Amor di Sé che più non fugge..

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di Leda Bubola / Si dice che gli opposti si attraggono, la loro diversità si colloca tra due poli estremi, uno positivo e uno negativo, che si chiamano reciprocamente per darsi ciò cui entrambe anelano, ciò di cui entrambe mancano. È in questo senso della mancanza, in questa assenza sfuggita di riflesso che ama inserirsi il male. E il male non ha le corna, non è l’Altro oscuro e caotico che fa capolino nell’immaginazione aiutato dalle Sacre immagini, non è Dioniso, l’impulso sessuale scevro di ornamenti che perseguita gli animi degli esistenzialisti e dei trascendentali, il male è semplicemente quella scelta compiuta di fronte a se stesse che porta alla perdita di Sé, a quel vuoto incolmabile che solo l’Altro può colmare. Se Sé è nulla, esso manca anche della capacità immaginativa di diventar qualcosa, pur nella consapevolezza dell’artificio, e dunque non è solo povero ma anche astinente, e l’astinenza porta al mendicare.

Chi non sa stare con Sé nel suo vuoto non è biasimevole ma poco incline a esperire il lutto, incapace di lasciar andare l’immagine con cui più si riconosce. Forse una ferita profonda vi ha impresso un tratto ineliminabile che rende impossibile la dissoluzione della figura e la sua ricomposizione in altro. Non voglio cercar colpevoli o responsabili di una cicatrice che inchioda l’anima al banco dei testimoni di una violenza compiuta, voglio capire come quel chiodo possa trasformarsi in aggancio per la libertà.

La presa di coscienza non è ammissione di colpevolezza ma riferimento a Sé e, ovunque non ci sia un totale stato di coercizione, il riferimento a Sé è possibilità di riconfigurazione. Lungi dall’essere un percorso semplice e privo di inciampi, soprattutto quando la violenza ha segnato la narrazione di una vita fin dal suo principio, è, tuttavia, unica possibilità di fuoriuscita dalla dinamica vittima-carnefice.

Non c’è mai stata reale separazione tra filosofia, psicologia, psicanalisi, femminismo, politica; inutile dire che chi contribuisce ad alimentare una distinzione come questa spacciandola per reale e nascondendone il carattere arbitrario e fortemente manipolatorio a favore dell’imposizione di un primato fallico, nasconde proprio quella rete di connessioni vitali che articolano una nuova concezione del Sé che, tenendo conto del genere, si sviluppi attorno ai molteplici livelli dell’esistenza sui quali esso stesso si genera. Perché l’identità, il soggetto, l’Io, per quanto si siano sforzati di tenere distante l’alterità facendo della separazione ben altro che una triste consapevolezza, erigendola a significazione della propria potenza, hanno cercato invano di nascondere la loro stessa debolezza. L’Io, non appena guardato un po’ più da vicino, si sbriciola tra le dita e svela la sua fragilità assassina. Tutto ciò che è unicamente auto-riferito, che si autoriproduce estromettendo da Sé le componenti viziose, le inclinazioni, il dubbio, le passioni, le emozioni – tutte rivolte fuori di sé, a seguire quell’anelito che conduce fino alla scelta – non può che giungere all’autodistruzione.

Il “vuoto che solo l’Altro può colmare” non è tanto distante dall’ “Io autosufficiente”, sono due rovesci della stessa medaglia, due fantasmagorie che portano all’autodistruzione e alla costituzione di false alternative tra cui quella tra vittima e carnefice: mettersi in mano all’altro è una conseguenza del sentirsi nulli, dove quel nulla non è il pasoliniano “sacro poco” ma l’annientamento del Sé, quel “poco” senza più la componente “sacra” che lo tutela dal suo disfacimento prematuro. Eppure c’è un tratto che ritorna, per negazione, in queste narrazioni del Sé oscillanti tra autocelebrazione e denigrazione, il patire. L’ homo patients semina il sotterraneo campo d’azione, parla senza essere nominato direttamente, esso è il sottosuolo sul quale si installa il soggetto, l’uomo o la donna. È Freud in Analisi terminabile e interminabile (1937)a dire che esiste uno scoglio al termine, o presunto tale, di percorsi analitici di uomini e donne, questo scoglio – come ci ricorda Paola Zaretti – si chiama “rifiuto del femminile”. E’ come se si trattasse di una scelta inconscia talmente interiorizzata da costituire quasi un riflesso incondizionato di fronte alla tragica realtà dell’esistenza. E’ proprio questa a non essere accettata, la compresenza di mortalità e bellezza in un respiro che dura, ormai, da un’eternità. Al suo posto, al posto di quel vuoto, mettiamo un oggetto, poco importa se uomo, donna o materia inanimata, esso riempie d’illusione mortifera la profondità dell’esistenza destituendola del suo senso intrinseco. Cosa porta gli uomini a sporcarsi le mani del sangue di altri uomini, di altre donne, di bambini, che cosa li porta a commettere atti osceni che strappano l’umanità di quella poca dignità ancora rimasta? E quella violenza così a lungo teorizzata, normalizzata, istituzionalizzata si rovescia sugli autori e le autrici stesse di quei crimini a ricordarci che ciò che si infligge agli altri è speculare a ciò che si infligge a se stessi (S. Natoli cit. in Donne in Strada a cura di Oikos Bios). La violenza è odio di sé, di quella parte animale, primitiva, femminile, corporea, mortale di cui ci ricorda Gian Andrea Franchi nell’ultimo scritto pubblicato da Tabula Rasa (http://femminismoinstrada.altervista.org/confini-e-flussi/).

Una risposta a “Amor di Sé che più non fugge..

  1. interessantissima analisi anche se, per me, con passaggi difficili.
    Mi aiuta nella riflessione che da tempo sto tentando di fare su me stessa: io paladina di tutte le libertà possibili, femminista, combattente in favore dei diritti civili, IO, amo essere predata, domata, vittima…con puntigliosa cocciutaggine mi scelgo(e sono scelta) il mio persecutore. Vorrei liberarmene, ma ne ho paura, perchè temo di perdere IL PIACERE di soffrire .La sofferenza, fisica,mentale,spirituale, da spessore e livello al tipo di esistenza che si sceglie di fare. E’ un problema. Gli eventi facili, non mi coinvolgono. Il raggiungimento dell’impossibile è il vero traguardo.
    Grazie

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