla subalternità e alla sottomissione, non già di una “colpa” o di una originaria tendenza “naturale”, ma di uno dei tanti effetti  indesiderati  e prevedibili di un millenario dominio,  non serve a nulla, non serve a rivedere, ripensare ridiscutere il teorema che, esemplificato recita così: Le donne sono sempre vittime, sono “oggettivamente” vittime di carnefici, sono “oggetti” che, come tali, non hanno alcun ruolo in ciò che loro accade. Affermare il contrario significherebbe ammettere l’inammissibile: il concorso di un fattore soggettivo dovuto a “un profilo psicologico deviato” che deve essere necessariamente negato nella misura in cui deve essere escluso e liquidato tutto ciò che, in un modo o nell’altro, ha a che fare con lo “psichico”,  con lo “psicologico”, con l'”individuale”, con il “personale”, insomma con la dimensione dell’inconscio. Come se non si sapesse che il cosiddetto “profilo psicologico deviato” prima che a Tizio o a Caia, appartiene a un sistema di pensiero malato qual è il sistema patriarcale che, assieme alle patologie egocentriche e narcisistiche descritte da Cavarero (autodeterminazione), genera inevitabilmente, in forza della logica binaria che lo governa, le patologie ad esse speculari ma di segno opposto di cui la posizione vittimaria è un esito. Si tratta tuttavia di una condizione non universalizzabile: non-Tutte le donne, infatti, pur facendo parte, a tutti gli effetti, del medesimo sistema simbolico oppressivo, discriminante ed escludente di cui, volenti o nolenti si sono nutrite, sono destinate ad essere vittime di qualcuno. Esiste dunque una differenza – di natura quantitativa e non qualitativa – che nulla ha a che fare con le categorie valoriali di “forza” o “debolezza”, di “vincenti” o  “perdenti”, di “riuscite” o “fallite”, di “allodeterminate” e “autodeterminate”. In che cosa consista questa differenza quantitativa, è presto detto: essa, pur dipendendo da diversi fattori, consiste,  nel grado, nella  misura, nel “quantum” di interiorizzazione, di assimilazione, di assorbimento, di inclusione, da parte di una donna, di un determinato modello di subalternità. Non si tratta dunque di  opporre “profili psicologici deviati” e profili psicologici “sani” essendo la differenza fra salute e malattia una differenza puramente quantitativa e non qualitativa. A chi si accanisce nel perpetuare e riproporre semplicisticamente lo schema vittimario, a chi vuole restare intrappolata dentro lo schema binario senza comprendere che l’uscita dal dualismo “vittima-carnefice”, “servo-padrone”, lungi dall’essere un attentato alla donna o una procedura di “rivittimizzazione” è la sola garanzia di uscita da una posizione di schiavitù, queste riflessioni non servono.

Ne deriva, si capisce, una certa stanchezza, un senso di inutilità a spendere parole per confutare l’impostazione ideologica di certi articoli che richiederebbero un impiego energetico da destinare a fini più arricchenti. La “ri-vittimizzazione” della donna su cui ripetutamente si insiste e di cui non sempre a proposito si legge, non deriva – come si vorrebbe far credere – dall’ attribuzione e dal riconoscimento alla donna di una sua parte di responsabilità (e non di “colpa”) – visto e considerato che è proprio l’assunzione di questa responsabilità a permetterle, invece, di prendere soggettivamente coscienza di una condizione subalterna e di attuare quel passaggio dalla posizione vittimaria di “oggetto” a quella di Soggetto – ma dipende da una tendenza statica, ripetitiva e mortifera a ribadire, riconfermare e alimentare, proprio e anche attraverso il linguaggio, la posizione di vittima. Che, beninteso, vittima – anche vittima – è, nel senso già indicato. Il riconoscimento di una nostra parte di responsabilità in tutto ciò che ci capita, lungi dall’essere “uno dei principali meccanismi di iscrizione soggettiva della dominazione” (!), è un meccanismo liberatorio ed è il minimo esigibile per uscire dalla posizione di vittima senza precipitare di colpo nella trappola binaria della posizione opposta, della donna “autodeterminata”, “forte”, “vincente”, “riuscita”.

Lacan non esagerava nel dire, con una battuta, che se una tegola ci cade in testa noi ne siamo in qualche modo responsabili…E’ stata la lettura dell’articolo Perché la violenza maschile sulle donne prevede una vittima e un offender  – nel cui titolo è già il programmaa sollecitarmi a ritornare sul tema. Nonostante l’articolo nel suo complesso riproponga argomenti piuttosto noti e scontati in ambito femminista, ho iniziato a leggerlo con interesse condividendone la prima parte in cui vengono ripresi temi di carattere generale su cui  non è difficile concordare. Più difficile farlo, invece, quando si comincia a entrare nel merito della relazione vittima-carnefice, o vittima-offender come vuole il titolo, nella solita ottica. I passaggi del testo che andrebbero considerati e attentamente analizzati sono diversi ma ne sceglierò, per brevità, alcuni soltanto, a cominciare da questo in cui si dice:

Sfido chiunque a portarmi davanti  una donna che sceglie consapevolmente di vivere in una situazione di violenza per fare la vittima. Ma c’è di più, perché proprio chi sbandiera questa falsa superiorità “tra donne migliori e donne peggiori” apre la voragine della vittimizzazione: queste donne perché si sentono “vittime”? vogliono essere consolate? Fanno finta? Sono delle perverse? O magari sono pazze, come vengono accusate da perizie psicologiche quando un tribunale sta per sottrarre loro i figli perché hanno denunciato il marito per violenza domestica. Un atteggiamento che, questo sì, rivittimizza le donne che non solo hanno difficoltà a uscire da una situazione di violenza per inefficienza dello Stato e la pesantezza dei fattori oggettivi, ma che non è supportata neanche dal pensiero femminista che dovrebbe stare al suo fianco e in prima linea: non vittimizzando ma raccontando quello che succede in maniera oggettiva e fornendo analisi approfondite.

La sfida qui lanciata  è una sfida per vincere la quale non c’è gioco trattandosi di una sfida vinta in partenza. Nessuna donna, infatti – a meno di essere posseduta da una pulsione demoniaca masochista – “sceglie consapevolmente” di vivere in una situazione di violenza per “fare la vittima” o per essere “consolata” o perché è una “perversa” o, men che meno, perché è “peggiore” di altre.  Il fatto è – e lo abbiamo ripetuto un’infinità di volte  –  che la nostra vita, il nostro pensiero, i nostri atti, le nostre scelte non sono governati unicamente dal primato della coscienza e dalla “consapevolezza”, ma, al contrario –  come Freud ricordava – la maggior parte dei nostri processi mentali, psichici, sono inconsci mentre la funzione della coscienza è assai ridotta. Da questo dato non si può prescindere se si vuole affrontare seriamente e non ideologicamente il problema della violenza – e non solo. L’ideologia è infatti l’esito del misconoscimento, della negazione e della sistematica fuorclusione dello psichico dal politico contro cui Antoniette Fouque già negli anni ‘70 aveva messo in guardia il femminismo:

Mi sembrava che se non avessimo tenuto conto dell’inconscio, avremmo presto navigato in pieno delirio (…). In breve, c’era dell’inconscio nella politica e della politica nell’inconscio.

Che le sue parole siano rimaste da tante inascoltate è un fatto e se ne ha chiaro sentore quando:

a) si allude a tutto ciò che riguarda la sfera della Psiché – erroneamente identificata e confusa con la “psicologizzazione”  – in termini sempre e soltanto negativi

b) quando a un’”interpretazione della realtà in termini psicologici e individualistici” viene contrapposta – come se fosse possibile scindere personale e politico, individuale e sociale, inconscio e politica  – un’interpretazione in termini “politici, economici e sociali”.

c) quando si parla della “psicologizzazione” come di “una tattica di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti” o di “un meccanismo potente per disinnescare la consapevolezza dell’oppressione e la potenziale ribellione”.

Come sia possibile trasformare quel lavoro individuale in cui la pratica autocoscienziale consiste in “una tattica di depoliticizzazione a sostegno dei rapporti di potere” quando tale lavoro va nella direzione diametralmente opposta, non si comprende. Né si comprende come una pratica nata sulla ricerca di consapevolezza circa l’oppressione subita, possa operare contro se stessa “disinnescando” questa consapevolezza e con essa ogni forma di ribellione!! Ciò che invece facilmente si comprende è che tutte queste opposizioni – da cui, naturalmente, non ci siamo fatte mancare l’opposizione tra un femminismo inteso come “valorizzazione della libertà di scelta” e un femminismo inteso come “movimento di liberazione collettiva della donne” –  non sono altro che il riflesso speculare, la brutta copia conforme e la riproposizione all’interno del femminismo, delle opposizioni esistenti fra diversi ambiti disciplinari (psicologia sociale, psicologia individuale, sociologia e così via) incapaci di entrare in connessione fra loro non essendo pensabile una scissione fra individuale e sociale, fra personale e politico.

Scrivere che l’autocoscienza è un lavoro politico e non psicologico, scindere e opporre il “lavoro politico” dal “lavoro psichico” richiamandosi al tempo stesso all’importanza della pratica autocoscienziale, significa non avere la minima consapevolezza delle contraddizioni insanabili in cui, così facendo, si affonda. Con questa opposizione, con questa scissione  è ora che, dopo quarant’anni. il femminismo faccia i conti. E’ possibile evocare costantemente la pratica dell’autocoscienza (una pratica che, come sapeva Lonzi, è assolutamente implicata con l’inconscio e con la disciplina che se ne occupa) per poi espellerla limitandosi a una “lettura” puramente ideologica e semplificata di processi altamente complessi?  Se molte donne hanno difficoltà a uscire da una situazione di violenza ciò non accade semplicemente “per inefficienza dello Stato” e per “la pesantezza dei fattori oggettivi” ma anche per dei fattori soggettivi riguardanti loro stesse e la loro storia. Naturalmente, i modi per portare acqua al proprio mulino – proponendo, all’occasione, frasi ad effetto sono tanti:

Vai a dire a una donna che è stata sfigurata con l’acido in faccia che fa la vittima, ma diglielo guardandola negli occhi (se ancora ci vede).

E’ la via più facile, certo, com’è certo che non verrebbe in mente a nessuna persona di buon senso di dire che quella donna  “fa” la vittima – visto che lo è. Ma il punto non è questo e il  fatto che a questo si finisca per ridurre tutta la questione della relazione vittima-carnefice non fa ben sperare quanto a possibili aperture e avanzamenti. Infine, se sul punto di vista espresso da Irene Zeilinger nel suo libro sull’autodifesa è senz’altro possibile convenire quando afferma che le vittime non sono “persone passive irrimediabilmente abbandonate al loro destino” – non si tratta infatti, nella posizione vittimaria, di una condizione  irreversibile ma suscettibile di trasformazione – è più difficile convenire, invece, quando le vittime vengono esonerate da qualsiasi responsabilità circa la violenza loro inflitta:

Se parlo di vittime, non si tratta assolutamente di persone passive, irrimediabilmente abbandonate al loro destino. Non si tratta di uno stato irreversibile; inoltre, esser stata vittima a un certo momento della vita non significa che vittima si debba restare per il resto dei propri giorni. Utilizzo il termine vittima nel senso che queste persone non sono responsabili della violenza che è, o è stata, loro inflitta, nel senso che non hanno scelto di essere vittime, né erano nate vittime. Le vittime sono persone che si trovano confrontate a una realtà spesso brutale, e che fanno del loro meglio per tirarsene fuori” (Zeilinger, 2008, p. 9).

Vittime non si nasce, certo, ma lo si può diventare non per una scelta responsabile e consapevole ma per una “responsabilità inconsapevole”. Non tutte le donne costrette a confrontarsi con realtà  brutali e violente diventano vittime di violenza. E fare del loro meglio per tirarsene fuori significa, quando sia necessario, fare un percorso per capire che cosa le costringa inconsciamente a starci dentro anche a rischio della loro vita. Siamo dunque responsabili del nostro inconscio? Ebbene sì, siamo responsabili del nostra volontà di non sapere, della nostra ignoranza su noi stesse e lo siamo tanto di più quando questa ignoranza minaccia la nostra vita. Ma siamo responsabili anche quando con la diffusione dei nostri messaggi, delle nostre parole, con i nostri “pro” e i nostri “contro”, con la nostra fede nelle ideologie, contribuiamo a coltivare quell’ignoranza, quella volontà di non sapere.